Il mare addosso

Cuore
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“Il mare addosso” di Roberto Moliterni, pubblicata sul n. 35 di Confidenze, è la storia più votata della settimana sulla pagina Facebook. Ve la riproponiamo sul blog

 

Il bello delle isole è che ti fanno staccare dalla tua vita. All’Elba, un’ondata di passione mi ha liberato dal mantello di malinconia per un amore perduto che mi stava soffocando. Ma forse ha fatto emergere una nuova nostalgia. Per un corpo che fugge, dipinto di blu

Storia vera di Alberto E. raccolta da Roberto Moliterni

 

Non facevo che fissare il soffitto, la macchia di umidità che attraversava la casa che avevo trascurato, non aprendo mai le finestre, perso nell’autocommiserazione. Quella macchia assomigliava alla mia malinconia: un male discreto, quasi piacevole che si impossessa di te un po’ alla volta. Quando ti accorgi che è tutto contaminato, è ormai troppo tardi: è un posto insano dal quale vuoi solo scappare.

Giorgia se n’era andata nel peggiore dei modi, tirando fuori la parte più brutta di me. Da giorni non facevo niente, fissavo il soffitto, guardavo la tivù, rifiutavo persino le chiamate di lavoro – faccio il fotografo freelance. Finché il direttore della principale agenzia per la quale lavoravo mi telefonò, era un tipo burbero e diretto: «Hai finito di piagnucolare?».

«Direttore, la prego…».

«Credi di essere il primo a cui scappa la tipa dalle mani?». «Giorgia non era una tipa, era…».

«Una stronza, Albe’. Dài, mi devi coprire un pezzo di nera».

«Non me la sento».

«Muoviti. Altrimenti scordati che ti chiamerò ancora».

Il caso di cronaca da coprire era un suicidio per ragioni amorose. La casa del tipo assomigliava tremendamente alla mia. Una macchia di umidità correva lungo tutto la parete della camera da letto. Anche se non lo fotografai, per un attimo riuscii a vedere il volto del suicida sotto il lenzuolo. Fu una suggestione, ma sotto quel lenzuolo vidi la mia faccia.

«Direttore, è ancora libero il posto per il servizio all’Elba?». «Te la sei fatta sotto?».

«L’ha fatto apposta a mandarmi lì, vero?».

«Dovresti fare il giornalista investigativo, non il fotografo. Comunque sì, aspettavo che ti decidessi a chiamarmi. Devi partire stasera. Prendere o lasciare».

Sul traghetto da Piombino mi sentivo già un’altra persona. La luce del sole riflessa sulle increspature mi riempiva gli occhi. Hanno questo di bello le isole: per raggiungerle devi fare un viaggio in mezzo al niente che ti allontana dalla terraferma e da quello che sei nella vita di tutti i giorni. È come entrare in un altro mondo. Ma poi, mentre fumavo appoggiato alla ringhiera del pontile, mi ricordai che l’ultima volta che ero stato su un traghetto ero con Giorgia. La malinconia tornò a coprirmi come un mantello.

A Portoferraio c’era un clima di festa, un borgo domenicale che galleggiava sull’acqua. Scattai le prime foto, appena uscito dal traghetto con la moto che mi ero portato dietro. Il sole non era ancora tramontato, le facciate dei palazzi di colore giallo diventavano arancioni con la luce dell’ultimo sole. Presi la moto e mi avviai, dall’agenzia mi avevano prenotato l’appartamento nella parte più selvaggia e sperduta dell’isola, Pomonte. Ci arrivai che era buio, dopo moltissime curve. La proprietaria della casa era un’anziana pittrice in ritiro. Passava estate e inverno sull’isola dipingendo le variazioni del mare. Mi accolse in modo non proprio caloroso: «Stavo per mettermi a letto».

«Mi dispiace, il traghetto…».

«Non importa». E poi mi mostrò l’appartamento, sempre parlando a testa bassa, senza mai guardarmi negli occhi.

«È tutto» disse prima di ritirarsi. «Il pagamento a fine soggiorno».

Attraversò la strada e entrò nella sua villetta, dall’altro lato della strada. Il mio appartamento era carino, ben tenuto, colorato, accogliente, pieno di suoi quadri. C’erano ovunque grandi barattoli di blu, che usava per dipingere il mare.

Mi feci la doccia e dalla finestra del bagno vidi che la pittrice non era andata a dormire, ma si proiettava un vecchio film in bianco e nero nel soggiorno.

La mattina andai in moto a fotografare alcune spiagge, verso il tramonto mi fermai su una, a prendere l’ultimo sole, non fare niente, bere birra. In quel momento tornò il fantasma di Giorgia. Senza che me ne accorgessi due lacrime mi rigarono la faccia. Una ragazza che prendeva il sole e leggeva un libro poco davanti a me, se ne accorse, cercai di contenermi. Lei sorrise comprensiva. Poi tornò a leggere. Per mascherarmi, ristabilire un minimo di virilità, mi misi a fare lo scemo: «Che libro leggi?».

Sorrise di nuovo, questa volta con civetteria: sapeva perfettamente che stavo provando a fare il macho.

«Non credo che ti piacerebbe». Aveva un difetto di pronuncia, la erre si abbassava di tono e poi vibrava, come se fosse stata detta nella cavità di una campana.

«Di che parla?».

«Sono racconti di Hemingway. Quello che sto leggendo adesso parla di un uomo che perde la propria virilità durante una caccia al leone».

«Ah».

«Te l’ho detto che non ti sarebbe piaciuto».

«Ci sono stato in Africa, a fare dei servizi nel deserto».

 

Lei guardò la macchina fotografica e io guardai lei: non era affatto male. La sua figura si stendeva in una linea ben disegnata sulla sabbia, curve e rettilinei che si alternavano con misura. La testa era una corona di ricci che la rendevano spumeggiante. Sorrideva in modo curioso, in mezzo a labbra carnose, forse a causa di una dentatura appena sporgente. «Anch’io fotografo, ma tanto per…» disse.

«Hai qualche foto con te?».

«Sì, ma non so se mi va che ci provi con me».

«Non ci sto provando, è per un parere tecnico».

«Andiamo, sei stato mollato e sei qui a ripigliarti. Non dirmi che prima piangevi perché sei allergico alla rosa canina». «Non piangevo infatti…».

«Ascolta, non ho voglia di stare a sentire uno che mi parla tutto il tempo della sua ex».

«Ma io…».

«Facciamo un patto. Come si chiamava?».

«Chi?».

«La tipa».

«Giorgia».

«Già da come lo dici, mogio mogio, si capisce tutto. Puoi invitarmi a cena ma non devi mai, e dico mai, menzionare Giorgia. Che nome da stronza, tra l’altro».

«L’ho sempre detto anch’io che Giorgia era un nome così».

«Ecco, era una trappola. Ci sei cascato. Hai detto Giorgia».

«Ma queste foto me le fai vedere?».

La ragazza arricciò il naso, impertinente, e tirò fuori la macchina fotografica. Mi avvicinai, lei profumava di crema solare, mi sedetti vicino. «Non sono male».

«Lo dici solo per portarmi a letto».

«Sono sincero: hai un bello sguardo ma anche un problema con la linea dell’orizzonte. Sono tutte sfalsate».

«Sei già più sincero».

«Questa dov’è l’hai scattata?».

«Tra Marina di Marciana e Pomonte».

«Io sto a Pomonte!».

«Io qui davanti».

«Devo cercare posti da fotografare per un servizio. Perché, checché tu ne dica, non sono qui per dimenticare G…».

«Non dirlo!».

«Ok ok».

« Piuttosto, portami a cena».

«Come ti chiami? Presentiamoci prima». «Giorgia».

«Stai scherzando?».

«No. Te l’avevo detto che è un nome da stronza».

E così, pochi attimi dopo, io e questa ragazza eravamo in giro per l’Elba con la mia moto. Da quando Giorgia era andata via non mi ero avvicinato a nessuna e ora, in modo così semplice e fluido, mi ritrovavo con un’altra che si chiamava sempre Giorgia. La vita è strana. Mangiammo in un ristorante a Portoferraio, le barche e gli yatch ormeggiati di fronte a noi galleggiavano a ritmo regolare, dando alla conversazione un respiro rilassato, intimo. Giorgia era fidanzata, ma aveva deciso di prendersi una pausa dopo anni con lo stesso uomo. Voleva essere sicura che fosse la persona giusta. O forse, semplicemente – ma questo lei non lo disse – voleva divertirsi un po’ prima di sposarsi.

 

Per tornare avevamo più di un’ora di viaggio. Ma, prima di arrivare, Giorgia mi chiese di fermarmi in uno spiazzo. «Devo fare pipì». A cena avevamo bevuto un po’.

«Ma qui?».

Non mi rispose, superò il guard rail e scese verso i cespugli. Eravamo a strapiombo sul mare, la luna piena chiareggiava sull’acqua. Respirai a fondo, mi sentivo vivo. In quel momento mi arrivò un sms, sperai che fosse la mia Giorgia, ma era il direttore: “Hai visto che bella luna c’è stasera? Si vede anche qui. Non fare l’errore che ho fatto con mia moglie, innamorarmi in una notte di luna piena”.

Sorrisi, gli risposi, ma Giorgia non era ancora tornata.

«Giorgia?».

«Hai violato il patto. Ti manderei a quel paese, ma ho bisogno del tuo aiuto per risalire».

Scesi anch’io oltre il guard rail. Lei mi tendeva la mano, non riusciva ad arrampicarsi. Gliela offrii ma la sua spinta fu talmente energica che cademmo a terra, fra i cespugli. Me la ritrovai a un centimetro dalla faccia, rideva. La sua bocca, con quelle labbra carnose e la dentatura sporgente, mi attraeva. Le afferrai le labbra, nel giro di un attimo eravamo corpi confusi in mezzo all’erba. I movimenti non seguivano più logica: ci afferravamo o toccavamo seguendo solo l’istinto – il suo era un corpo eccitante, elastico, resisteva senza opposizione, anzi adagiandosi, a ogni mio gesto, stretta o pressione. Facemmo l’amore sotto la luna.

Quella notte Giorgia dormì a casa mia. Quando tornammo la pittrice era sveglia, vedeva di nuovo un vecchio film nel soggiorno. Verso le cinque, quando per caso ci svegliammo perché albeggiava, facemmo di nuovo l’amore: lei era instancabile. Quando si addormentò, io restai sveglio: mi sentivo in colpa, era come se avessi tradito Giorgia, quella vera.

Durante il giorno mi accompagnò nei luoghi che dovevo fotografare. Andammo nella fatiscente villa dove si era consumato l’esilio di Napoleone. Era mezzogiorno, il sole, spietato, annientava le forze; noi, assieme a pochi altri turisti, ci muovevamo infiacchiti in mezzo al frinire delle cicale. A un certo puntò, lei mi trascinò per mano in un punto isolato della villa, si appoggiò alla colonna, mi fissò con sguardo sfidante e si sollevò la gonna: non aveva gli slip. Facemmo l’amore contro quella colonna.

«Non mi sposerò» disse all’improvviso mentre tornavamo in moto a Pomonte, aggrappata a me. «Ma stai tranquillo: non c’entra con te. Ci sono persone fatte per andare a fare la spesa, guardare la televisione, mettere a letto i bambini. E altre, come me, che sono destinate a perdersi nel mondo. Siamo probabilmente fatti male, non sono quelli come noi che portano avanti l’umanità. Ma se c’è un atto di onestà che possiamo fare, per limitare i danni, è starcene da soli, non far soffrire gli altri».

«Lascerai il tuo ragazzo?».

«Sì. Domani parto e vado a dirgli tutto».

«Quindi è la nostra ultima notte insieme?».

«Che c’è, ti manco già?». Mentre lo diceva si stringeva più forte a me, facendomi sentire i ricci sulla nuca, un gesto inaspettato per una come lei.

«Come fa a mancarti una stronza?».

Ma la verità è che mi sarebbe mancata. E lei lo sapeva, per questo mi abbracciò. E perché voleva prendere da me la forza per affrontare questa fase nuova della sua vita. All’appartamento trovai una cassetta di legno piena di cozze, accompagnata da un lettera: “Mio marito era un critico cinematografico e sapeva godersi la vita come nei film. Mi conquistò con la gola. Ogni anno, al primo plenilunio in cui ci trasferivamo all’Elba, si faceva portare da un pescatore del posto le cozze raccolte durante la notte. Questo è il primo anno che non c’è più. Il pescatore non ha voluto però mancare alla tradizione. Faccio dono di questa cassetta a lei… e alla passione che sta vivendo.

P. S. Lo sapeva che le cozze sono afrodisiache?”.

 

Non lessi la lettera a Giorgia, ma salutai la proprietaria dalla finestra con un gesto riconoscente: stava bevendo vino bianco, alzò il bicchiere come per un brindisi.

«Stasera mangiamo a casa» dissi. Mi misi subito a pulire le cozze. Lei nel frattempo andò a farsi una doccia.

«È quasi pronto!» le urlai dopo che era passata più di mezz’ora. Arrivò in accappatoio e un asciugamano messo come turbante in testa. Senza chiedermi il permesso, raccolse una cozza dalla pentola con un po’ di brodetto e la mangiò. La imitai. Con lei era così, non esistevano tavole apparecchiate, così come non esistevano regole.

«E tutti questi barattoli di blu?».

«La proprietaria è una pittrice, dipinge il mare».

«Lo conosci Yves Klein?».

«Non sono un tipo colto come te».

Si spogliò. Con passi decisi si diresse verso i barattoli e ne aprì uno, se lo versò addosso con un gesto teatrale, tenendo gli occhi fissi sui miei. Il blu le colava lentamente sul seno, sul corpo, fino ai piedi. Poi rovesciò un grande rotolo di carta per terra. Si distese e lasciò un’impronta del suo corpo, da un lato e dall’altro. Infine si alzò e scappò ridendo, come una bambina impertinente che aveva appena commesso un piccolo crimine. La raggiunsi correndo, afferrandola dai fianchi, la girai e la baciai: anch’io mi macchiai il petto di blu a contatto col suo. Ci rotolammo, ci baciammo e ci cercammo in ogni angolo della casa, sporcando ogni cosa di blu, e finimmo sul rotolo di carta rovesciato. Anch’io ormai ero una statua blu, facemmo l’amore là sopra, spingendoci l’uno contro l’altro, come se volessimo oltrepassarci fino a uscire dall’altra parte – così tanto ci desideravamo – lasciando traccia dei nostri movimenti. E quella diventò la radiografia confusa e sregolata, ovvero artistica di una passione.

Distesi sull’improvvisato letto che era stato il rotolo di carta, finimmo le cozze mangiandole con le mani direttamente dalla pentola. «Ti rivedrò?».

Giorgia si girò dall’altra parte, dandomi la schiena, con le scapole che premevano contro il mio petto, ma prese il mio braccio e si lasciò abbracciare, come per avvolgersi con una coperta. «Chissà».

Abbandonati in quella posizione, mi addormentai.

Quando mi svegliai, Giorgia non c’era più. Confuso dal risveglio cercai per casa un suo segno, un messaggio, una lettera. Non c’era niente: tutto quello che mi rimaneva di lei era l’impronta blu del suo corpo sul rotolo di carta. Lo guardai. Piccolo, in basso, c’era un messaggio. Mi inginocchiai per leggerlo: “Mi chiamo Lucrezia. Magari mi rivedremo al prossimo plenilunio. P.S. È stato bellissimo”. Risi, mi aveva preso in giro ancora una volta e chissà se l’avrei rivista davvero. Mentre mi rialzavo, squillò il cellulare. Era Giorgia, quella vera, di cui avevo aspettato tanto il ritorno, ma per un attimo, appena lessi il nome, sperai che fosse l’altra Giorgia, quella finta, cioè Lucrezia, che mi aveva preso in giro e rubato qualcosa che avevo dentro, fra lo stomaco e il petto. Capii che ero guarito, che non mi importava più niente del fantasma di quell’altra Giorgia, così lasciai squillare il cellulare fino a che non smise. Mi accesi una sigaretta, aprii una birra e mi misi a guardare il mare. Anche se il mare, il suo blu elettrico e profondo, ce l’avevo ancora addosso.

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