A un passo da te

Cuore
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 “A un passo da te” di Sabrina Bergamini, pubblicata sul n. 32 di Confidenze, è una delle storie più apprezzate della settimana. Ve la riproponiamo sul blog

 

Forse lo volevo anch’io. Difficile capirlo quando sei malata e il futuro è un buco nero. Per te è stato facile prendere sul lettino la mia vita in frantumi: non avevo altro. Dopo, ho creduto impossibile fidarmi ancora, ma l’amore che oggi mi riempie la vita è la mia rivincita più grande

Storia vera di Lucia D. raccolta da Sabrina Bergamini

 

Pareti bianche, lunghi corridoi e una porta chiusa ci separano. C’è sempre stata, tra di noi, quella porta. È un pensiero che si fa strada nella mia mente proprio adesso, mentre avanzo passo dopo passo in questo ospedale solitario nell’ora della sera. Ed è strano come certi dettagli apparentemente privi di significato solo dopo tanto tempo si rivelano invece infinitamente preziosi: in quella porta che stabiliva una distanza, una barriera, c’era già scritta tutta la nostra storia. Quanti anni sono passati? A volte sembrano tanti, a volte sembrano pochi, dipende dai giorni. Ma ricordo tutto, sai? La vita mi ha regalato una memoria straordinaria, ma forse non è un dono, è una maledizione. Dimenticare, spesso, è l’unico modo per mettersi in salvo da se stessi.

Era un martedì di fine luglio. Sarebbe potuto essere un martedì come tanti altri se non fosse che la vita, quando meno te lo aspetti, ti infila un appuntamento con il destino, e allora no, non sarà mai più un martedì qualunque. Ma ancora non potevo saperlo. L’immagine nella mia testa è nitida, i contorni ben chiari. Mi rivedo mentre passeggio inquieta, due passi avanti e due indietro e poi ecco che la tua porta si apre, qualcuno entra, subito si richiude ed è così che avviene il nostro primo sguardo. Uno sguardo rubato. Rubato come lo sarà il nostro tempo insieme, tempo strappato ad altre vite. Il mio turno arriva dopo una lunga e snervante attesa e quando mi siedo di fronte a te, quello che trovo sono due occhi profondissimi che non smettono mai  un secondo di scrutare dentro ai miei. Non sembri affatto interessato alla mia anamnesi, alle parole che escono rapide dalla mia bocca.

«Lei quante volte sorride in un giorno?» mi domandi a bruciapelo.

«Come dice scusi?».

«Lo sa vero che si sta uccidendo? E poi perché non scrive? Lei ha la faccia di una che ha un sacco di cose da scrivere» aggiungi senza darmi il tempo di rispondere, con quel tuo tono autoritario, saccente che mi fa venire subito voglia di mandarti al diavolo. Ma al diavolo non ti mando, e come potrei? Hai scorto nei miei occhi un dolore antico che non cerco più nemmeno di nascondere ma che nessuno vuole vedere, spesso, infatti è molto più comodo far finta di nulla e passare oltre. E poi hai indovinato il mio desiderio più grande, più intimo. Scrivere. Mi sarei potuta alzare e andarmene a gambe levate pensando di essere incappata in un medico con le rotelle fuori posto ma questo pensiero, in verità, non mi sfiora nemmeno per un istante. E il motivo è semplice: sono esattamente come uno di quei barconi di disperati che dopo tante tempeste intravede un porto dove finalmente mollare gli ormeggi. E i miei occhi, pozzanghere sporche senza fondo, in quello stesso istante, si riempiono di lacrime. Sono lacrime sepolte sotto le mille maschere che ho indossato per anni, sotto gli infiniti detriti di sofferenze mai affrontate e che adesso risalgono dal profondo, con violenza. Mi sorprendono quelle lacrime uscite con tanta facilità, a tradimento. Io, abituata a controllare ogni più piccolo impulso del mio corpo, mi ritrovo con il volto sfatto, completamente senza veli davanti a un uomo che conosco da meno di cinque minuti. La sorpresa segna anche il tuo volto, forse sei sorpreso tu stesso di aver fatto centro, magari è  la prima volta che ti riesce così bene. Mi asciugo il volto, chiedo scusa per lo sfogo inventando qualche giustificazione, in fondo, lo studio di un medico offre sempre buoni motivi per piangere e mi alzo con la fretta di lasciarmi alle spalle quello strano incontro, quella tensione che vibra nell’aria. Eppure vorrei restare. Rimanere immobile, protetta da quel luogo di gente infetta, persone malate. Sono ormai alla porta, una mano appoggiata alla maniglia, quando la tua voce torna a raggiungermi.

«Se ha bisogno io sono qui» mi dici con un tono completamente diverso che mi avvolge, mi conforta.

Mi volto e rimango a guardarti per un lungo e interminabile istante.

Nessuno dei due immaginava il guaio dentro al quale stava andando a cacciarsi.

 

 

 

Avevo 24 anni e avevo davvero bisogno di aiuto. Molto aiuto. Mio padre era morto da tre anni. Ma morto non è il termine esatto. Mio padre si era suicidato. Aveva scelto di far calare il sipario sulla sua infelicità un venerdì sera di inizio aprile. «Hanno trovato il corpo di un uomo dietro la riseria» sentii dire la mattina seguente dalla mia vicina di casa. Mio padre non era rientrato a casa e il mio cuore di figlia non ebbe bisogno di conferme, quel giorno. Nelle settimane precedenti c’erano state liti continue tra i miei genitori, liti dalle quali avevo imparato a mettermi in disparte. Avevo imparato a fare un passo indietro non tanto per egoismo, quanto per puro spirito di sopravvivenza.  Accuse, grida, piatti rotti erano routine quotidiana per me. Da una parte la gelosia patologica di mio padre che nascondeva fragilità lontane, una depressione mai curata, una rabbia senza confini contro una vita che aveva tradito i suoi sogni di gioventù, dall’altra parte mia madre. Donna fredda, distante. I suoi silenzi tagliavano l’aria. E, in mezzo, c’ero io. Venuta al mondo in un deserto emotivo a dimostrare che i figli non salvano i matrimoni, anzi spesso aggiungono problemi. E il problema fu che di colpo smisi di mangiare, mi feci crescere ali al posto delle scapole sognando, un giorno, di spiccare il volo. E invece ero rimasta. In trappola. Anche dopo la morte di mio padre, mentre mia madre si ricostruì una nuova esistenza accanto a un nuovo uomo, io rimasi in trappola. Perché i disturbi alimentari sono questo: una trappola. Entrarci è facilissimo, quasi un gioco, ma uscirne è quasi impossibile. All’inizio sono uno splendido modo per attutire le emozioni, modulare i sentimenti. Plasmare il tuo corpo, controllare i tuoi stimoli più primordiali quando tutto attorno ti sfugge di mano, ti fa stare bene ma quando ti accorgi che è la malattia a tenerti in scacco e tu non sei più capace di ingoiare una caramella senza correre in bagno e infilarti due dita nella gola, ormai è già troppo tardi. Ero stanca. A 24 anni ero già stanca della vita. Avevo appena messo la parola fine a una lunga relazione con un uomo molto più grande di me, già impegnato e terribilmente egoista. Solo dopo molto tempo e anni di terapia avrei compreso che gli uomini sbagliati non arrivano mai per caso, non sono mai scelte fortuite quelle che facciamo.

Ed è in quello stato emotivo che arrivai da te un pomeriggio come tanti. Ufficialmente per una gastrite che non mi dava tregua, ma in realtà con segreti ben più scomodi da svelare e che tu, straordinariamente, hai letto attraverso i miei occhi stanchi. E io mi sono lasciata leggere. Perché era solo questo che aspettavo. Aspettavo che qualcuno sgretolasse il muro di menzogne che mi ero costruita per difesa, aspettavo che qualcuno accogliesse quel dolore senza voce che mi stava lentamente uccidendo. Ed è così che tornai. Tornai con un carico enorme di aspettative, affidandomi completamente ai tuoi occhi che sapevano vedere oltre, alle tue mani di uomo, di chirurgo. Ma i tuoi occhi non seppero più, o forse non vollero più indovinare i miei pensieri e le tue mani si infilarono presto sotto la mia gonna, il tuo sesso raggiunse troppo presto il mio e troppo presto mi ritrovai spogliata sopra a un lettino che avrebbe dovuto ospitare malati e non giovani donne. Forse lo volevo, forse no, chissà. È difficile stabilire certe cose quando la tua vita va a rotoli, quando attorno tutto vacilla, quando a 24 anni sei costretta a vivere da sola con un gatto e sei malata e non hai prospettive e il futuro sembra un buco nero.

 

 

 

So solo che a te mi aggrappai. Mi aggrappai perché non avevo nulla al di fuori di te. Mi aggrappai con la forza della disperazione e sopportai. Sopportai le briciole del tuo tempo, il silenzio di certe sere, il suono di un telefono che mi sembrava di sentire e invece non suonava mai dopo le 20, mai di sabato, mai di domenica. Sopportai l’umiliazione del tuo corpo che entrava nel mio per poi ritrarsi velocemente e fuggire verso un’altra donna,  un altro destino. Sopportai che la rabbia mi invadesse la mente e l’anima fino a quando la rabbia divenne pazzia e la nostra storia finì senza mai più dirsi una parola.

Svolto a sinistra, percorro l’ultimo tratto di corridoio mentre i ricordi si alternano nella mia mente, e poi ecco che finalmente sono a un passo da te. Mi guardo attorno, cerco familiarità tra queste pareti e non la trovo. Mi siedo nell’ultima sedia rimasta vuota. Fa caldo, anche quel giorno di fine luglio di tanti anni fa faceva caldo. Sono tornata e vuoi sapere perché? Per dirti come è stato, dopo.

Dopo che tu mi hai allontanata, lasciata sola con il cuore a pezzi, solo allora ho preso davvero in mano la mia vita. Un pezzo di strada lo avevamo percorso insieme: negli alti e bassi del nostro rapporto avevo trovato la forza di entrare in una clinica per disturbi alimentari, iniziare una terapia. Ma la terapia seguiva gli equilibri instabili del nostro prendersi e lasciarsi e più mi avvicinavo alla guarigione, più prendevo coscienza di quello che realmente era accaduto tra noi. Qualcosa di profondamente sbagliato. Una violenza. Se io e te ci fossimo incontrati un giorno qualunque, in posto qualunque, io sarei potuta diventare la tua amante, o un’amica, o solo un volto tra tanti. Ma io e te non ci siamo incontrati in un posto qualunque, in un giorno qualunque. Ci siamo incontrati nel tuo ambulatorio, seduti uno di fronte all’altra. A dividerci solo una scrivania. Ed è proprio quella scrivania a fare la differenza. È quella scrivania a dividere la parte sana da quella malata.

Io ero la parte malata, indifesa. Io non ho scelto. Forse ho creduto di scegliere ma non si è liberi di scegliere quando si soffre profondamente. E trasformare le dipendenze alimentari in dipendenze affettive è un passo falso fin troppo semplice da commettere. Sono stata creta tra le tue mani.  Mi hai modellato a seconda del desiderio del momento, a seconda dei tuoi capricci.

Mi sono sentita come tu hai voluto che mi sentissi: difettosa e inadatta a un rapporto vero, autentico, completo come quello che tutti meritano. Imperfetta per la vita, insomma, ancora una volta. Sei stato il prolungamento naturale della mia malattia. Ma la rabbia che mi hai lasciato dentro e che avrebbe potuto annientarmi l’ho usata invece per ripartire, ricostruire. E grazie all’aiuto del tempo, di una brava psicoterapeuta, dell’affetto dei miei gatti, dei libri buoni, del silenzio, degli amici, dopo mesi mi sono scoperta una donna nuova. Una donna finalmente pronta a correre il rischio di vivere senza maschere, senza rete di protezione e soprattutto con la consapevolezza che non avrei mai più permesso a nessuno di farmi sentire la metà di niente, mai più mi sarei accontentata dell’elemosina che mi veniva offerta credendo di non meritare altro. E ho imparato che se invece di innalzare barriere si ha il coraggio di abbatterle e oltrepassarle, se si ha il coraggio di attraversare il proprio deserto di dolore, la vita dall’altra parte, è meravigliosa. Io ho avuto il coraggio di attraversare quel confine che avevo tracciato tra me e il resto del mondo nella falsa credenza di ripararmi dalle sconfitte e dalle delusioni e non è stato facile. Nulla è stato facile. Il passaggio dalla malattia alla salute non è un salto ma un lungo cammino fatto di cadute, il segreto è non mollare mai. Tornare a fidarsi degli altri, è stato ancora più difficile. Fidarsi degli uomini, soprattutto. Eppure è accaduto. E quando meno me lo aspettavo, quando avevo altri progetti per la mente, è arrivato anche l’amore. Quello vero. Quello che si costruisce giorno dopo giorno, quello che si consuma nella quotidianità, che si perde nelle bollette da pagare. Quello che non ho mai avuto, quello che ho sempre desiderato. Ed è bellissimo. Il prossimo anno mi sposo. Ma non sono qui per dirti questo. Non sono qui per invitarti al mio matrimonio. Sono qui per ricordati che non si può fuggire dalle proprie colpe. Perché vedi, è facile chiudere la porta del proprio studio, abbassarsi i pantaloni, dire è questo ciò che desideri, è questo ciò che ti serve.

 

È facile rivestirsi in fretta, tornare nella propria casa, fingere di essere una brava persona. È facile quando davanti si ha una vita in frantumi, un relitto. Ma non ti illudere: non sei una brava persona. Tra te e un assassino non c’è nessuna differenza. Puoi mentire agli altri ma non a te stesso. E quando sarai vecchio, quando la fila dei giorni vissuti sarà più lunga di quelli ancora da vivere, ci sarà almeno una notte in cui il mio pensiero ti terrà sveglio e forse, allora, ti verrà voglia di cercarmi per chiedermi perdono. Sono qui per dirti di non farlo. Sono qui per dirti che ti ho già perdonato. Il perdono è un lusso concesso a chi è felice ed è un lusso che oggi posso permettermi. La piena felicità di cui oggi godo e l’amore che mi riempie la vita sono la mia rivincita più grande. Ti perdono perché odiare vuol dire continuare a ricordare e io non ho spazio per il tuo ricordo.

La sala d’aspetto è ormai vuota, la porta si apre lasciando uscire l’ultimo paziente. Sono davvero a un passo da te, adesso. Ma non sono più tanto convinta di volerlo compiere, quel passo. Lascio che i nostri occhi si intreccino per un istante appena, uno sguardo rubato. Lascio che finisca come tutto è iniziato.

A passi lenti mi allontano.

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