Il Cicciobello nero

Cuore
Ascolta la storia

La storia vera più apprezzata della settimana è “Il Cicciobello nero” di Manuela Zanoletti, pubblicata sul n. 38 di Confidenze. Valentina, una nostra lettrice, scrive: “Voto per quel senso di maternità, di tenerezza e uguaglianza che mi ha trasmesso”

 

Storia vera di Alessandra D. raccolta da Manuela Zanoletti

 

Sono passati tanti anni, ma ricordo tutto come se fosse ieri. Era stato il regalo del mio quinto compleanno e lo avevo desiderato con tutto il cuore. Un Cicciobello, quella bellissima bambola a forma di neonato, che potevi vestire, lavare, cullare e nutrire. I modelli più in voga di quel periodo erano persino in grado di fare la pipì e io non vedevo l’ora di poter cambiare il pannolino al mio Cicciobello.

Avevo aperto il pacchetto con mani tremanti, sentenziando: «Lo chiamerò Alex».

Ma quando lo vidi rimasi senza parole. Lo presi e cominciai a rigirarlo.

«È quello che volevi tu» disse la mamma, contenta, «ha in bocca il ciuccio e se lo togli puoi dargli i biberon con l’acqua. E poi fa anche la pipì».

Infatti nella confezione c’erano alcuni pannolini. Era proprio quello che desideravo, peccato per un piccolo particolare.

«Mamma!» urlai, «Ma è nero! Io non volevo un Cicciobello nero, io lo volevo come me».

Dissi quelle parole con l’ingenuità dei miei cinque anni, non certo per razzismo. Ma ero profondamente delusa e corsi in camera lasciando attonita mia madre e gli invitati della festicciola. La mamma mi raggiunse subito. Teneva il bambolotto tra le braccia.

«Mi dispiace tesoro, ma nel negozio i Cicciobello “rosa” erano finiti. Il negoziante mi ha fatto vedere questo, mi ha detto che non riusciva a venderlo perché era nero e che mi avrebbe fatto lo sconto. Ci credi che mi ha fatto tenerezza? Ho pensato che un Cicciobello speciale meritasse una bambina speciale e che tu fossi quella giusta».

Guardai il bambolotto con più attenzione. Mia madre sapeva sempre dove colpire per farmi commuovere.

«Davvero mamma non lo voleva nessuno?». E allungai le braccia per prenderlo.

«Già, pensa come si sentiva solo e triste».

«E non lo volevano solo perché è nero?» chiesi stupita, ignorando il fatto che io stessa poco prima avevo commesso lo stesso peccato.

«Sì, non lo volevano per questo. Poi…» aggiunse con un guizzo negli occhi, «ho usato i soldi dello sconto per comprargli un paio di vestitini. Cosa ne pensi?».

Le vestine erano bianche con pizzi e gli donavano tantissimo. Non credo che a un bambolotto rosa sarebbero state altrettanto bene.

 

Così cominciai anch’io a giocare “a fare la mamma”. Alex (ovviamente il nome che avevo scelto era rimasto) era un “bambino” bravissimo. Me lo portavo in giro dappertutto, nel suo piccolo passeggino colorato. Andavo spesso al parco dove incontravo le mie amichette con i loro “figlioletti” e lì ci raccontavamo tutte le nostre piccole tribolazioni.

Mi ricorderò sempre un giorno in cui al parco c’era una bambina nuova. Aveva guardato il mio Cicciobello con aria disgustata. «Come mai il tuo bambino è nero?» mi aveva chiesto.

Non era la prima volta che mi facevano questa domanda e seppi subito come risponderle.

«Perché l’ho adottato. La mia mamma dice che in Africa ci sono tanti bambini e poche cose da mangiare e così alcuni muoiono di fame. Allora per non farli morire li prendono e li portano qui da noi che abbiamo sempre la dispensa piena. È una cosa che succede davvero», puntualizzai.

Non so quanto quella bimba capì dalla mia stramba spiegazione, so solo che fece spallucce e disse: «Secondo me è brutto. Io non lo vorrei mai un Cicciobello così».

Abbassai gli occhi, c’ero rimasta male ma feci finta di nulla e continuai a giocare.

Quel giorno trattai il mio bambolotto con più dolcezza del solito. Era un meccanismo inconscio quello che muoveva il mio comportamento: più gli altri dicevano che il mio Cicciobello era brutto e più io gli volevo bene.

Per tanti anni è stato così.

Poi sono cresciuta, ho smesso di giocare e Alex è finito in un vecchio borsone insieme ad altre bambole e in seguito regalato a una pesca di beneficenza.

Io mi sono laureata in Giurisprudenza e ho cominciato a lavorare presso uno studio.

Lì ho conosciuto Federico, un uomo meraviglioso. Ci siamo innamorati e sposati. Una storia d’amore perfetta che poteva essere coronata solo con la nascita di un figlio. Che non arrivava.

Quando scoprii di essere sterile rimasi profondamente turbata. Non potevo credere che una donna come me, che fin da piccola aveva mostrato un così forte istinto materno, non potesse generare la vita. Mi sentivo totalmente inutile.

Dopo alcuni giorni Federico decise di prendere in mano la situazione. Un mattino si sedette accanto a me che, sdraiata nel letto, gli voltavo le spalle. Cominciò ad accarezzarmi i capelli.

«Mi sono informato per l’adozione» disse. «Ho il numero di un’assistente sociale che inizierà l’iter per valutare la nostra idoneità. Ci aspetta per un colloquio la settimana prossima».

Mi raddrizzai immediatamente: «Aspetta un attimo. Non avevamo mai parlato di adozione, cioè per me va bene, ma non tutti gli uomini accettano questa soluzione».

«Io invece la trovo una cosa meravigliosa. Dare una casa, una famiglia, amore e istruzione a un bambino sfortunato è un dovere per noi che ne abbiamo le possibilità. Non mi importa nulla se il figlio non è mio geneticamente. Lo amerò lo stesso, anzi forse anche di più» concluse Federico.

A quelle accalorate parole una lampadina mi si accese nel cervello.

«Davvero?» gli chiesi ansiosa. «E lo ameresti ancora di più se fosse palese ed evidente che non è tuo figlio naturale?». «In che senso?», Federico aveva lo sguardo smarrito.

Scoppiai a piangere, questa volta non di dolore ma di sollievo. Abbracciai mio marito con tutte le mie forze. Sapevo benissimo dove sarei andata a prendere il mio bambino.

L’adozione internazionale è un processo lungo e laborioso. Prima bisogna ottenere l’idoneità dal Tribunale dei Minori e poi si deve fare richiesta all’Ente specifico che opera nella nazione in cui si vuole adottare.

Per fortuna con noi è filato tutto liscio e dopo solo un anno e mezzo siamo andati in Nigeria a prendere Daniele. Era un fagottino di sei mesi, minuto e sottopeso, con occhioni immensi.

Ce ne siamo innamorati in un istante. L’abbiamo portato a casa nostra e sommerso d’amore.

Credo che Daniele non sarebbe qui con noi se tanti anni fa io non avessi ricevuto in dono un Cicciobello nero. Grazie a lui ho imparato a essere sensibile, ad aprire la mia mente all’amore e al rispetto per il prossimo.

Spesso, quando gli cambio il pannolino, ripenso con nostalgia al mio primo “bambino”. Chissà che fine ha fatto. Spero solo che abbia trovato una “mammina” che abbia saputo guardare oltre il colore della pelle e che lo veda bellissimo. Proprio come ora io vedo il mio Daniele.

Confidenze