Il coraggio di un amore

Cuore
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È stata la storia più votata del numero 39, da oggi potete rileggerla sul blog 

Avrei dovuto iniziare a lavorare con il mio futuro marito, però i problemi di mia madre me lo impedirono. E mentre sentivo Guido sempre più lontano, iniziavo a capire che forse, per costruire una vita a due, non serviva programmare tutto. Ma tenere aperto il cuore sì

Storia vera di Luisa B. raccolta da Irene Zavaglia

 

Il giorno in cui diagnosticarono a mia madre il morbo di Alzheimer fu lo stesso in cui avrei dovuto iniziare a lavorare nella società che Guido stava ereditando dal padre. Guido era il mio fidanzato. C’eravamo incontrati in un’aula di università, lui assisteva uno dei più grossi nomi della facoltà di Economia, io cercavo disperatamente di passare l’esame di matematica finanziaria. Eravamo diventati inseparabili.  Guido mi faceva sentire al sicuro. Avevo conosciuto i suoi genitori, il padre un rinomato imprenditore, la mamma un avvocato di rilievo. Avevo fatto una buona impressione, ero intelligente e possedevo il dono naturale della gentilezza e dell’eleganza.

Guido era venuto a fare visita ai miei, nel quartiere popolare in cui abitavamo. Era stato delizioso, persino simpatico, ma nell’aria avevo respirato un certo disagio, la consapevolezza che i nostri mondi non si sarebbero mai potuti veramente incastrare.

Dopo la laurea e il master che si era premurato di farmi seguire, mi aveva chiesto di sposarlo e di andare a lavorare insieme a lui nell’azienda di famiglia.

Una favola, la mia. Che si interruppe bruscamente nello studio di quel medico che aveva appena pronunciato la parola “Alzheimer” riferendosi alla mamma.

«E adesso?» chiesi confusa.

Il dottore alzò la testa dalle carte. «Adesso si doti di tanta pazienza e di tanto amore, sua madre ha bisogno di lei».

Mi girai a guardarla.

Mia mamma stava abbandonata sulla sedia, le mani in grembo, l’aria trasognata. Era stato faticoso quella mattina riuscire a farla vestire, costringerla a salire in macchina. Da un paio d’anni non era più la donna che tutti conoscevamo. Aveva iniziato all’improvviso con dei vuoti di memoria che stentava a recuperare. Erano seguiti l’affaticamento, la difficoltà a trovare le parole giuste al momento giusto e la perdita del senso dell’orientamento. Un giorno il vicino l’aveva riportata nel palazzo asserendo di averla recuperata mentre vagava senza meta nei pressi del mercato.

Papà si era rifiutato di vedere, aveva chiuso gli occhi e fatto finta di niente, non poteva succedere a loro.

Da qualche tempo, tuttavia, la mamma era diventata aggressiva e lo era ancor di più nelle giornate in cui si contorceva in un dolore di cui non sapeva indicare l’origine.

Papà si era arreso. Come un pugile annientato al primo round, aveva acconsentito a tutte le visite necessarie.

«C’è dell’altro» concluse il dottore. «La signora necessita di ulteriori accertamenti e soffre di calcoli ai reni. Non escludo un intervento. Non la può riportare a casa…».

Chiamai Guido per avvisarlo che non sarei potuta andare a lavorare quel giorno e, con molta probabilità, neppure quelli successivi. Mia madre doveva essere ricoverata e, dopo la degenza, avrei dovuto trovare il modo per riformulare e organizzare da zero la vita di tutti. Avevo il pianto nella voce, ma il mio fidanzato rispose in maniera brusca, quasi ostile. Mi disse che aveva smosso mari e monti per farmi avere quel posto e che non potevo pensare di mandare tutto in malora. Poteva occuparsene mio padre o una brava badante.

Balbettai che ci avrei pensato.

«Sì, ma sbrigati» sentenziò lapidario. «E ricordati l’incontro di giovedì per il corso prematrimoniale… Ti amo, bambolina».

Chiuse la comunicazione e, per la prima volta in quasi otto anni, avvertii la presenza di un macigno sul cuore: qualcosa che mi aveva sempre appesantito l’anima ma a cui non avevo mai saputo dare un nome.

Mamma venne ricoverata in un reparto a lunga degenza. Le fu assegnata una stanza in grado di ospitare solo due pazienti. «Così, sta tranquilla» mi spiegò l’infermiera. «La donna in stanza con lei soffre più o meno dello stesso morbo e se ne prende cura il figlio. Preferiamo che con questo genere di malati sia presente un familiare per buona parte della giornata…».

Fui grata di quelle attenzioni, nonostante non sapessi cosa aspettarmi e come mi dovessi comportare.

Mi piazzai nel quadrato grigio della finestra e dettai per telefono a mio padre una lista di cose necessarie. Sarei tornata di volata a prendere tutto. Lui non guidava da tempo, aveva smesso senza un motivo apparente.

«Dovresti richiamarlo».

La voce alle spalle mi fece trasalire. Un ragazzo si era materializzato dal nulla e si affaccendava intorno al letto su cui giaceva immobile la compagna di stanza della mamma.

«Dovresti richiamarlo e raccomandargli di procurarti qualcosa di più comodo. Vorrai mica rimanere in gonna e tacchi per tutto il tempo».

Sorrise. Aveva un sorriso scanzonato che si apriva su un viso luminoso. Era alto, scattante e si muoveva in fretta. Forse troppo per il luogo in cui ci trovavamo.

 

«Ciao mamma, sono tornato» lo sentii mormorare all’orecchio della donna. «Ti ho portato un libro, la crema per le gambe e l’omogeneizzato alla banana, quello che ti piace».

La malata non diede cenno di averlo udito. Lui si chinò a regalarle un bacio sul viso bianco e tirato. Anche mia madre sonnecchiava da un pezzo senza agitarsi.

«Le somministrano delle gocce per tranquillizzarle». Mi si era piazzato di fronte, a pochi centimetri di distanza, come fossimo vecchi e intimi amici appena ritrovati. Avvampai di timidezza, pur non essendo timida.

«Sì, è il caso che mi metta più comoda, grazie. Non ci avevo pensato, oggi era il mio primo giorno di lavoro…» borbottai.

Mi accorsi che avevo dato più informazioni di quanto richiedesse la situazione. Mi vergognai ancora. Lui non sembrò scomporsi.

«Che lavoro fai?».

«Veramente… Dovevo fare la contabile nella società del mio fidanzato».

Si profuse in una smorfia strana. «Sì, ma da grande che vuoi fare?» ammiccò.

Lo spiai nel tentativo di capire se mi stesse prendendo in giro. Avevo 32 anni, ne dimostravo persino qualcuno in più, e da piccola avevo sognato di diventare una pittrice, almeno fino a quando mi era stato detto che con gli scarabocchi non si vive. Chissà che fine avevano fatto le mie tele…

In quella maniera non propriamente ordinaria, conobbi Pietro. Lui di anni ne aveva 28 e da grande voleva fare il pianista. Per mantenersi al conservatorio lavorava in un’officina in centro. Suo padre se n’era andato da un pezzo con una ragazza molto più giovane di lui. Sua madre si era ammalata di demenza vascolare.

«Ha avuto cinque ictus, ormai non è più in sé» mi disse. «Passa più tempo qui che a casa… Ma io lo so che da qualche parte, lì dentro, lei c’è.  Se una sopravvive a cinque ictus non può non esserci».

 

 

Pietro si allontanava solo al pomeriggio, per lavorare e per seguire qualche lezione al conservatorio. Tornava verso sera e rimaneva per l’intera notte. Sonnecchiava, accanto a sua madre, e la mattina era di nuovo energico e pimpante, come uno che si era fatto un lungo sonno rigenerante e non aspettava altro che di iniziare la giornata.

Io invece avevo serie difficoltà. Non riuscivo a interagire con mamma, nonostante mi fosse stato spiegato che stazionava ancora al primo stadio della malattia. Non sopportavo i suoi discorsi deliranti, le domande ripetute decine di volte, le urla improvvise con cui mi rimproverava di averla rapita e condotta in carcere. Mi spazientivo se la trovavo a riporre le posate nella busta della biancheria intima o le mutande nell’armadietto con le cose da mangiare. Soprattutto, ero sconfortata, perché il tempo, in quella stanza di ospedale, pareva essersi dilatato all’inverosimile, mentre, in maniera inversamente proporzionale, la mia vita sembrava accelerare verso il disastro più assoluto.

Una sera Pietro mi trovò a piagnucolare come una bambina mentre raccoglievo i pezzi di una rivista che la mamma aveva distrutto con rabbia dopo che io avevo tentato di convincerla a leggere.

«Luisa…» si chinò per aiutarmi. Sembrava stanco, provato. Pensai che anche per lui non doveva essere semplice.

Mi sollevò il viso con una mano. Si allungava in quei gesti di confidenzialità un po’ con tutti. Non temeva il contatto con gli altri. Era come quei guru alla tivù che per guarirti dovevano necessariamente sfiorarti.

«Non è così che funziona, non è così che ce la puoi fare» mi disse. «Devi avere pazienza. Tua mamma non mette le mutande tra le fette biscottate per farti dispetto, non ti dice che le hai rubato il portafoglio perché ti considera una ladra, non ti chiede intenzionalmente la stessa cosa 100 volte… Tua mamma sta cercando faticosamente di dare un senso a un mondo che le sfugge. La sua malattia la rende particolarmente sensibile ai toni di voce, ai rumori, alla gestualità del corpo. Spazientirti serve solo a distruggerti e ad aumentare la sua ansia. Devi avere fiducia. Ma devi anche farti aiutare».

Mi abbracciò. Un abbraccio caloroso e autentico. Nessuno mi aveva mai tenuto così forte, in ginocchio su un pavimento. Nessuno mi aveva mai trasmesso in un abbraccio così tanta fede nella possibilità che io potessi scalare con le mie sole forze una montagna così alta.

Non molto tempo dopo, stavo alle prese con il momento del pasto. Imboccare mia madre era forse la cosa che mi riusciva meno. Lei si rifiutava di mangiare, io non avevo la dimestichezza e lo slancio per insistere. Ero sempre stata figlia.

«Dai qua» aveva detto Pietro levandomi il piatto dalle mani e accomodandosi sul letto al posto mio. «Coraggio, Marina» l’aveva incitata con il cucchiaio a mezz’aria: «se non mangia non va a casa. Lasci perdere sua figlia, che, detto tra me e lei, pare un merluzzo imbalsamato».

La mamma aveva socchiuso le labbra in un flebile sorriso, proprio lei che non rideva mai alle battute degli sconosciuti e che per tutta la permanenza in quella stanza non aveva dato segno di essere in alcun modo connessa alla realtà. Aveva sorriso. E aveva pure mangiato, mandando giù i cucchiai di minestra che Pietro le accompagnava in bocca.

La notte iniziammo a parlare. Ci raccontammo le nostre vite con dovizia di particolari.

«Ma tu lo ami?» mi chiese riferendosi al mio imminente matrimonio con Guido.

«Certo, la nostra è una storia consolidata, ci attende uno splendido futuro…».

«E perché non è mai venuto a trovarvi, qui in ospedale?». «Però mi chiama spesso» provai a imbastire. «È molto occupato, poi ha un cattivo rapporto con le malattie, una specie di trauma…».

Pietro non era troppo convinto. «A voi donne chi vi capisce è bravo».

«E tu? Tu le capisci le donne?» chiesi piccata. «Con tutte quelle storielle dalle quali mi dici sei sempre scappato? Sei solo un ragazzino, che ne vuoi sapere, tu, di donne».

Lo sentii irrigidirsi. Nella penombra mi parve di vederlo per la prima volta triste, risentito.

«Io amerò soltanto una donna che avrà riconosciuto se stessa. Non me ne faccio niente delle donne finte. Non la voglio una donna con le bende sugli occhi».

Quella notte sembrò la più lunga di tutte.

 

Una mattina, dopo molte settimane, arrivò papà. Mi disse che aveva preso l’autobus e che sarebbe rimasto tutto il giorno. Dovevo andare a casa a riposarmi e a fare una doccia. Lo aveva chiamato Guido e gli aveva annunciato che quel giorno dovevo essere esentata dalla mia occupazione di crocerossina, avevamo l’appuntamento per le bomboniere.

Pietro gli sorrise, poi gli strinse vigorosamente la mano.

Papà sembrava più vecchio di anni. Non ci avevo fatto caso nei brevi momenti in cui ero tornata a casa a prelevare i cambi che erano necessari a me e alla mamma.

«Papà, vado volentieri a fare colazione, se vuoi. Ma non ho intenzione di abbandonarti qui per tutto il giorno».

Mio padre insistette, ma fui irremovibile. Se Guido desiderava ordinare quelle inutili bomboniere, allora se ne sarebbe dovuto occupare da solo.

«Se vuoi ti accompagno io» si offrì Pietro. Lo fissai con aria interrogativa. «A fare colazione» chiarì lui. «Ho la moto parcheggiata qui sotto e una fame che non immagini…».

Non mi portò al bar. Andammo al mare.

La spiaggia era deserta. Pietro mi prese una mano, se la portò alle labbra, ne sfiorò a lungo il dorso. Sentii il suo respiro. Provai la netta sensazione di un alito di vita che mi si propagava per il corpo. «Pietro…» sussurrai.

Mi zittì con un dito sulla bocca. «Ascolta» disse.

«Cosa?».

«I nostri cuori. Se chiudi gli occhi li puoi sentire. Battono insieme, siamo vivi, Luisa».

Gli sfiorai una guancia. Aveva la barba incolta, gli occhi inondati della luce dorata del mattino. Era di cinque anni più giovane di me eppure sembrava nell’espressione un o di quegli uomini vissuti e vicini alla vecchiaia che tuttavia conservano il fascino giovanile. Veramente per innamorarsi di qualcuno contava l’età? Mi strinse. Avvertii le sue dita che cercavano l’incavo della mia schiena sotto il maglione e tamburellavano delicate sulla pelle, come a suonare una nenia che solo noi potevamo udire.

«Che cosa stai suonando?» gli chiesi in un respiro. Le nostre bocche vicine.

«Un pezzo che ho composto per te».

Non ci fu tempo per dire altro. Le labbra si fusero in un bacio che sembrò eterno. Non avevamo desiderato altro.

«E adesso?» chiesi staccandomi da lui e cercando un segno premonitore sulle sue intenzioni.

«Adesso dobbiamo occuparci del tuo ex fidanzato». Sorrise con la stessa espressione scanzonata della prima volta in cui c’eravamo visti. Intrecciò la sua mano alla mia e fece per avviarsi. Mi bloccai per un istante.

«Ma non esattamente adesso…» rise di gusto. Mi riprese tra le braccia e mi baciò ancora, con la stessa tenerezza e lo stesso impeto. «Prima dobbiamo fare l’amore, lì, dietro quello scoglio».

Lo fissai con un certo sgomento. Poi mi lasciai finalmente sollevare di peso e condurre verso il futuro che ci attendeva. Sapevo che insieme potevamo essere felici. L’amore non ha paura dell’amore, neppure quando il sacrificio che esso richiede porta a chiare lettere il nome di un male in grado di annientarti. Per amare ci vuole il coraggio di guardarsi dentro e riconoscersi. ●

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