Circe di Madeline Miller

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La Miller osa, come una levatrice fa nascere da un ventre riconosciuto una storia nuova, quella della maga Circe

“Sono invecchiata. Quando mi guardo nel bronzo lucido dello specchio vedo delle rughe sul mio viso. Sono anche ingrossata e la pelle ha cominciato a cedere. Mentre lavoro alle erbe mi taglio e le cicatrici perdurano. A volte mi piace. A volte mi sento inutile e insoddisfatta. Ma non vorrei mai tornare quella che ero. (…) So quanto sono fortunata, instupidita dalla fortuna, traboccante di fortuna, ebbra e incespicante di fortuna. A volte mi sveglio nel buio terrorizzata dalla precarietà della mia vita, dal suo esile respiro. Accanto a me, mio marito, il polso che gli batte nella gola; nei loro letti, le mie figlie mostrano sulla pelle ogni più piccolo graffio. Un soffio di brezza potrebbe spazzarle via, e al mondo c’è ben più della brezza: disastri su disastri, mostri e dolore in migliaia di possibili varianti. (…) Telemaco scende dal letto per venirmi a cercare. Siede con me nell’oscurità che odora di erba, mi tiene la mano. Entrambi i nostri visi sono rugosi, adesso, segnati dagli anni. Circe, dice, andrà tutto bene. Non sono le parole di un oracolo né di un profeta. Sono parole che potresti dire a un bambino. L’ho sentito che le diceva alle nostre figlie, nel cullarle per farle riaddormentare dopo un incubo, nel medicare le loro piccole ferite, nel placare qualsiasi loro tormento. Sotto le dita, la sua pelle mi è familiare quanto la mia. Ascolto il suo respiro, tiepido sull’aria notturna, e in qualche modo mi conforta. Lui non intende dire che non fa male. Non intende dire che non siamo spaventati. Solo questo: che siamo qui. È questo che vuol dire nuotare nella corrente, camminare sulla terra e sentirne il tocco sotto i piedi. È questo che significa essere vivi”. 

Madeline Miller è una scrittrice pazzesca. Ha il potere della narrazione e la missione della ricerca, dello studio. Quando, anni fa, quasi per sbaglio mi capitò tra le mani il suo primo romanzo, La canzone di Achille, fu un momento bellissimo. Leggere, senza tradire o superare o evitare le fonti storiche, la splendida storia d’amore tra Achille e Patroclo, il loro patto eterno, il tutto accarezzato da una scrittura elegante, emotivamente diretta ma non semplicistica, una manna dal cielo.

Per farvi assaggiare la bellezza della scrittura della Miller credo possa essere sufficiente il brano riportato all’inizio del post, che del romanzo – 400 pagine per entrare in quello spazio fluido che unisce l’Olimpo al mondo dei mortali – è quasi la fine della storia.

Chi era Circe? Di lei sappiamo quello che abbiamo sempre voluto sapere, in relazione alla storia di Ulisse/Odisseo. Sufficiente, per una divinità titana, figlia del Sole, Elios, e della ninfa Perseide? O non è forse un po’ poco relegarne l’esistenza ad un frame?

La Miller le dona voce fin dalla sua nascita, “nacqui quando ancora non esisteva nome per ciò che ero”, una voce di una bambina derisa dai fratelli, non amata dalla madre, guardata in modo poco diretto dal padre. Circe prende di petto l’immortalità degli dei e li sfida. Ci mostra gli aspetti meno altisonanti, Circe, di chi è stato cantato oltre il proprio mito.

Telemaco si alza dal letto della maga. Il figlio di Odisseo e di Penelope. Fratello di Telegono, figlio di Odisseo e Circe. Telemaco e Circe, quindi. La Miller osa, come una levatrice fa nascere da un ventre riconosciuto una storia nuova, un ‘figlio’ forse bastardo ma perfetto.

 

Madeline Miller, Circe, Sonzogno

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