La rivelazione

Cuore
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“Una storia di grande amore, finalmente venuto alla luce. Spero che Giulia sia ripagata adesso di tutto l’ affetto elemosinato e mai ricevuto”, scrive Monica, una nostra lettrice, sulla pagina Facebook. “La rivelazione” di Annalucia Lomunno, pubblicata sul n. 12 di Confidenze, è la storia più apprezzata della settimana. Ve la riproponiamo sul blog

 

All’improvviso rivedevo gli anni della mia infanzia tutti in fila, mi sentivo barcollare davanti a una tonnellata di verità da accogliere. Un segreto svelato che in un attimo spiegava la mia esistenza da respinta cronica

Storia vera di Giulia M. raccolta da Annalucia Lomunno

 

Padre. Parola impegnativa con cui non ero mai riuscita a fare i conti. Una specie di enigma, la biforcazione di un albero che non mostrava quale fosse la strada giusta, il frutto migliore, la definizione corretta, la risposta che cercavo. E io in bilico lì sopra, in equilibrio instabile, pronta a rompermi l’osso del collo. Era stato un uomo sempre molto assente e distante, e poi disgustosamente saccente, in un modo che irritava e ti faceva piangere, che tuonava come una maledizione. Aveva preteso tanto, tantissimo, e da adolescente avvertivo la perenne sensazione di trovarmi sospesa sul ciglio di un abisso ogni volta. Non avevo i voti migliori a scuola, non spiccavo nello sport, non eccellevo come lui avrebbe voluto, non vincevo borse di studio o premi. Non ero abbastanza intelligente forse per capire quanto fossi incapace e stupida ai suoi occhi. Lui era un essere umano dalle grandi aspettative, in lui tutto era ingigantito e insopportabile. La collera, il dolore, la disperazione, tutto quanto. Anche quella sicurezza offensiva e inspiegabile di chi credeva di essere sempre e soltanto nel giusto. Io invece  andavo avanti in punta di piedi, e mi chiedevo come riuscisse mia madre a stargli a fianco, senza diventare una potenziale assassina. Il mio destino non mi era mai piaciuto, ma bastava questa riflessione costante e logorante a giustificarmi? Non sapevo darmi una risposta e intanto avevo i miei trent’anni con cui venire a patti, un compleanno imminente, il mio, una vita da esporre e da difendere – gli amori che cominciavano e che finivano, i giorni di tempesta, il numero esatto dei momenti in cui ero stata felice o infelice, le vittorie, le sconfitte, le porte blindate – e intanto un invito a pranzo a casa dei miei che incombeva in tutta la sua minacciosa pienezza.

Una casa in cui proprio quel padre, di cui avevo avuto tanta paura, quell’uomo che incuteva perenne soggezione e poi basta, non c’era più. Era andato via da molto tempo, e si limitava a inviarmi messaggi qua e là, giusto per controllare la mia sopravvivenza, se morissi di fame o meno. Nessun approfondimento vero, l’assoluta mancanza di partecipazione affettiva, zero emozioni, un equilibrio, il mio, ancora in bilico.

 

Era troppo brutto solo pensarci, e per me era una consolazione rimarcare una certa irraggiungibilità. Il telefono non prendeva, lui non prendeva me, mai, non c’era campo per nessuno, nessuno spazio da condividere o da rendere un minimo accessibile. Era un sollievo sentirlo estraneo com’era sempre stato. Passare in secondo piano, non combattere, non aspettarsi la pena capitale, sentirsi sola da sempre come una folata di vento fresco. Sì, quel pranzo dovevo affrontarlo con serenità, senza pentimenti e patimenti, con l’urgente necessità di rivedere una madre silenziosa, una donna malinconica che aveva riconquistato se stessa e che attaccava post-it al frigorifero con su scritto: “Migliaia, forse milioni di donne anziane si innamorano e non lo dicono a nessuno”. Lei non era anziana per niente e aveva sempre un romanzo di Doris Lessing sul comodino e capivo che non sarebbe stato facile per lei abituarsi a una felicità sconosciuta. Anche se quel giorno mi aspettavano onde inarrestabili, ancora tuoni e parole e sentimenti inediti da decifrare. Parole in cui non riposavo mai, perché quell’occasione era stata inventata per raccontarmi qualcosa di definitivo, per proclamare una sentenza, una verità, per disseppellire un segreto. Giovanni era lì e preparava gli antipasti in cucina, lui aveva fondato con mio padre una piccola agenzia di viaggi. Poi gli affari erano precipitati, ma quell’uomo era rimasto come un’ombra visibile e invisibile allo stesso tempo. Io ero troppo giovane, troppo trascurata o troppo distratta, per capire realmente chi fosse e quanto fosse importante.

Mia madre e Giovanni: bastava    guardarli l’uno accanto all’altra.  C’era sempre stata una complicità tra loro che faceva quasi invidia, una simbiosi inquietante in cui la tenerezza e l’eros si mescolavano. E facevano l’amore soltanto con gli sguardi strappati, davanti agli altri noncuranti. Lei una volta gli aveva tagliato persino i capelli. Cosa c’era di più sensuale di un gesto così intimo tra due perfetti sconosciuti? «Fammi bello, sembro uscito da un terremoto». Le aveva detto lui sorridendo, ma per mia madre lui era già bellissimo, giusto, impeccabile, capelli riccissimi, occhi neri. Si vedeva che ne era innamorata pazza, avrei dovuto vederlo anch’io e rifletterci di più.

 

Quando erano insieme era come se l’universo intero non esistesse, che sprofondasse chissà dove. Non c’era più nessuno, non c’era nemmeno mio padre, da sempre escluso dalla passionalità devota che lei riservava soltanto a Giovanni. Loro due erano soli, legati da qualcosa di irrazionale, clandestino e tenace. E quel giorno, che fossero le due del pomeriggio o le due di notte, importava poco, perché mia madre era preoccupatissima, come se si aspettasse uno schianto da un momento all’altro, come se di botto si vergognasse di essere venuta al mondo. Quel giorno aveva semplicemente deciso di dirmi che Giovanni era il mio vero padre, piangendo, quasi inginocchiata davanti a me, stretta al mio corpo come se fossi piccolissima. Io all’improvviso rivedevo gli anni della mia infanzia tutti in fila, li contavo, mi sentivo barcollare, guardavo fuori, oltre quella cucina in cui c’era anche lui. Ma mi sembrava che fosse sparita la luce, che non ci fosse nient’altro al di là di questa rivelazione. Una rivelazione che tuonava più dell’assenza di un padre che biologicamente non era mai stato tale. Una tonnellata di verità da accogliere, un buio luminoso, un lampo, un prezzo da pagare per tutto quanto il resto. Per quelle domande senza risposta, per quella mia esistenza da respinta cronica che non riuscivo ad accettare e che aveva mostrato tratti nauseanti e inutili. Io era rimasta immobile, e in realtà quella rivelazione mi colpiva, ma in fondo mi piaceva. Mi aspettavo quello schianto anch’io, e intanto non riuscivo a formulare nemmeno una sillaba sensata. Era ancora tutto troppo difficile, e mia madre si rialzava e tentava di riprendere il controllo mettendo la tovaglia e sistemando dei fiori in un vaso. «Ora non comportarti come una moglie». Le ha detto Giovanni, squarciando quell’imperfezione così autentica. Poi mi ha abbracciato, e io ho riconosciuto una forma speciale d’amore che continuava a sorprendermi e che aveva tenacemente resistito per un tempo fin troppo ostile. Non avevo in me giudizi o condanne, ma di colpo capivo quell’uomo che non mi aveva mai accettata, e mi arrendevo alla forza di un legame che era stato più forte di tutti quei tuoni immeritati. Quel padre ora aveva un nome.

 

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