Un lungo addio

Cuore
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Vi riproponiamo sul blog una delle storie vere apprezzate questa settimana sulla pagina Facebook: “Un lungo addio” di Alessia Rocco, pubblicata sul n. 10 di Confidenze

 

Siamo sempre stati una coppia non conformista: vicinissimi ma liberi anche di dirci cose sgradite. E tu me ne hai confidato una terribile, facendomi vivere la più ardua delle prove. Proprio perchè era chiaro che non avevamo mai smesso di amarci

Storia vera di Giuliana L. raccolta da Alessia Rocco

 

Ti penso stasera. Penso a te mentre il tramonto mangia pezzi di azzurro e si tira dietro la sera. 

Intravedo la luna, dietro un gruppo di nuvole bianchissime e serene che passa come un piccolo, allegro, gregge. Il tuo viso torna nella mia mente insieme a una data precisa: 14 novembre 2017.

È passato un anno, lungo, difficile, un anno senza di te. Ho dovuto ricostruirmi le giornate, ridefinire il presente e immaginarmi un futuro diverso. Te ne sei andato col sorriso sulle labbra, consapevole e sicuro ma io sono rimasta e chi rimane deve fare i conti con quello che perde e che non potrà riavere mai più.

«Aiutami» mi hai detto un pomeriggio di maggio mentre bevevamo un sorso di vino per brindare al mio nuovo incarico di lavoro.

Ti ho guardato stupita e sulle prime non ho capito. Ero troppo presa da me stessa, eppure una nota stonata si stagliava sopra tutta quella felicità che ci aleggiava intorno.

«Mi aiuti, vero?» hai chiesto e io ho posato il bicchiere.

«A fare cosa?» ti ho risposto mentre una nebbia fitta mi allagava gli occhi.

«È tanto che ci rifletto. Non ce la faccio più, Giuliana, e tu lo sai».

Sì, lo sapevo, lo vedevo. Ma quel giorno, complice forse il bicchiere di vino, i tuoi occhi mi sembravano colmi di una luce che non vi scorgevo più da tempo. Mi hai preso le mani e mi è parso di vederti per la prima volta. Eri diventato piccolo, trasparente. Ti ho abbracciato forte e ho sentito le tue ossa raggomitolarsi contro il mio corpo.

«In che modo dovrei aiutarti?» ti ho chiesto, ma la risposta era già sospesa tra la mia incredulità e la tua supplica.

Mi hai parlato subito della Svizzera, del fatto che là fosse possibile andare a morire prima di stare troppo male.

Mi si congelato il sangue nelle vene. Ho pensato che fossi pazzo, che la malattia ti facesse sragionare. Non ti ho detto nulla però, restando muta davanti alla tua sicurezza, quella di chi ha già deciso e non accetta che gli si faccia cambiare idea.

«Accompagnami, Giuliana, voglio che ci sia tu con me quando lo faccio» hai continuato e il tuo viso era sereno come non lo era mai più stato in quegli ultimi mesi di calvario.

Il cancro aveva vinto, dopo innumerevoli battaglie, e ti eri stancato di vederlo gongolare mentre ti consumava, ormai lo sapevi che non avrebbe battuto in ritirata.

«Forse un anno» avevano detto i medici dopo l’ultimo controllo. Ero con te anche allora. La tua bocca si era contratta in una smorfia impercettibile ma non avevi fatto un fiato, forse perché te lo aspettavi. Io mi sentivo morta dentro, tu invece serenamente ti godevi quel bel sole primaverile, mentre uscivamo dal reparto che puzzava di disinfettante. Chissà se già allora pensavi di andare a morire.

Sono scappata fuori sul balcone a fumare una sigaretta. L’aria ormai fresca dell’autunno inoltrato mi ha mozzato il respiro o forse era solo ansia, la stessa che mi faceva battere il cuore in gola.

Quanto ci eravamo amati io e te. Due ragazzi giovanissimi che decidono di condividere la vita, le avventure, lo studio e che poi arrivano quasi a un passo dal matrimonio. Come sarebbe stata la nostra vita se ci fossimo sposati? Non lo so e non lo sapremo mai. So soltanto che ho smesso di amarti un giorno, amarti nel modo in cui devono fare due che stanno insieme. Quando venni a dirtelo, tu non mi sembrasti stupito. Mi dicesti che lo sapevi, che te ne eri accorto, che avevi visto come guardavo quel dottorando all’università. In quel momento mi sentii nuda e mi salì una rabbia ingiustificata. Poi ci guardammo in faccia e scoppiammo a ridere perché in fondo era facile e forse nemmeno tu eri più così innamorato.

Eravamo sempre stati una coppia sui generis. Vicinissimi eppure liberi di confidarci ogni cosa, anche la più sgradita.

«Io sono e sarò sempre innamorato di te» avevi detto serio.

«Evidentemente non tanto da tagliarti le vene per il mio abbandono» avevo ironizzato e un abbraccio fraterno aveva suggellato il nostro addio. Da quel momento non ci eravamo lasciati mai più anche se io avevo sposato il dottorando, di cui, avevi ragione, mi ero innamorata perdutamente.

 

 

 

Sono tornata dentro mentre portavi due tazzine fumanti. Ho bevuto la mia sotto il tuo sguardo indagatore.

«Non posso» ho detto. «Non ce la faccio…».

«Lo so, ma succederà comunque. Vorrei essere io a deciderlo prima che il dolore mi assalga e mi stordiscano con la morfina».

Ho capito. Alla parola dolore io ho capito.

Quella notte, abbracciata a mio marito non ho dormito.

Lui aveva sempre saputo tutto di noi, anche quanto tu fossi importante nella mia vita.

Gli ho raccontato della Svizzera e di come tu fossi deciso ad andartene.

«È una decisione inequivocabile. Vuole me, ma io non posso dire addio alla sua vita».

«E invece lo farai, perché accadrebbe lo stesso. Ha ragione lui, Giuliana, e non puoi abbandonarlo adesso».

«Ma io non lo abbandono, non lo farei mai però non mi rassegno».

È stata la notte più lunga della mia vita e condividerla con mio marito è stato dolce e strano allo stesso tempo.

Il mattino dopo, alle quattro ero già in piedi. Camminavo su e giù per il salone, mentre il gatto mi esaminava guardingo, perché non aveva mai avvertito tutta quella tensione.

Alle sei ho fatto il tuo numero.

«Vengo con te» ho detto soltanto e ti ho sentito respirare forte.

«Lo sapevo» hai detto esultante, strappandomi un sorriso amaro che non potevi vedere.

Siamo partiti una domenica all’alba.

Quando sono venuta a prenderti a casa, per aiutarti con l’unica, piccola, borsa che ti eri preparato, ho provato una fitta dolorosa allo stomaco. Mi sono resa conto che quella sarebbe stata l’ultima volta che ti avrei visto nel tuo appartamento. «Questo è tuo» mi hai detto cogliendomi di sorpresa quando mi  hai mostrato l’anello di tua madre, quello che avresti voluto regalarmi se la nostra storia avesse preso una piega diversa.

«Non posso Dario» ho detto mestamente, mentre rigiravo tra le dita quell’acquamarina che aveva il colore del mare mosso.

«Devi invece. Non vedo chi altri potrebbe averla se non tu. Te l’ho sempre detto che non avrei mai smesso di amarti» hai affermato tutto d’un tratto e per la prima volta, dopo 25 anni, ho intravisto un guizzo diverso nei tuoi occhi, un amore che era stato sopito per un quarto di secolo, senza mai diventare invadente e mostrarsi per ciò che era davvero, da sempre.

Ho distolto lo sguardo, in preda a un’agitazione che a stento riuscivo a controllare. Non ero là per una gita fuori porta, ero là per accompagnarti nel tuo ultimo viaggio e adesso mi accorgevo di quanto io ti fossi rimasta dentro e di quanto tu fossi rimasto dentro di me, nonostante il mio matrimonio felice.

«Sai, Giuliana, sono felice che mia madre non ci sia più. Questa cosa l’avrebbe uccisa anche se sono sicuro che sarebbe stata dalla mia parte».

Hai chiuso la porta e mi hai consegnato le chiavi sorridendo: «A me tanto non servono più».

Ti ho restituito un sorriso triste mentre il cuore quasi mi scoppiava.

Tra la folla rutilante dell’aeroporto ti ho visto spaesato, confuso, minuto come mai. Ti ho preso la mano e mi pareva di accarezzare un piccolo animale scarno, caduto da un ramo troppo alto. Tremava e tremavo anche io mentre già ti dicevo addio, tra il rombo degli aerei e i saluti di chi andava via per ritornare. Tu non saresti tornato, da quell’aereo sarei scesa da sola, orfana di te, del tuo sorriso, della tua amicizia e del tuo amore speciale.

«Sei coraggiosa» hai esclamato mentre l’hostess mimava le procedure di emergenza.

«Sì, lo so, gli aerei mi hanno sempre fatto paura» ho scherzato, con quel briciolo di ironia che faticavo a racimolare dentro il mio cervello e il mio cuore. Hai sempre apprezzato le persone capaci di sdrammatizzare e l’ho fatto per te, per trattenere il tuo sorriso dentro lo scrigno dei miei ricordi.

«Sai cosa voglio dire».

«Sì, lo so, ma il coraggioso sei tu. Sei tu quello che si riprende la dignità e lo fa andando fino in fondo».

Il tuo viso si è avvicinato al mio più di quanto avesse mai fatto in quegli ultimi 25 anni e io ho sentito agitarsi un vortice nuovo nella mia anima già in subbuglio. Le tue labbra mi sfioravano. Ho desiderato, in quel momento, che mi baciassi. Forse tu l’hai letto in fondo ai miei occhi perché la tua bocca si è posata sulla mia, come fanno i bambini che suggellano il loro amore infantile. Mi si è scompigliato il cuore e ho pensato a mio marito. Mi sono chiesta cosa mi stesse accadendo e ho cercato di darmi mille giustificazioni, non ultima quella che la tua bocca sulla mia mi stesse dicendo “addio”.

 

 

 

Ginevra ci ha accolto con una pioggerellina fitta. In novembre è quasi sempre così, hai detto, ci eri già stato. Faceva freddo ma le luci della sera la facevano sembrare magica. Il tuo ultimo giorno sarebbe stato quello successivo. Non ti sentivi bene, camminavi e respiravi a fatica, eppure il pensiero della morte non ti ha tolto la voglia di inondarti della luce di Place du Bourg-de-Four, piena di gente che andava e veniva, in bicicletta o a piedi, coi tavolini all’aperto anche in autunno.

«È bellissima» ho detto e ti ho preso la mano, stringendola forte come in una gabbia. “Resta qui” pensavo “in questa piazza, fermiamo il tempo in questa bolla temporale, per un attimo o tutta la vita”.

«Ho fame, avrò pur diritto alla mia ultima cena» hai sorriso, uscendo da quella stretta ma solo per cingermi le spalle e dirigermi verso una vetrina sulla quale stava scritto un menù della sera. La battuta non mi faceva ridere per niente, ma pure io ho sorriso. Tutto aveva il sapore dell’ineluttabilità, anche il cibo che di lì a poco ci avrebbero portato. Non l’ho dato a vedere e per impormi di non piangere al pensiero di quel tuo corpo alla fine, mi sono infilata le unghie dentro il palmo della mano.

Il ristorantino intimo che hai scelto sembrava il palcoscenico adatto per l’inizio di un amore, non per l’epilogo di una vita. Eri bello, nonostante tutto. Bello come a 20 anni, per me. Ho capito quella sera che forse avrei potuto amarti di nuovo ma che il nostro tempo era davvero scaduto. Ho pensato anche a mio marito e mi sono sentita in colpa. Lui che aveva accettato la nostra amicizia così intima, che mi aveva esortato a partire con te nonostante la mia iniziale riluttanza. Lui, che ignorava quel sentimento triste e potente che mi faceva tremare il cuore nell’ora più buia.

«Godiamoci questa serata. Io e te, come ai vecchi tempi, quando bevevamo senza un pensiero al mondo e tutto ci sembrava possibile. Io sono qua, tu pure, il vino è buono, oggi possiamo essere felici, non credi?» hai chiesto, sorseggiando un po’ di vino con una strana allegria.

«Sì» ho risposto soltanto e ho bevuto tutto d’un fiato il mio calice pieno fino all’orlo.

È stata una serata strana, piena di cose non dette e sguardi carichi di parole che nessuno dei due voleva pronunciare. Un amore che diventa amicizia per poi riscoprirsi amore, forse solo perché sa di non avere più tempo. Illusione o verità? Non me lo sono chiesto, nemmeno quando siamo tornati albergo e sono stata io a chiederti di venire nella mia stanza. Non avevo nessuna intenzione particolare se non quella di stringerti fra le braccia e cullarti per avere le tue ossa sulle mie e conservare il tuo calore per sempre. Ci siamo stretti come naufraghi, pieni di una disperazione quasi salvifica per me e per il mio senso di colpa che si mischiava al desiderio di trattenerti. Non un bacio, non una carezza che ci portasse al di là di quel confine tacitamente disegnato tra i nostri due corpi. Solo un’infinita tristezza e un addio che scorreva nel mio pianto sommesso. L’alba ci ha sorpreso troppo presto. Quell’allodola infida di shakespeariana memoria ha cantato fuori tono, riportandoci alla realtà. Ginevra era cadaverica, fredda e lontana. Nessuna luce fuori, solo una mattina implacabile e macchine che sfrecciavano avanti e indietro come schegge dissennate. Con lo sguardo ti ho supplicato di desistere anche se non era giusto. Hai risposto con un silenzio eloquente e allora ho abbassato gli occhi, sconfitta.

Poi tutto è stato veloce, vissuto col respiro trattenuto.

 

 

 

La stanza era piccola, con un letto e una poltrona. La finestra affacciava su un parco e in lontananza si vedeva la città. Il dottore era un uomo alto e smilzo, professionale. C’era un orologio accanto alla parete sulla quale era montata una telecamera il cui occhio stava puntato sopra al letto. Ci hanno spiegato, in inglese, che quella telecamera avrebbe ripreso tutto e avrebbe costituito la prova della volontarietà dell’atto; prova da mostrare alla polizia, che sarebbe stata avvertita solo dopo il decesso, altrimenti, paradossalmente, avrebbe dovuto vietare la procedura. Non un guizzo di tensione ti serpeggiava nel corpo e sul viso. La flebo era già pronta… anche tu lo eri. Il dottore ti ha dato due pastiglie di antiemetico, per la nausea.

Non avevo più lacrime, niente più parole, ti ho preso le mani e te le ho strette forte.

«Ti ho sempre amata» hai detto soltanto mentre il medico ti avvicinava l’ago alla vena. Con sollievo hai sussurrato un «Finalmente» che ancora mi riecheggia nella testa.

«Deve aprire la valvola» ti ha detto poi il medico, perché dovevi essere tu a procurarti la morte.

L’orologio segnava le 10 e 12 minuti.

«Amore mio, fai buon viaggio» sono riuscita a dirti e mi sono sporta sopra di te per un ultimo abbraccio.

Il pentobarbital scendeva e tu non mi staccavi gli occhi di dosso.

«Guardami, sono insieme a te, addormentati e non pensare a nulla. Sei libero» ho detto. Tu hai sorriso e a un tratto mi sei sembrato già lontano, mentre gli occhi ti si chiudevano al sonno. Erano le 10 e 15 minuti quando il tuo cuore ha smesso di battere. Tutto finito.

Finita la giovinezza, la nostra vita, il nostro amore dato e poi restituito, i baci dispensati e quelli solo immaginati.

Ti penso stasera.

È passato un anno. Ho dovuto riabituarmi a respirare, ho cercato dentro di me la forza perché mi hai fatto vivere la più terribile delle prove. Ma ti ringrazio per avermi voluta nella tua vita e nella tua morte. Chi va via si libera, chi resta maneggia un dolore senza pari ma al contempo comprende il valore del rispetto delle scelte. Ti penso ora e ti penserò ogni giorno e ogni sera della mia vita, ora ti vedo sciolto dalle zavorre, affrancato dal dolore, mentre ti scaldi al sole e sorridi.

 

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