Cronaca di una seduta spiritica

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La tavola rotonda di questa settimana, mi ha fatto rivivere l'esperienza di una seduta spiritica, fatta tanti anni fa. E che mi ha lasciato il dubbio che, forse sì, i fantasmi esistono

Avevo sedici anni quando mi incaponii di partecipare a una vera seduta spiritica. Un caro amico (mezzo fidanzatino) mi raccontò che, in casa sua, il contatto con l’aldilà era una pratica normale. Nella sua famiglia c’era chi la mattina incontrava lo spirito sorridente della vecchia tata, chi avvertiva presenze nell’antica casa di campagna e chi su suggerimento di un avo scopriva tesori in cantina. E fra i suoi numerosi fratelli, proprio lui era considerato il “medium” più potente.

Il mio innamorato non avrebbe dovuto parlarmene, mi incuriosì troppo e lo sfinii perché organizzassimo un incontro, con pochi partecipanti selezionati, nello studio di un noto psichiatra (molto interessato all’esperimento), padre di un altro amico comune. Dopo inutili resistenze («Guarda che tu, per come sei fatta, ti pigli un colpo»), alla fine cedette.

Eravamo circa in sei, quella sera e l’atmosfera era tutt’altro che cupa. Il mio ragazzo non voleva candele, né buio, né alfabeti strani: luce piena e soltanto un tavolo a tre gambe. Ridemmo come pazzi sedendoci in cerchio e quando lui ci chiese di unire le mani.

Premessa importante: ci conoscevamo tutti bene, tranne una ragazza (mia omonima) imboscata attraverso uno di noi.

Il “medium” chiese silenzio, domandò se eravamo pronti e poi abbassò la testa verso il tavolino. Dopo pochi minuti il mobile cominciò a ballare piano ma ritmicamente. Non vi nego che, già a quel punto nessuno rideva più. Potevamo vedere bene che non c’era trucco: le nostre gambe, sempre su richiesta, stavano ripiegate sotto ciascuna sedia, le mani restavano allacciate, e allora? Paura…

Il “medium” iniziò a parlare in una lingua sconosciuta, sembrava quasi un antico dialetto italiano. Si capiva che stava “dialogando” ponendo domande precise al tavolino che rispondeva con battiti ora più decisi seguendo semplicemente l’alfabeto: un colpo per “A”, due colpi per “B”, tre per “C”, e così via. Il resto del gruppo restava ignorato, insomma la seduta spiritica sembrava arenata. Finché, come spinto da una forza invisibile, il tavolino si lanciò all’improvviso contro una parete. E noi, annichiliti e  tutti in piedi sempre con le mani allacciate, a seguirlo come il “medium” ci aveva prontamente intimato.

Mentre il tavolino batteva e batteva contro il muro, sono scoppiati un bicchiere sopra un mobile e la lampadina di un’applique e, per quanto mi riguardava (ma penso anche per gli altri), avrei chiuso volentieri qui l’esperimento.

«Sembra arrabbiato» ho sussurrato al mio ragazzo. «Lo è, non vuole parlare. C’è qualcuno nel gruppo che non gli va, ma non so ancora chi», rispose lui e poi riprese con la sua lingua strana a fare domande al tavolino sempre più accanito contro il muro.

Poi, inaspettatamente, i battiti sono cessati, è ripreso il tremolio ritmico dell’inizio e, subito dopo, lì dove ci trovavamo, il tavolino ha battuto il nome della persona che avremmo dovuto espellere dal gruppo per poter continuare e il perché.

No, non ero io, perché quando il “medium” ci ha tradotto quel perché, la mia omonima è svenuta. E naturalmente l’eperimento si è concluso con un dramma più grande di noi che preferisco non rendere pubblico.

A distanza di tanti anni, e scrivendo questo post stimolata dalla tavola rotonda nel numero in edicola questa settimana (I fantasmi esistono?), mi rendo conto di aver accantonato quell’esperienza come un trauma, qualcosa di irrisolto, al quale non so rispondere.

Di sicuro, però, mi basta questo dubbio per dire che, forse sì, a ripensarci ai fantasmi ci credo.

 

 

 

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