Salvata da un romanzo

Cuore
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“Salvata da un romanzo” di Marco Mallica, pubblicata sul n. 11 di Confidenze, è una delle storie vere più apprezzate della settimana. Ve la riproponiamo sul blog

 

È come se quel libro mi avesse dato una scossa: mi ha spinto a guardare dentro il mio dolore per riconoscere di non voler affondare. Sì, avrei potuto farcela anch’io a superare la voglia di annullarmi per un amore perduto e a riscoprire la voglia di vivere

Storia vera di Alessandra T. raccolta da Marco Mallica

 

Apro il frigorifero e osservo a lungo quello che c’è, piegando la bocca mentre rifletto su cosa prepararmi per cena. Ci sono delle uova, un mazzo di lattuga, due bistecche, confezioni di cibi in scatola e tutto quello che non può mancare nel frigo di una quarantenne single con poco tempo, ma tanta voglia di fare. Sul lato interno dello sportello, una bottiglia di vino. Oggi ne sono fuori e ringrazio ogni giorno il cielo per questo, ma fino a sei mesi fa le cose andavano molto diversamente. La vista di una semplice bottiglia come questa avrebbe scatenato dentro di me un misto di sentimenti ed emozioni contrastanti: tentazione, desiderio, rimorso, impotenza, repulsione. È incredibile come la tua vita nel giro di pochissimo tempo possa diventare un inferno e se ci penso oggi, dopo essermi lasciata tutto quanto alle spalle, non riesco a capacitarmi di come una cosa simile sia potuta capitare proprio a me. Di certo questa brutta esperienza mi ha insegnato che nessuno deve ritenersi immune dai guai, anche chi sente di essere solido e forte come una roccia.

Un anno fa io mi sentivo solida e forte come una roccia. Lavoravo come commessa in un noto negozio di abbigliamento della mia città. Convivevo da circa sei anni con un uomo poco più grande di me che avevo conosciuto per caso e con cui avevamo cominciato a frequentarci quasi per gioco, prima di scoprire che eravamo realmente fatti l’uno per l’altra. Cominciavamo a parlare di matrimonio perché, qualunque cosa si dica di questi tempi, prima o poi il matrimonio appare a qualsiasi donna come il naturale coronamento di un rapporto che funziona. E, più di una volta, anche di un rapporto che non funziona. Poi, d’improvviso, come una doccia fredda nel bel mezzo di una sauna, capisco che questo coronamento è tutt’altro che scontato. Lui comincia a essere più distante. All’inizio non me ne rendo conto, non lo percepisco, anche perché quando si vive un rapporto di coppia da anni si sa bene che non tutti i giorni possono essere soleggiati e che spesso e volentieri ci sono giornate un po’ uggiose: problemi di lavoro che mettono ansia, malumori, periodi no. È la vita di coppia. Anzi, è la vita in generale. Così non mi preoccupo e penso che passerà come le altre volte.

Una domenica mattina, me lo ricordo ancora come se fosse ieri, mi si avvicina mentre sto caricando la lavatrice e mi fissa con un’espressione malinconica che non gli ho mai visto. Mi deve parlare, dice, e in pochi minuti tutto è chiaro. Lui non è più convinto di volermi sposare. «Non c’è da farne un dramma» replico io. «Sposarsi non è un obbligo e possiamo prenderci tutto il tempo che vogliamo». A quanto pare, però, non ho capito bene quello che sta cercando di dirmi. Sono un’inguaribile ottimista, non penso mai al peggio finché non me lo vedo presentato in carne e ossa davanti agli occhi. Non è più convinto della nostra relazione, ecco, il punto è questo. Non saprebbe dire nemmeno lui perché. No, non gli ho fatto nulla, non è cambiato niente tra di noi, ma forse è lui a essere cambiato. Non lo sa, non sa spiegarselo, quasi si mette a piangere. Ha bisogno di prendersi una pausa, di stare solo con se stesso, di fare chiarezza nel proprio cuore e nella propria mente per capire quello che vuole davvero. Mi sembra un discorso sconclusionato, privo di logica, assurdo, irrazionale. È solo un brutto incubo, penso, come quando ti svegli nel cuore della notte col cuore che batte a mille per poi scoprire che il mostro che ti stava inseguendo era solo nella tua testa. In effetti è tutto così assurdo e inspiegabile, ma dalle sue parole, dall’espressione, dal tono della voce, da come mi guarda, ho già capito che la nostra storia è giunta al capolinea e che quella che lui chiama una pausa non è altro che un modo un po’ più dolce e meno traumatico per definire un addio.

A nulla servono discussioni, ragionamenti, riflessioni, tentativi di scavare nel nostro animo e nelle pieghe più riposte della relazione. È tutto inutile, come è inutile fare le pulci alla convivenza per capire quello che non andava e di cui magari non c’eravamo accorti. Io, di sicuro, non me n’ero accorta, perché è stato davvero un fulmine a ciel sereno.

Dopo qualche giorno inizia a fare le valigie e prende tutte le sue cose. Quando convivi per anni nello stesso appartamento non è semplice fare tabula rasa. C’è sempre qualche oggetto, qualche dettaglio, qualche angolo che tiene vivo il ricordo di lui e che è impossibile cancellare. Questo rende tutto più doloroso. Ma abbiamo deciso così. Io potrò continuare a stare nel nostro appartamento e lui troverà una nuova sistemazione.

Sono stati i giorni più brutti della mia vita. Ha avuto la delicatezza di prendere la sua roba e portarla via mentre ero al lavoro, ma la sofferenza è stata lo stesso atroce. Come se mi avesse strappato via un pezzo di cuore.

Da un giorno all’altro mi sono ritrovata a vivere da sola nel nostro trilocale. Mi sembrava più grande, più triste, più vuoto. Io però sono una persona coriacea e vigorosa. Sono così fin da bambina: non ho mai permesso a nessuno di mettermi i piedi sopra e non ho mai lasciato che le avversità della vita mi mettessero al tappeto.

Così vado avanti con la fierezza e la determinazione di un soldato che procede verso il nemico. Così, almeno, mi pare. Lavoro, cucino, penso a tenere in ordine la casa. Dopo dieci anni di totale pigrizia mi iscrivo persino in palestra: è quasi un modo per dire a tutti, e soprattutto a me stessa, che sono più viva e combattiva che mai, che non mi lascerò abbattere neanche da quest’ultimo colpo. Neanche da lui. Perché, sotto sotto, sento di odiarlo per quello che mi ha fatto. Non potrei non odiarlo, non si può non odiare ciò che abbiamo prima amato e poi perso.

A quarant’anni non è facile rifarsi una vita, soprattutto quando per molto tempo sei stata assorbita da una convivenza che, di fatto, non è molto diversa da un matrimonio. Non hai più amiche o, più precisamente, le amiche di un tempo sono difficilmente recuperabili. Alcune si sono sposate, di altre hai proprio perso le tracce. E la palestra sembra essere frequentata esclusivamente da ragazzine che potrebbero essere tue figlie e da donne di una certa età che passano il tempo a fare Pilates. Se devo essere sincera, poi, al momento non ho molta voglia di fare vita sociale. La ferita è ancora fresca e gronda gocce di sangue e di abbandono.

Una sera, dopo cena, sto riordinando la cucina e noto che dentro il frigo c’è ancora mezza bottiglia di liquore, di quello che tiravamo fuori quando avevamo ospiti. Alla televisione non c’è nulla, così metto un po’ di musica e mi verso un bicchiere. È tutto così rilassante, per la prima volta dopo tanto tempo mi sento in pace con il mondo. Ne verso un altro, poi un altro ancora, e un quarto e un quinto. Vado a letto con le gambe che mi reggono a malapena, cado in un sonno pesante che assomiglia molto al coma e la mattina dopo, quando mi sveglio per andare in negozio, sono ancora stordita. Appena mi siedo sul letto provo un senso di capogiro, ma un caffè mi rimette in una condizione accettabile. Almeno il necessario per poter svolgere il mio lavoro.

L’alcol non è molto diverso dalla droga, anche se nella nostra società è una trasgressione che viene accettata con una certa indulgenza. È un vortice in cui i primi tornanti sono dolci e ti fanno scivolare lentamente, ma più vai avanti, più diventano ripidi e veloci. Prima che possa rendertene conto ti trovi inghiottita in una caduta perenne che sembra non dover mai raggiungere il fondo.

Il diversivo di una sera diventa per me, presto, un’abitudine. Durante il giorno non bevo, al lavoro sono efficiente e continuo ad andare regolarmente in palestra. Ma dopo aver cenato entro in un’altra dimensione. Quello è il momento in cui posso buttarmi alle spalle tutti i problemi, la sofferenza, la delusione e coccolarmi un po’. Sì, coccolarmi, perché con incredibile stupidità mi dico che non c’è nulla di male e che è un modo come un altro per rilassarsi. L’importante è non esagerare.

 

Il problema, però, è che io esagero, e che neanche ne sono consapevole. Ogni giorno percorro qualche metro in più nella strada che conduce alla dipendenza e non ci faccio caso. Sono completamente fuori controllo. All’inizio mi limito al liquore, a quel particolare marchio che compravamo quando stavamo ancora insieme, quando eravamo ancora noi, ma presto i miei gusti diventano più vari e sofisticati. Vini imbottigliati, superalcolici, distillati, perfino birra, in un mix che cambia ogni sera, ma il cui risultato è sempre lo stesso: andare a letto in uno stato di semincoscienza, in una condizione che a me sembra deliquio, ma che in realtà non è altro che veleno. Per il corpo e per lo spirito. Nei rari momenti in cui riesco a osservarmi con distacco e lucidità mi faccio ribrezzo e provo pena per me stessa, ma questo non basta a farmi desistere. Non riesco a rinunciarci, ecco.

Al mattino vado al lavoro stordita e le prime ore mi servono per smaltire i postumi della sera precedente, ma per fortuna nessuno se ne accorge. Sono molto taciturna ultimamente, le mie colleghe sanno ciò che mi è successo e lo attribuiscono a quello. Quindi non notano nulla di strano. E poi io sono una brava attrice, oltre che una commessa valida ed efficiente. Mi piace stare a contatto con le persone e aiutarle a scegliere quel che è meglio per loro. Solo un giorno capita che Marta, una nuova collega, mi lanci un’occhiata clinica e mi chieda se sto poco bene. Appena posso entro in un camerino e mi guardo allo specchio. Sono pallida e sciupata, ho un viso cadaverico e due evidenti occhiaie. Marta non sa che mi sono alzata nel cuore della notte per andare in bagno a vomitare tutto quello che avevo in corpo, ma me la cavo dicendo che il tempo sta cambiando e che le variazioni meteorologiche mi scombussolano parecchio.

Ogni giorno, quando mi sveglio sono uno straccio. Stanca, arrabbiata, depressa. È come se una cappa scura mi fosse calata sulla testa e mi impedisse di respirare. Vedo tutto nero: il passato, il presente, il futuro. La mia vita è nera. E, soprattutto, non vedo spiragli. Per me non c’è nessuna luce in fondo al tunnel, solo buio. Questo tunnel non finisce mai e non mi sembra altro che una lunga e terrificante discesa verso il baratro. Ora, mentre scrivo, so che l’alcol è un deprimente del sistema nervoso e che i pensieri cupi al mattino dopo una serata alcolica non sono altro che una logica e inevitabile conseguenza.

Ma all’epoca non lo sapevo ancora e quella sensazione di scoramento mi sembrava provenire dalla tristezza della mia vita grigia e senza scopo.

L’alcol è un fumo nero e appiccicoso che si attacca alle pareti del cervello e rende tutto confuso e sfuocato: le cose, le persone, i pensieri, le emozioni, i sentimenti. E a te dopo un po’ sembra che questa sia la normalità. Non ho più nemmeno voglia di uscire, ho abbandonato la palestra da molte settimane. Non me ne importa nulla di uscire e nemmeno della palestra. Tutto ciò che mi importa è il momento in cui, a fine giornata, potrò finalmente rilassarmi come piace a me.

Non saprei dire se in quei tre mesi, forse quattro, sia stata un’alcolista a tutti gli effetti. Le mie intemperanze erano sempre e solo limitate alle serate a casa. Ma, se pure non si potesse parlare di alcolismo in senso clinico, io oggi so di essere andata molto vicino a quel limite, oltrepassato il quale non è più possibile tornare indietro. Di averlo visto, sfiorato e di essermi fermata un secondo prima di precipitare definitivamente nell’abisso.

È strano il modo in cui sono entrata in questo vortice di abbrutimento e ancor più strano e bizzarro è il modo in cui ne sono uscita. Un giorno Marta, la collega di cui vi ho parlato, mi presta un romanzo che le è piaciuto tantissimo. Io non leggo più molto, vivo in una condizione di perenne smog mentale, però le poche righe riportate nella sovraccoperta mi incuriosiscono. È la storia di uno scrittore alcolizzato che, dopo alcune vicissitudini, per una serie di circostanze casuali rimane qualche giorno senza bere e per la prima volta dopo tanti anni si sente di nuovo bene. In poco tempo abbandona l’alcol e sembra quasi rinascere. Infatti il romanzo ha un lieto fine.

So che può sembrare assurdo, ma quel romanzo mi ha cambiato la vita. È come se mi avesse dato una scossa. Non è facile smettere dopo mesi di assuefazione, ma forse non è nemmeno così difficile, soprattutto se non si è ancora superato quel limite di cui vi parlavo. Mi sono guardata dentro e mi sono detta che non volevo affondare. Quindi niente più maratone alcoliche, niente più mix micidiali, niente più mattine trascorse a smaltire i postumi. Nel giro di qualche settimana anch’io, come il protagonista del romanzo, mi sono sentita rinascere.

Sono spariti i pensieri cupi al mattino, sono sparite la depressione, l’abulia, l’orribile sensazione di non avere via di scampo e di essere condannata alla disfatta. Ho ripreso ad andare in palestra e, dopo tanto tempo, ho sentito di nuovo la voglia di uscire, di camminare alla sera per le strade illuminate della città, di conoscere e frequentare nuove persone. Nella vita le fortune, come le sfortune, non vengono mai sole. Infatti, poco tempo dopo, ho rivisto una mia vecchia amica, anche lei reduce da una relazione di lungo corso, che mi ha accolta a braccia aperte nel gruppo di persone con cui usciva.

Oggi frequento uno dei suoi amici, l’altro giorno siamo andati fuori a cena. Per il momento tra di noi c’è solo un ottimo rapporto, ma ho la sensazione che possa nascere qualcosa di più bello e importante. Stiamo bene insieme e gli ho raccontato tutto quello che mi è successo in questi ultimi tempi. Lui mi ha sorriso e mi ha dato una carezza. La vita continua ed è qualcosa di troppo bello per rinunciarci.

 

 

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