Anni di piombo

Cuore
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“Anni di piombo” di Mariella Loi, pubblicata sul n 21 di Confidenze, è una delle storie vere più apprezzate questa settimana sulla pagina Facebook. Ve la riproponiamo sul blog

 

 

Mio padre, un servitore dello Stato, fu ucciso da un gruppo di terroristi. C’è voluto tempo, ma sono riuscita a trasformare l’odio verso i suoi assassini in qualcosa di costruttivo

Storia vera di Francesca D. raccolta da Mariella Loi

 

Mio padre lo ammazzarono sotto casa la mattina del 16 dicembre 1977.

Diciassette colpi di mitraglietta Skorpion sparati a distanza ravvicinata e di lui non restava altro che un corpo inerte, accasciato sull’asfalto, imbevuto del suo stesso sangue.

Da tempo sapeva di essere nel mirino dei terroristi, ma in tanti lo erano in quei giorni.

Così continuavamo a vivere la nostra vita, cercando di ignorare la paura che ci attanagliava tutti.

Prima di scappare via, quei vigliacchi lasciarono una scritta, vergata con vernice rossa che pareva sangue e l’immancabile firma di una stella a cinque punte.

Nel volantino che fu recapitato all’Ansa, provarono pure ad alzare il tiro delle loro rivendicazioni.

Un ammasso di discorsi vuoti e farneticanti che si chiudevano con una sequela ossessiva di minacce  per quelli che chiamavano i “nemici del popolo”.

Il popolo. Che ne sapevano del popolo, quei tre ragazzotti ancora imberbi, cresciuti al riparo dai problemi veri della vita, che per sentirsi grandi giocavano alla rivoluzione?

Avrebbero dovuto viverci loro, anche per un solo giorno, in quel paesino dell’altopiano delle Murge da cui era partito mio padre tanti anni prima, là dove la miseria era talmente tanta che in certi giorni ne potevi sentire persino il puzzo.

Del giorno del funerale non ricordo molto, ero come anestetizzata dal dolore. Sedevo accanto a mia madre e mio fratello per tutto il tempo mi tenne la mano stretta nella sua.

Mi accompagnò a lungo una nota di fastidio suscitata da un cameraman che si ostinava a riprendere da vicino il volto di mia madre solcato dalle lacrime. Avrei voluto urlargli: “Che cavolo hai da riprendere? Le hanno ammazzato il marito, vuoi che non pianga?”.

Ma neanche un sussurro usciva dalla mia bocca mentre guardavo come ipnotizzata le tante cariche dello Stato che sedevano nella fila accanto alla nostra.

Li guardavo con un misto di curiosità e di rabbia: gli unici per i quali avevo uno sguardo benevolo erano i loro uomini della scorta, soprattutto quelli che portavano la divisa da Carabiniere, la stessa che mio padre aveva indossato fino all’ultimo con onore.

Il tempo delle commemorazioni si chiuse in fretta lasciando presto spazio a quello dell’oblio.

Nessuno venne mai a chiederci dopo come stavamo o se avevamo bisogno di qualcosa: allora non c’era questo tipo di sensibilità e anche per questo ci sentimmo doppiamente abbandonati.

 

La prima conseguenza della morte di mio padre fu che alla conclusione della scuola superiore non mi iscrissi all’università.

Gli ultimi due anni del liceo erano stati già abbastanza duri tra cortei e occupazioni e io non mi sentivo di aprire un nuovo ciclo della mia esistenza in un contesto di assemblee urlanti. Non c’era spazio in quell’ambiente per le mie rivendicazioni di figlia e preferivo coltivare il risentimento in assoluto silenzio.

Cominciai a lavorare, percependo un salario molto basso per un impiego che neanche mi piaceva.

Mio fratello invece andò all’università, lavorando di giorno e studiando la sera.

Rimproverò con durezza la mia scelta che definì una resa. Disse che arrendersi era come tradire nostro padre e che lui non intendeva regalare il proprio futuro a quelli che lo avevano ucciso.

Aveva ragione, ma continuai per la mia strada.

La consuetudine di giornate tutte uguali fu bruscamente interrotta dalla notizia dell’arresto degli assassini di mio padre. Due erano stati catturati a seguito di una retata all’interno di un covo, il terzo mentre ancora dormiva nel letto di casa sua, un lussuoso appartamento nel centro di Milano.

Nei giorni successivi i giornali furono particolarmente prodighi di dettagli su quei tre giovanotti di buona famiglia.

Mi chiedevo se era la noia per il bel vivere ad averli spinti una mattina fin sotto casa mia, un agglomerato di palazzine ai margini di un quartiere popolare, per uccidere un uomo inerme.

Si erano guardati intorno durante i sopralluoghi nei giorni precedenti alla loro azione, ma evidentemente non erano capaci di riconoscere quel popolo di cui si riempivano la bocca.

Al processo partecipai a tutte le udienze. Volevo guardare in faccia quegli assassini, volevo che cogliessero il mio odio. Mi immaginavo un contesto solenne e silenzioso, l’atmosfera austera di un’aula di tribunale, ma la realtà differiva alquanto dall’immagine che mi ero prefigurata.

Una gabbia popolata di scimmie indisciplinate e urlanti fu lo spettacolo indecoroso che ci accolse. Constatai che del mio odio non importava a nessuno fra quelli che, anche tra le sbarre, continuavano con modalità deliranti a inneggiare alla rivoluzione. Non ero preparata agli sbeffeggiamenti coi quali accolsero mia madre il giorno della sua deposizione in aula. Il mio odio insomma era ben poca cosa dinanzi a quello del tutto immotivato che si esibiva davanti ai miei occhi.

 

Il processo durò a lungo e si concluse con condanne pesanti che tuttavia a me parvero lievi per chi si era macchiato del sangue di un innocente. Quel giorno mi resi conto che avrei dovuto fare i conti con l’odio che portavo dentro.

La prima conseguenza di quella prova difficile fu che l’autunno successivo mi iscrissi all’università, a Giurisprudenza. Era arrivato il momento di convertire il rancore sterile in azione costruttiva e, anche se non sapevo bene come, pensai che quello fosse il primo passo da compiere.

Mio fratello ne fu enormemente compiaciuto. Mi abbracciò forte e mi disse che aveva sempre saputo che presto o tardi avrei preso quella decisione.

Gli anni successivi richiesero un grande impegno, ma anche nei momenti più duri non mi venne mai meno la determinazione.

Nel frattempo si era aperta la stagione dei pentiti e, al processo d’appello, uno degli assassini di mio padre, avendo collaborato con le forze dell’ordine, ottenne un considerevole sconto di pena che lo portò in pochi anni a fruire del regime di semilibertà, seguito poi dalla scarcerazione.

Questa volta decisi di non partecipare al processo. Mi estraniai da quell’evento, terrorizzata dall’idea di poter ricadere preda dell’odio.

Mi laureai in Giurisprudenza col massimo dei voti e l’anno successivo feci il concorso per entrare nella Polizia di Stato. Solo allora cominciò il mio lento percorso di ricostruzione interiore. Lavorare per il bene della comunità, mettendo la mia esperienza investigativa al servizio di quanti avevano subito gravi torti, diede un nuovo significato alla mia sofferenza, alleviandone il carico.

Negli anni ho capito che quando non si può cambiare il passato, l’unica scelta possibile è quella di mettere il proprio dolore al servizio di una causa più grande e condivisa. Non è sempre facile, ancor meno in questi giorni quando certi personaggi, approfittando della visibilità data loro dal quarantennale di un evento tragico, colgono l’occasione per parlare di quei fatti in modo irrispettoso. Sarebbe auspicabile un comportamento di basso profilo da parte di chi non si è mai pentito.

In quanto a me, non ho mai veramente perdonato, ma soltanto quando ho scelto di deporre le armi dell’odio, ho cominciato a onorare davvero la memoria di mio padre.

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