Ricomincio insieme a mio figlio

Cuore
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Vi riproponiamo sul blog una delle storie vere più apprezzate del n. 40 di Confidenze

 

Ero INSICURA e ho scelto un MARITO che mi ha sempre considerata una moglie-bambina. Adesso sono MADRE ed è arrivato il momento di dare ASCOLTO a quella che sono, all’ISTINTO. Lo devo a me e ad ANGELO

Storia vera di Mara D. raccolta da Marisa Saccon

 

Faccio l’ultima rampa di scale ansimando, il cuore che mi batte nelle tempie. Tengo con tutte e due le mani il pancione di nove mesi come per sorreggerlo perché ho paura che questo melone enorme mi cada all’improvviso sui piedi.

Non ne posso più, non vedo l’ora di partorire e di vedere venire alla luce il mio Angelo. Sì, io e Carlo abbiamo deciso di chiamarlo Angelo. È stata l’unica cosa che, finora, Carlo mi ha permesso di decidere in piena autonomia: il nome di mio figlio.

Per tutti, ma soprattutto per mio marito, io sono la moglie-bambina che ha bisogno di protezione, di assistenza, quella che non è in grado di prendersi cura di se stessa, della casa e delle proprie cose.

Carlo ha tredici anni più di me. È un uomo ironico, responsabile e paziente. Ha sempre la battuta pronta e si è preso cura di me come fossi un oggetto prezioso.

Però adesso il ruolo di moglie-bambina bisognosa di cure e di attenzioni comincia a starmi stretto. Ho come l’impressione di non riuscire a fare nulla, di essere una stupida, la svampita che non è in grado di far funzionare niente, nemmeno il cervello.

Tra di noi, è sempre Carlo a prendere le decisioni e a imporle anche a me.

Io sono insicura e ho poco carattere, perciò finisco sempre per fare quello che decide lui.

Ci sono giorni in cui mi sento una cosa da niente, incapace di impormi, di far valere anche le mie ragioni e così con Carlo cedo su tutti i fronti. È finita così anche con l’arredamento della casa. Lui ha avuto la parola finale su quali mobili prendere e come disporli. Così come ha deciso, sin dall’inizio, che io non sono in grado di gestire i soldi del conto corrente, non sono in grado di lavorare, di fare la spesa e di cucinare. Mette bocca perfino su come pulisco la casa e io, certi giorni, vorrei piantare tutto e andarmene via, perché mi sento soffocare. Ma non so difendermi, né far rispettare le mie idee e i miei bisogni.

Mentre mi lascio andare sul divano, penso che adesso avrei bisogno di fare la mamma a tempo pieno come piace a me, seguendo solo il mio istinto. Ne avrò pure uno da qualche parte, no? Secondo Carlo non ce l’ho. A 24 anni, per lui sono ancora una bambina. Cosa ne capisco io di poppate, pannolini e cura del bambino? Carlo quindi ha deciso che ci penserà sua madre a vigilare su di me e su nostro figlio.

La sola idea mi rende inquieta.

 

Angelo nasce dopo un travaglio veloce. Appena stringo tra le braccia mio figlio, sento di aver compiuto un miracolo, di aver fatto, per la prima volta da sola, qualcosa di veramente importante nella mia vita.

Quando torno a casa con mio figlio, ad accogliermi c’è già la suocera che sta preparando il brodo di gallina che a me non piace. Dice che mi farà bene e che così riuscirò a produrre tanto latte. Poi elenca tutte le cose che posso mangiare e quelle che mi sono vietate per avviare con successo l’allattamento al seno. Mi sento tanto una mucca.

Nei giorni successivi la suocera invade ogni spazio della mia casa e della mia vita.

Mi mette a disagio. Come mi mette a disagio ogni volta che prende dalle mie braccia Angelo per metterlo a dormire nella culla, oppure quando è lei a decidere quale tutina mettergli. Io mi sento tanto la sorellina maggiore di Angelo, anziché sua madre.

Come vorrei che mia suocera se ne andasse a quel paese assieme a mio marito!

 

Una sera, a letto, provo a parlarne con Carlo.

Vorrei che sua madre se ne andasse, così potrei riprendere in mano la mia vita e prendermi cura di mio figlio senza nessuna interferenza.

Carlo sbuffa con sofferta pazienza e archivia la faccenda promettendomi che ne avremmo parlato il giorno dopo.

Mi sento sola. Angelo piange in continuazione. Marito e suocera insinuano che il mio latte non sia sufficientemente nutriente e propongono il latte artificiale. Le loro parole mi feriscono, mi fanno sentire una madre che non vale nulla, che non riesce a nutrire nemmeno suo figlio.

Sento che sto per esplodere. Dentro di me dilagano una sorda rabbia e un grande senso di frustrazione rischiando di soffocarmi.

Senza consultarmi, mio marito e mia suocera, dopo aver sentito la pediatra, decidono di acquistare un po’ di latte in polvere in farmacia.

Il mattino dopo mi sveglio di soprassalto. È tardissimo, devo aver dormito tanto per la stanchezza delle molte notti insonni. Mi alzo di scatto dal letto e corro verso la cameretta di Angelo. Stamattina non l’ho sentito piangere per reclamare la sua poppata, sono già passate tre ore, ho il seno gonfio e turgido che mi fa male e in casa regna uno strano, inquietante silenzio.

Entro con il cuore in gola e resto incredula a fissare mio figlio mentre dorme beato nel suo lettino con un filo di latte che gli cola dall’angolo della bocca. Alzo gli occhi e sopra il comodino vedo un biberon vuoto.

Sento dei passi leggeri. Mia suocera mi raggiunge alle spalle. Mi volto e la guardo negli occhi: sembra tranquilla e soddisfatta. A stento trattengo l’ondata di rabbia che mi sta montando dentro e che rischia di travolgermi se non la controllo.

 

La guardo: è vestita in modo elegante, truccata, non ha un capello fuori posto, è come sempre, in ordine e impeccabile, controllata, così sicura di sé e rassicurante.

Mi dice che esce per fare la spesa e che non mi devo preoccupare per Angelo perché ha poppato un intero biberon di latte e ora dormirà pacifico per almeno un’ora.

Resto senza parole mentre lei mi saluta, prende la sua borsa firmata ed esce.

Ascolto la porta chiudersi e resto immobile in mezzo alla stanza, congelata nella mia rabbia e nel mio stupore.

Mi scoppia la testa, vorrei tanto urlare, buttare fuori dalla finestra il suo maledetto latte artificiale insieme ai suoi biberon, vorrei spaccare tutto.

Il seno mi pulsa e sulla maglietta si formano due macchie di latte. Guardo Angelo e scoppio in singhiozzi disperati.

Come ha potuto farmi questo? Angelo dorme con la bocca spalancata, quel latte deve averlo steso, stroncato completamente. Non si sveglierà tanto presto, sembra gonfio come un uovo ripieno Chissà quando lo digerirà.

Una rabbia dolorosa che non avevo mai provato prima mi monta dentro e rompe tutti gli argini del buonsenso.

Mi vesto in fretta, riempio una borsa con qualche vestitino di Angelo e un po’ di pannolini. Piango e mi tremano le mani.

Lo sollevo delicatamente dalla culla, lui fa una smorfia e poi sorride nel sonno. Lo stringo forte a me, lo metto nel passeggino e gli stendo sopra una copertina mentre lui continua a dormire beato.

Esco di casa, mi chiudo la porta alle spalle e, all’improvviso, il silenzio e un vuoto devastante mi colpiscono lasciandomi frastornata e confusa.

Sono smarrita, non so cosa fare, non so dove andare. Ma di una cosa sono certa: dovunque andrò, qualsiasi cosa farò, mio figlio sarà con me.

Spingo il passeggino e vago per la città senza avere una meta precisa, senza sapere cosa fare.

Arrivo in un parco, trovo una panchina e mi siedo affranta. Ho un grumo di dolore in gola che è fermo lì, non sale e non scende.

Angelo si sveglia e inizia ad agitarsi. Si succhia le manine, sicuramente ha fame. Goffamente lo sollevo dalla carrozzina e provo ad allattarlo. Ma sono troppo nervosa, lui non riesce ad attaccarsi al seno, inizia a strillare arrabbiato e io scoppio a piangere.

 

Hanno ragione Carlo e mia suocera: sono inadeguata, non so fare nulla, non so nemmeno prendermi cura di mio figlio.

Mi sento sopraffatta da un profondo senso di nullità e di frustrazione, mi sento sola, inutile e triste. E, soprattutto, mi sento tremendamente in colpa nei confronti di Angelo.

Torno all’improvviso alla realtà, abbandonando tutti questi pensieri, quando sento il tocco lieve di una mano che si posa sulla mia spalla «Che succede, figliola?».

Mi giro, scossa da singhiozzi che non riesco più a controllare. Una signora anziana, appoggiata a un bastone, gira intorno alla panchina e si china su Angelo che urla come un ossesso.

«Ma come siamo affamati» dice e sorride. «Su figliola, asciugati le lacrime e fallo mangiare».

«Non riesco» balbetto, incapace di calmarmi, e aggiungo: «Lui non vuole più il mio latte perché è acquoso e io non sono una brava madre».

La signora mi guarda scandalizzata. «Sciocchezze» borbotta. «Il latte di una mamma non è mai acquoso. Su, da brava, asciugati le lacrime. Hai avuto un momento di stanchezza. Il tuo latte è perfetto per lui. Non esiste al mondo niente di meglio per un bambino».

Ha un tono autorevole, ma tranquillo, nel parlarmi e questo mi incoraggia e mi rassicura.

Mi asciugo gli occhi col dorso della manica, mi calmo e finalmente Angelo si attacca al seno.

Guardo la donna con curiosità. Già solo la sua presenza sembra infondermi speranza. Mi guarda con tenerezza, mi dice che sono brava, mi fa i complimenti.

Timidamente le racconto quello che è successo il mattino con mia suocera, le spiego il disagio che provo con un marito che mi considera inadeguata e incapace di prendermi cura di me stessa e di mio figlio.

Non ho voglia di tornare a casa da un uomo che non ha fiducia in me e non mi apprezza.

La signora Lina, così si è presentata, fa un sospirone. «Che ne dici di avvertire intanto tuo marito che tu e il bambino state bene? Sarà in ansia».

 

Annuisco. Di malavoglia accendo il cellulare. Trovo tantissime chiamate di Carlo e di mia suocera.

«Ma se lo chiamo… Cosa gli dico?» chiedo a Lina, supplicando il suo aiuto.

«Digli che sei con un’amica, che va tutto bene e che tornerai domani» mi incoraggia con tono casuale e indifferente.

Resto a guardarla, sempre più sorpresa. Tra le righe, mi sta offrendo ospitalità per quella notte. Sono senza parole e mi vengono le lacrime agli occhi.

Riluttante chiamo Carlo che subito mi tempesta di rimproveri e di domande.

Mi dà della pazza, dell’irresponsabile, della madre snaturata, dice che stava per chiamare i Carabinieri. Vuole assolutamente sapere dove sono perché viene a prendermi lui se non torno a casa subito, immediatamente.

Tremo, comincio ad agitarmi e guardo Lina che, con un cenno del capo, mi rassicura.

«Angelo sta bene. Stanotte saremo ospiti di un’amica e torneremo domani» gli rispondo con la voce finalmente ferma e controllata. «E quando torno, non voglio più trovare tua madre in casa nostra!».

Non gli lascio nemmeno il tempo di ribattere. Chiudo la telefonata e spengo il cellulare.

Faccio un respiro profondo e mi sento soddisfatta di me stessa.

Lina abita a due passi dal parco, in un piccolo appartamento molto semplice, pulito e ordinato. Ha una cameretta per gli ospiti e io l’aiuto a preparare il letto.

Quella sera stessa conosco Mauro, il figlio di Lina, un uomo sulla trentina, alto, scanzonato, dolcissimo, che con i neonati ci sa fare come se fosse un padre navigato.

Glielo dico e ridiamo di questa mia osservazione perché Mauro non ha nemmeno una fidanzata, figuriamoci un figlio. Abita in un monolocale alla periferia della città e ogni tanto passa a trovare la madre.

 

Parliamo per tutta la serata. È la prima volta che un uomo mi ascolta con attenzione senza dirmi cosa devo fare o pensare.

«Cosa ti renderebbe felice in questo momento?» mi chiede e io rimango stupita dalla domanda.

Ci penso un attimo. «A parte Angelo, ci sono due cose che in questo momento mi renderebbero felici: un libro di poesie di Garcia Lorca e mia suocera fuori di casa».

Lui annuisce e sorride, in silenzio.

È stata una serata intensa, sono molto stanca, ma felice perché ho conosciuto persone che mi hanno fatta sentire bene. Angelo è stato spupazzato per tutto il tempo e io ho dimenticato il cellulare spento e non sono mai stata meglio. Carlo non mi è mancato per nulla questa sera e la verità è che non vorrei dover tornare a casa perché non sopporto più di essere trattata come una bambina.

Il giorno dopo, Carlo mi accoglie freddamente. È arrabbiato, ferito e ogni scusa è buona per rimproverarmi e litigare. Mia suocera non c’è più. Ha fatto i bagagli e se n’è andata. Dovrei essere contenta, ma avverto lo stesso una strana sensazione di malessere. Passo da una stanza all’altra e, di colpo, mi sembrano estranee.

Non le ho arredate io, non ho scelto i quadri né i colori delle pareti.

Nelle settimane successive, al senso di estraneità si aggiunge una profonda tristezza. Per fortuna c’è Angelo a dare un valore alle mie giornate.

E c’è la signora Lina che vado a trovare tutti i giorni, concedendomi una lunga passeggiata con il mio piccolo. Sono diventata come una figlia per Lina. Con lei ritrovo serenità e allegria ma, soprattutto, ogni giorno spero di trovare Mauro.

Angelo sta crescendo bene con il mio latte.

Ho imparato a dare ascolto alla parte di me che avevo represso. Non sono più innamorata di Carlo, non voglio fare la bambina a vita. Voglio trovarmi un lavoro ed essere autonoma. So che Lina non ha mai disfatto il letto della camera degli ospiti da quella notte in cui io e mio figlio abbiamo dormito da lei. So anche che Mauro ha messo sopra la piccola mensola della cameretta due peluche per Angelo e un libro di poesie di Garcia Lorca per me.

 

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