La tovaglia di macramé

Cuore
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Stavo aiutando a preparare la tavola per una cena speciale quando mi sono imbattuta in una vecchia busta arancione. Era sigillata, ma sopra c’era il mio nome, così l’ho aperta. Trovandomi davanti a un mistero inquietante

Storia vera di Lisa T. raccolta da Maria Bruna Testa

 

La valigia è lì, sul pavimento, in attesa. L’ho chiusa con difficoltà, quasi con forza, e le cinghie penzolano malinconicamente come fossero orecchie di un cocker. Fuori un’alba perlacea si fa strada tra le nuvole: tutto è ancora immerso nel silenzio, in giardino e nella casa. Di solito la giornata comincia presto con i consueti rumori e odori familiari che amo: lo scalpiccio dei piedi di Seba, la nostra tuttofare, lo scricchiolio delle vecchie persiane, l’aroma del caffè che si spande per la casa, la voce di mia madre che mi chiama dal soggiorno per la prima colazione e quella arrochita dal troppo fumo di mio padre che commenta le notizie di cronaca nascosto dietro al giornale, fumando la prima sigaretta della giornata.
Oggi invece sento solo il mio cuore che batte in modo doloroso fin nelle orecchie, mentre trascino con cautela il trolley giù dalle scale e apro piano la grande porta finestra che dà sul giardino.
Nessuno deve sapere che, io, Lisa, efficiente specializzanda in Chirurgia, una laurea ottenuta con il massimo dei voti e con diritto di pubblicazione, assistente del professor P., il primario, e orgoglio dei miei genitori, sto scappando di casa. Devo muovermi prima che qualcuno si svegli.
Il taxi, puntualissimo, mi aspetta fuori dal portone. La valigia è pesante, si fatica a sistemarla nel bagagliaio. Un ultimo sguardo alla facciata della casa, tutto è ancora spento.
La tensione che mi ha attanagliato fino a ora lascia spazio, finalmente, a una calma nuova. Infilo le cuffiette nelle orecchie e mi sintonizzo su un canale radio.
Ma vie, una vecchia canzone di Alain Barrière, mi riempie di dolce nostalgia. Mi riporta l’immagine di Seba china a stirare, tra gli sbuffi di vapore del ferro che scivola sulla biancheria al ritmo della canzone.
Una canzone che parla di amore, dolore, distacco, una vita così diversa dalla mia, sempre intensa, piena, serena, appagante.
Fino a un mese fa. Fino a quel pomeriggio, quando avevo aperto il cassetto per cercare la tovaglia di macramè da usare nel solito incontro annuale di fine ottobre con i colleghi dello studio: la “cena della vendemmia” come la chiama scherzosamente mio padre, visto che tirano fino a tardi con brindisi di Barolo, Nebbiolo e prosecco.
Per quell’appuntamento mi piace preparare la tavola con cura: bicchieri di cristallo, posate d’argento, piatti preziosi, tovaglia delle grandi occasioni, quella di macramè appunto, e una ciotola con dentro candele galleggianti.
«Non trovo la tovaglia» avevo detto a mia madre.
«È al solito posto, nel primo cassetto della credenza» mi aveva risposto lei, continuando a tagliare le rose in giardino.
«Nella credenza ho già guardato e non c’è».
«Allora prova a guardare nell’armadione del vestibolo. Seba può averla messa lì dopo averla stirata» aveva detto rientrando in soggiorno con un gran mazzo di rose gialle.
Il vestibolo, è il regno di Seba: lì lei stira, cuce, e sente la musica a volume stratosferico.
«È dura d’orecchio la nostra Seba; ha il vestibolo che non funziona» aveva detto stizzita mia madre, quando, appena assunta, Seba non rispondeva subito alle sue chiamate. Così quel nome da allora era rimasto appiccicato alla stanza dove Seba passava gran parte della giornata a lavorare: definiva una stanza luminosa e allegra, dove io, ancora piccolina, trascorrevo pomeriggi giocando, leggendo e invitando le amichette sotto lo sguardo vigile della mia tata.

Quel giorno, raggiunto il vestibolo, avevo aperto vari cassetti frugando tra tovaglie e tovaglioli stirati e piegati, ma della tovaglia nemmeno l’ombra.
Seba, vedendomi trafficare, mi aveva bonariamente rimproverata come fossi una bimbetta. «Che cosa cerchi? Vedi di non stropicciare tutto».
«Tranquilla, sto cercando la tovaglia di macramè» avevo risposto, punta sul vivo per quel richiamo che trovavo fuori luogo visto che ho quasi 25 anni.
Ero salita sulla scala per guardare sugli scaffali più alti, ma neanche lì l’avevo trovata.
Solo altre tovaglie e lenzuola nuove del corredo di mamma, mai usate.
Poi, spostando degli asciugamani di lino, era scivolata sul pavimento una busta arancione, sigillata.
L’avevo raccolta e stavo per riporla al suo posto, sentendomi una ladra, quando, leggendo il nome del destinatario, la curiosità aveva avuto il sopravvento e, dimenticata la tovaglia, l’avevo nascosta in tasca ed ero andata velocemente in camera mia.
Che ci faceva lì quella busta con il mio nome? E quale ne era il contenuto? Mille congetture mi si erano affollate in testa.
Forse era una lettera scritta da Marco, il mio primo ragazzo con un futuro da operaio specializzato.
Io, studentessa liceale, l’avevo dovuto lasciare per la continua pressione dei miei. Forse, dopo la nostra traumatica separazione, mi aveva scritto, avevo pensato soppesando la lettera, ma io non avevo mai ricevuto nulla. O poteva essere la risposta di un’organizzazione umanitaria che avevo contattato dopo la maturità e che operava in Africa. Anche in questa occasione non avevo ricevuto risposta. I miei avevano sempre ostacolato quel mio progetto e così, finito il liceo, mi ero iscritta a Medicina, interpretando il loro desiderio.
Salita in camera, avevo nascosto la busta nel cassetto della mia scrivania, l’avrei aperta più tardi, dopo la cena. Prima dovevo pensare a preparare la tavola. Raggiunto il soggiorno avevo tirato un sospiro di sollievo. Magicamente la tovaglia aveva fatto la sua apparizione: ben stirata e inamidata era già sul tavolo.
«L’avevo tirata fuori e lasciata in cucina» aveva detto serafica mia madre, quasi scusandosi dello scombussolamento che mi aveva creato.
Più tardi, tornata in camera avevo aperto la busta che ne conteneva un’altra. Su un foglio dattiloscritto, un po’ ingiallito dal tempo, avevo letto una verità sconvolgente, scritta nero su bianco con tanto di firme, controfirme, bolli, date, luoghi. “Tribunale dei minori-Torino. 2 settembre 1994. Il minore Lisa F., nata ad Asti il 10 luglio 1992, è dichiarata in stato di abbandono, essendo la madre Marta F. deceduta il 25 agosto 1994”.
La fronte mi si era imperlata di sudore freddo, avevo le mani e i piedi ghiacciati: chi era questa bambina, questa Lisa F., nata il mio stesso giorno e con il mio stesso nome?
Con le mani tremanti avevo aperto la seconda busta; le lacrime che mi appannavano gli occhi non mi avevano impedito di leggere qualcosa di ancora più sconvolgente: “Il Tribunale dei minori dichiara idonei all’adozione del minore… I coniugi…”. Seguivano il mio nome, i nomi dei miei genitori, altri timbri, date, firme.
“Allora la Lisa di cui si parla sono proprio io” mi ero detta sgomenta. Da quel foglio emergeva improvvisamente un passato sconosciuto che travolgeva il mio felice presente e il mio promettente futuro. Perché non avevo mai saputo di essere stata adottata? In preda a una schiacciante sensazione di vuoto e disorientamento, avevo provato a ricordare qualcosa, frugando in quello scampolo di infanzia che era stata la mia vita fino ai due anni.
Ripensandoci, mi arrivavano come da un limbo frammenti ovattati di una giovane voce, di ninne nanne, di risate e coccole, di profumo di lavanda e delle note di una dolce canzone che ancora oggi, se la sento, mi avvolge di tenerezza. Come faceva? Forse così: “Se tutte le ragazze, le ragazze del mondo, si dessero la mano, si dessero la mano, allora si farebbe un girotondo intorno al mondo, intorno al mondo”.
Ero rimasta così, immersa in ricordi confusi per quasi tutta la notte e verso l’alba avevo preso la mia decisione: non avrei detto nulla ai miei genitori, anche se mi sarebbe piaciuto chiedere loro delle spiegazioni. Avrei cercato da sola le mie radici per ricomporre la mia storia.

Per superare lo sgomento e il dolore, mi ero buttata nel lavoro in modo così esagerato da richiamare persino l’attenzione del primario che mi aveva rimproverata benevolmente per i troppi turni di notte in ospedale. «In questi giorni, signorina, ha un’energia sorprendente; veda di non stancarsi troppo».
Anche i miei genitori erano seriamente preoccupati del mio attivismo, ma li avevo rassicurati con una pietosa bugia: «Tra pochi giorni c’è un seminario con un professore di Philadelphia. Con alcuni colleghi ci fermiamo in ospedale a studiare».
Invece, nel poco tempo libero a disposizione, avevo iniziato a scandagliare i vari ospedali di Asti dove potevo essere nata, partendo da un’unica certezza: il cognome di mia madre.
Non mi era stato difficile, essendo medico, chiedere informazioni e risalire fino all’ostetrica che mi aveva fatto nascere. Sulle prime si era mostrata riluttante a parlare, aveva detto di non ricordare.
«È passato troppo tempo» si era difesa, ma aveva ceduto davanti alla mia ferrea determinazione.
«Si tratta di me. Ho il diritto di sapere».
Così, il racconto della mia nascita era emerso a poco a poco, prendendo forma in tutta la sua drammaticità.
«Marta aveva 24 anni quando sei nata; era una ragazza bellissima e dolce, ma sfortunata. Studentessa all’ultimo anno di Lingue, si era innamorata perdutamente di un giovane medico, una storia durata solo un anno. Quando lui ha saputo che era incinta, senza esitare se ne è volato comunque negli Stati Uniti per seguire un master. Pensava solo alla sua carriera. Non l’ha mai cercata. I genitori di lei adoravano quell’unica figlia ed erano impazziti di gioia quando sei nata. Ma pochi giorni dopo la tua nascita erano morti in un incidente d’auto. In quei momenti terribili le ero stata vicina; aveva bisogno di conforto e di aiuto per allevarti» aveva concluso Rosa con gli occhi umidi di lacrime, lasciando trapelare dalle sue parole commosse il rapporto forte e affettuoso creatosi, anche se per breve tempo, con la mia giovanissima mamma.
Era stato allora che Marta le aveva confidato chi fosse il padre della sua bambina, il segreto che solo i suoi genitori conoscevano, aggiungendo: «Non dirlo a nessuno, promettimelo».
Rosa aveva promesso e quel segreto era stato più forte di un giuramento.
«Poi Marta si è trasferita a Torino e non ci siamo più viste, ma ci sentivamo per telefono; dopo tanto dolore, sembrava rinata e la sua vita con te era finalmente serena. Per un po’ non ho saputo più niente di lei, fino a quel giorno, quando ho letto la sconvolgente notizia riportata su un quotidiano: “Marta F., giovane assistente universitaria dell’università di Torino, è annegata in mare per un malore. Lascia una bambina, Lisa”».
Mi era scappato un singhiozzo e lei mi aveva stretto in un caldo abbraccio sussurrandomi:
«È passata una vita; non speravo più di rivederti».
Eravamo restate così, allacciate, lasciandoci cullare dal ricordo di quella dolce e forte presenza tra noi. Poi, staccandomi da lei, le avevo chiesto con voce incolore: «Ma lui chi è?».
Rosa era rimasta in silenzio. Sembrava dovesse raccogliere tutte le forze del corpo e dell’anima per rispondermi e quando lo fece la sua voce era velata da una durezza metallica: «È il professor P., primario di Chirurgia».
A sentire quel nome ero impallidita; la testa mi girava e avevo avvertito un gran senso di nausea.
Spaventata, Rosa mi aveva fatto sorseggiare un bicchiere d’acqua con limone e zucchero.
«È un toccasana per la pressione». Quando mi ero ripresa, mi aveva chiesto con delicatezza: «Non lo conosci?».
«No, ma ne ho sentito parlare. So che è un luminare nel suo campo».
Forse, nel profondo, avevo intuito che poteva essere lui, quel giovane medico amato perdutamente da mia mamma. Per troppe cose mi sentivo simile a lui: la mia determinazione, l’attaccamento al lavoro, l’importanza della carriera, l’amore per una vita agiata e brillante, la scelta scrupolosa delle amicizie che contano. Scoprire ciò che ci accomunava mi aveva annientata quasi più che scoprire la sua identità.
A Rosa non avevo detto nulla. A lei bastava avermi ritrovata.
Io invece, conosciuta finalmente l’intera verità, vivevo un tumulto terribile e avevo bisogno di riflettere con calma per rielaborare la mia nuova realtà e prendere una decisione.
Sentivo che i miei genitori adottivi, pur amandomi, mi avevano defraudata della mia identità e avvertivo una rabbia sorda, quasi un odio, verso colui che con il suo egoismo aveva causato tanta sofferenza.

Sono seguiti giorni febbrili a volte pieni di paura e di scoraggiamento. Mi era chiara una cosa però: sentivo che l’unica soluzione per ritrovare finalmente me stessa era allontanarmi da chi, in qualche modo, mi aveva tradita. Lontana, lontano da tutti, per rinascere con questa nuova me stessa.
Ecco, sono arrivata a Caselle e lasciato il taxi, mi dirigo al check in per i controlli di routine. Non c’è coda, manca un quarto d’ora all’imbarco, ho anche il tempo per bere un caffè.
Ora l’aereo sta salendo nel chiarore di un nuovo mattino e, attraverso l’oblò, riesco a distinguere le ultime luci ancora accese nelle strade della città sotto di me. Sulla collina di Cavoretto, intravedo con gli occhi del cuore la mia casa. Mi sembra di sentire il profumo del caffè, le care voci di mamma, papà e Seba. Avverto già un vuoto immenso per averli lasciati e un senso di colpa per essermene andata così, senza una spiegazione, senza averli abbracciati.
La lettera che ho scritto per loro è sul tavolo del soggiorno, bene in vista sulla tovaglia di macramè. A quest’ora la staranno leggendo e spero che capiranno il perché della mia scelta, una scelta d’amore, come lo è stata la loro quando mi hanno accolta.
Perché in quella lettera c’è tutta la mia storia, intrecciata per sempre con chi mi ha amato, qualcuno che non potrò mai dimenticare.
Per la prima volta, con lo sguardo immerso nell’azzurro di un nuovo giorno mi sento finalmente leggera e libera mentre volo verso l’Africa. Sto andando in Senegal, dove mi aspettano centinaia di bambini ammalati che hanno bisogno di essere seguiti con passione. Sto andando dove il tempo si dilata invaso da una sofferenza che solo l’amore vero riesce ad alleviare. Vado per cercare di dare un senso al loro presente una speranza al loro futuro.
Non ho dubbi che, una volta arrivata laggiù, l’amore per quei bambini e l’attenzione nei loro confronti daranno un senso e una speranza anche alla mia esistenza.
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