Dove sono finite le galline?

Cuore
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Una delle storie vere più apprezzate del n. 20 di Confidenze è stata “Dove sono finite le galline?” di Roberta Giudetti. Ve la riproponiamo sul blog, e vi invitiamo a votare le vostre storie preferite sulla pagina Facebook

 

Ho continuato a cercarle per tanto tempo. Mi ricordavano il mio villaggio. Perchè io vengo dalle rive del Mekong e avevo tanta nostalgia della Cambogia, la mia terra. Ma era destino che la mia fiaba mi portasse lontano

Storia vera di Misa Noto Pheap Seng raccolta da Roberta Giudetti

 

Se guardi un bosco da lontano, seduto dietro ai vetri della finestra di camera tua, gli alberi sembrano tutti uguali. Puoi persino arrivare a credere che un albero valga l’altro, che un luogo, in fondo, possa essere simile a un altro.

Ricordo che quando mi portarono in Italia, dalla finestra dell’ospedale, cercavo gli alberi. Non conoscevo una parola d’italiano e non parlavo più, ma continuavo a disegnare alberi su qualsiasi foglio mi capitasse sotto mano. Mi mancavano tutte le sfumature di verde del mio paese. E le galline. Dove erano finite le galline?

“Dove sono le galline?” è stata la prima frase di senso compiuto che ho pronunciato quando ho imparato a parlare un po’ in italiano.

Non capivo cosa fosse successo. Il giorno prima della mia partenza, Gnot, con gli occhi pieni di lacrime, mi aveva detto che era accaduta una cosa meravigliosa: avevo vinto un biglietto per un viaggio in un luogo bellissimo. Un luogo dove avrei potuto mangiare qualsiasi cosa in quantità. Avevo sette anni e mezzo e una fame atavica. Nulla era più prezioso della prospettiva di avere tanto cibo per una bambina malata e malnutrita, abituata a mangiare ogni tanto e a rischiare la vita per rubare un frutto o una pannocchia. «Ma tu non vieni?» avevo domandato, estasiata e anche preoccupata.

«Non posso. Il biglietto fortunato lo hai vinto solo tu».

«Allora quando tornerò a casa, porterò cibo per tutti. Papà, quando ti rivedrò?».

«Domani. Mi rivedrai domani».

Ero felice perché avrei portato dolci a tutti i miei fratelli e alle mie sorelle.

Mio padre mi aveva raccontato una favola per farmi partire serena, ma dopo qualche giorno, all’ospedale di Lecco, avevo capito che il cibo non c’entrava nulla con quel viaggio in Italia e che non sarei tornata a portare caramelle a nessuno.

Dalla finestra non vedevo né alberi, né fiumi, ma solo case e cemento.

Non parlavo più. Sbattevo la testa nelle pareti. Contavo fino a 20 e poi ricominciavo. Contavo i giorni che passavano lenti. Con me però c’erano Stefano e Elena, due medici che mi avevano curata quando ero ancora a casa, in Cambogia. Se avevo capito bene, erano i miei nuovi genitori. Loro erano affettuosi e per farmi smettere di piangere mi abbracciavano e mi davano baci sulla fronte in continuazione, ma io mi ritraevo spaventata perché non sapevo che quelli fossero gesti d’amore. Nel mio Paese non ci si abbraccia e non ci si bacia. Per conoscersi, per esprimere affetto, ci si annusa. Ero sola. Sola e molto malata. Ma Stefano ed Elena, i miei genitori affidatari, mi stavano facendo curare dai migliori specialisti.

Grazie a loro non ho perso la gamba. Se fossi rimasta nel mio Paese, non so cosa sarebbe stato di me. Ma questo, allora, non potevo saperlo.

 

Sono nata a Pursat, un villaggio della terra, in Cambogia. Nel mio Paese i villaggi si differenziano così, in base alle risorse naturali che offrono. Ci sono villaggi dell’acqua e villaggi delle spezie. Il mio villaggio era ricco di riso e legname – doni della terra – ma la guerra lo aveva reso povero e pericoloso. Gli ospedali erano pieni di uomini, donne e bambini senza arti, colpiti dalle mine antiuomo. Credo che la Cambogia sia ancora uno dei Paesi più poveri al mondo.

Mio padre, ai tempi della guerra del Vietnam, era stato arruolato a forza dagli Khmer Rossi di Pol Pot; come la maggior parte dei giovani contadini, erano stati ricattati per entrare nell’esercito con la minaccia di morte di tutti i familiari se non si fossero battuti per loro. Nel ‘79, appena finita la guerra, Gnot si era rifugiato in Thailandia e lì aveva conosciuto Pong, mia madre. Erano tornati insieme in Cambogia, attraversando il fiume Mekong, su una zattera e insieme a tanti altri rifugiati avevano fondato il loro villaggio e iniziato una nuova vita. Quando mio padre e un suo amico hanno scoperto che Pol Pot si era nascosto in un villaggio vicino al loro, una notte, sono partiti per tendergli un agguato. Volevano giustizia, ma si sono imbattuti solo in altro dolore. Sono finiti insieme su una mina antiuomo.

Mio padre sopravvisse ma perse la gamba sinistra, che gli fu amputata in modo casalingo da un medico del villaggio. Era come se fosse stato marchiato per sempre dal ricordo del periodo più atroce della sua vita.

Va da sé che i motivi per cercare di salvarmi la vita, per Gnot, erano davvero tanti. La possibilità di andare via da quella terra ancora così dilaniata dalle conseguenze di una guerra che aveva portato con sé milioni di morti e feriti, era per mio padre il più bel dono che potesse farmi. Ma ero troppo giovane per capire tutto questo.

Eravamo in otto, e io ero la più piccina delle femmine. Eravamo tutti malnutriti, ma io più degli altri, perché essendo piccola non riuscivo a procurarmi il cibo. Mangiavo poco, e bevevo acqua sporca e inquinata. Un giorno, stavo correndo verso casa, sono caduta. Sul femore sinistro si è formato un enorme ematoma. In seguito alla rottura dell’osso, il versamento si è infettato rapidamente per cui i miei genitori hanno chiamato lo stregone del villaggio. Non ho mai scordato quel primo intervento: mi tagliò a mente serena, ripulì la ferita, vi inserì erbe medicamentose, la avvolse con foglie di banano e la steccò con il bambù. Rimasi svenuta per sei ore.

L’intervento dello stregone non fece che peggiorare l’infezione. Nel migliore dei casi, avrei perso la gamba, nel peggiore, sarei morta. I miei genitori vendettero le mucche per poter pagare una visita specialistica e la diagnosi fu precisa: osteomielite. Avevo bisogno di cure specifiche altrimenti non sarei sopravvissuta. Un giorno consigliarono a mio padre di portarmi in un ospedale di Emergency, a tre giorni di viaggio. Gnot lasciò mia madre, i miei fratelli e le mie sorelle per starmi vicino. In quell’ospedale, dove regnava il dolore, ho conosciuto Stefano ed Elena, medici italiani che lavoravano a Milano, nell’ospedale di Niguarda.

 

Dopo un anno e mezzo che ero lì, un chirurgo olandese dichiarò che l’unica speranza era un intervento definitivo, l’amputazione della gamba, fino all’anca. Per me sarebbe equivalso alla morte sociale. Nel mio Paese una donna portatrice di handicap non è semplicemente una persona disabile, è un’offesa. Una vergogna da nascondere. La mia vita sarebbe finita comunque. Nessun ragazzo del villaggio mi avrebbe chiesto in moglie e sarei diventata solo un peso per la mia famiglia. Stefano ed Elena capivano tutte le ragioni per tentare ogni altra soluzione e salvarmi la gamba, ma sapevano che se mi avessero portato via da lì, avrebbero avuto molte più possibilità. Ne parlarono a mio padre. Gnot aveva capito che non mi avrebbe rivisto per molto tempo, ma era meglio che perdermi per sempre. Per Stefano ed Elena, all’inizio, rappresentavo soprattutto una sfida, ma durante quei sei mesi a Emergency si erano affezionati a me. Stefano ancora oggi sostiene che ero la bambina più bella dell’intero ospedale ed Elena dice che nessuna sorrideva quanto me.

Le pratiche per l’affido sono state lunghe, separate da quelle che mi avrebbero assicurato le cure necessarie. Avevano trovato un medico dell’ospedale di Lecco che avrebbe provato a operarmi.

Sono partita dal mio Paese felice, sicura di andare in un posto bellissimo pieno di torte e cioccolata, riempirne un sacco e portarlo alla mia famiglia, ma invece non sono tornata per molto tempo. La mia casa divenne l’ospedale.

Dopo oltre un anno, mentre stava iniziando il processo di guarigione, ho smesso di piangere. A dieci anni ho deciso che era tempo di chiudere con il passato e di rinascere. Ho iniziato soprattutto a leggere. A viaggiare con la fantasia. A scordarmi il mio paese, la mia famiglia, la mia lingua. Gnot e Pong mi scrivevano lettere che ci venivano recapitate da un amico cambogiano, ma non volevo sapere più nulla di loro. Ero una bambina e non riuscivo a capire quel sacrificio in cambio della mia salvezza. Credevo mi avessero venduta. Tanto, io avevo un nuovo padre e una nuova madre che mi adoravano e che avevano avviato le pratiche per l’adozione. Mio padre non si chiamava Gnot, ma Stefano. Mia madre non era mai stata Pong, ma Elena. Non ero più Pheap Seng. Non ero più Fior di loto, ero Misa Noto. Era iniziata per me una nuova vita. Avevo una nuova casa, nuovi amici e compagni di scuola. Stavo molto bene con Stefano ed Elena. Durante i fine settimana mi portavano a fare lunghe gite al parco, allo zoo, all’acquario, alla loro casa al mare in Toscana e in luoghi sempre a diretto contatto con la natura.

 

Avevo stampelle tutte colorate con cui mi muovevo sempre più agilmente. Gli anni passavano e io stavo diventando una giovane donna. Dentro di me, covavo una rabbia muta, ma quale adolescente non è pieno di odio? I miei genitori mi ripetevano che Gnot e Pong mi amavano, che pensavano sempre a me, ma io non ci credevo. Quando mi parlavano della mia famiglia mi si induriva ogni arto non solo il cuore. Finché mio padre, Stefano, decise che era giunto il momento di tornare a casa e organizzò una vacanza per ritrovare le mie radici.

Ero imperturbabile. Non ricordavo una sola frase in cambogiano. Ero una giovane quindicenne italiana dai tratti asiatici, tutto qui.

Una volta scesa dall’aereo, però, avevo iniziato a percepire uno strano ronzio nelle orecchie e nello stomaco. Gli occhi erano diventati umidi, la gola secca. All’apparenza, restavo una statua di marmo. Fredda e altera. Non li avrei riconosciuti. Non li avrei nemmeno salutati.

Scesa dall’auto che ci ha portato a Pursat ho iniziato a ricordarmi degli alberi, del viale, delle palafitte. In fondo alla strada, un gruppo di persone, la mia famiglia. Davanti a tutti, lui. Gnot, che nella mia lingua significa legno. Quando l’ho visto ho stretto i pugni nelle tasche così forte da farmi male. Ho sentito come se centinaia di spilli mi pungessero gli occhi e ho iniziato a piangere. Nonostante la gamba sempre un po’ sofferente, ho cominciato a correre verso mio padre e lui verso di me. Lui con la sua gamba mutilata dalla guerra, io con la mia, lacerata dalla fame. Quando è inciampato e caduto, sono corsa a soccorrerlo. Era proprio lui. Era mio padre. L’uomo che si era inventato una favola per farmi partire serena. Che ha mentito per potermi salvare. Nel suo sguardo pieno d’amore, gratitudine e vergogna, leggevo finalmente il suo sacrificio al fine di donarmi una vita migliore. Una vita degna. La rabbia è svanita come la ciotola di riso che ho mangiato insieme alla mia famiglia.

 

Per due settimane ho ritrovato quella parte di me che avevo lasciato nell’ospedale di Lecco. Quando siamo ripartiti, ho sentito che quella sarebbe stata la mia vera rinascita.

Ho dovuto sottopormi a oltre 20 interventi chirurgici alla gamba durante gli anni della crescita e oggi sono una giovane donna con le idee piuttosto chiare sulla vita e sull’amore. Amo la poesia, la musica, l’arte, la fotografia, il cinema e tutto ciò che è bello e può migliorare la nostra esistenza. Oggi amo persino i baci anche se la prima volta che un ragazzo mi ha baciata, a 16 anni, gli ho chiesto perché volesse mangiarmi. Ho frequentato il Liceo artistico e ora sono al terzo anno di Accademia di Belle arti. Ho molti amici, adoro la musica rap, cantare e danzare, come una qualsiasi ventenne di questa terra. Riconosco di essere stata molto fortunata a incontrare i miei genitori italiani, non solo perché mi hanno salvato la gamba e la vita, ma soprattutto perché mi hanno regalato un sogno e la possibilità di realizzarlo. Nel frattempo, Elena e Stefano si sono separati. Durante gli anni del liceo, ho vissuto con mamma Elena ad Arese, poi mi sono trasferita a Milano da papà Stefano. L’amicizia, la stima e l’amore fra loro sono ancora vivi e io lo sento ogni volta che siamo tutti insieme.

L’estate scorsa, dopo sette anni, sono tornata nuovamente a casa.

Per un mese mi sono goduta la mia famiglia ed è stato magico. Ho scattato mille splendide foto dei miei panorami interiori.

Pong, mia madre, ha ricevuto ben tre proposte di matrimonio per me, ma le abbiamo cortesemente rifiutate.

Una piccola parte di me è ancora quella bambina che voleva solo tornare a casa con un sacco pieno di dolciumi per i suoi fratelli e le sue sorelle, ma la parte più importante di me, è molto altro. È tutto quello che ho respirato, imparato, assimilato qui, dalla mia nuova famiglia, nella mia nuova vita, partendo da tutto quello che sono stata e ho respirato dove sono nata, soprattutto il dolore.

Non sarei così forte oggi, non avrei questa energia e questa voglia di vivere se non avessi conosciuto la sofferenza e la paura. La fame e la malattia. Sono Misa Noto, ma sono anche Pheap Seng. Sono questa incredibile combinazione di sapori, sogni, umori, paure, amore, fragilità e speranze. Sono la ragazza italiana dai tratti asiatici che festeggia il Natale insieme alla sua famiglia. E sono la giovane cambogiana buddista che ama Caravaggio, le poesie di Montale, i film di Tarantino e la pizza napoletana. E sono quella che ancora ama stare seduta alla finestra a guardare gli alberi.

Se guardi un bosco da lontano, seduto dietro ai vetri di una finestra, a volte gli alberi sembrano tutti uguali, ma non è mai così. Ogni tronco ha la sua storia. Ogni foglia, il suo colore. Ogni ramo ha il suo dolore. Ogni vita, il suo destino.

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