Oltre le mie sembianze

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È stata la storia più votata del numero 43: Oltre le mie sembianze, ora la potete rileggere sul blog

storia vera di Miki Formisano raccolta da Giovanna Brunitto

Una delle cose che mi piace più fare è litigare con la mia compagna. Sapete quelle liti che si basano su niente, tipo: «Miki hai lasciato ancora il tappo del dentifricio aperto?». Io rispondo no con voce ferma, ma sicuramente l’ho fatto, mi dimentico sempre di chiuderlo dopo aver lavato i denti. Lei mette il muso poi io faccio una battuta, lei ride e tutto passa. Ecco, essere una coppia, condividere le abitudini quotidiane, sapere che la mattina ti svegli e che lei ci sarà, è qualcosa di straordinario. A tanti potrebbe addirittura apparire una banalità, ma per me è una fonte inesauribile di stupore. Ogni volta al solo pensarci sono scosso da brividi di gioia. Forse perché per arrivare dove sono, la strada è stata lunga, difficilissima.

Forse perché oggi sono quello che ho sempre voluto essere e finalmente la mia vita “fuori” coincide con quella che ho immaginato dentro di me.

Oggi sono Miki, ho 55 anni e sono un uomo anche per il mondo e la società, ma non è stato sempre così. Quando sono nata ero Michela, una bambina. Già quando avevo cinque anni ero il classico maschiaccio: giocavo, correvo, saltavo senza sosta. Per me era un problema mettere la gonna, la mia eccessiva vivacità insieme a un disagio interiore al quale non sapevo dare un nome, mi portava a impormi sugli altri e a essere a tratti aggressiva se non addirittura violenta. Questo mio atteggiamento, in breve, mi fece diventare il capro espiatorio di qualsiasi cosa accadeva intorno a me, anche di quelle con le quali non c’entravo niente. Se a scuola mancava una merendina da qualche banco, di sicuro ero stata io a prenderla. Se qualcuno faceva a botte e io ero nei paraggi, era colpa mia. Avere tutti contro, però, esasperava i miei comportamenti. Più mi dicevano che ero indisciplinata e più mi arrabbiavo. Era come se da me tutti si aspettassero solo guai e guai e problemi erano quelli che io davo. Poi è arrivata l’adolescenza e con essa i cambiamenti del corpo. All’improvviso mi sono ritrovata con un seno da nascondere e tutti gli annessi del caso. Quando mi guardavo non potevo credere di essere io quell’immagine riflessa nello specchio. L’unico conforto in quel periodo è stata una suora che a scuola mi difendeva dalla cattiveria gratuita degli altri. Lei aveva compreso il tormento che mi portavo dentro e non mi guardava con sguardo severo o di compatimento come facevano tanti. Per lei ero una persona che aveva bisogno di essere amata per quello che era. A casa le cose andavano così così. In famiglia, specie nel sud Italia, quando avevi un figlio o una figlia con “quel problema” facevi finta che il problema non esistesse e la mia famiglia non faceva eccezione.

Ora da adulto comprendo il loro disagio e non ce l’ho con nessuno. Giudicare oggi sarebbe semplice, allora si faceva quello che era possibile fare e per me di soluzioni non ce n’erano. Ero incastrato in un corpo che mi era completamente estraneo. Ero un uomo in un corpo di donna. L’unica via che mi restava per urlare la mia rabbia per questa ingiustizia era ribellarmi a tutto ciò che rappresentava la normalità. Se non potevo essere quello che volevo, allora non avrei rispettato neanche le regole della quotidianità che valevano per tutti gli altri. Avevo solo voglia di spaccare tutto, di infrangere qualsiasi norma possibile. Così è iniziata la mia discesa agli inferi nel mondo della droga. Gli anni Ottanta erano gli anni dell’eroina e arrivarci è stato molto più semplice di quanto immaginassi.

 

Vivevo ai margini della società e quando si è in certi contesti si smarrisce il senso etico, non si comprende più la differenza tra ciò che è bene e ciò che è male. L’unica cosa che mi ha aiutato è stato il fatto di  non essere cacciato di casa e avere comunque un punto di riferimento, una famiglia. Quando è arrivato il primo arresto a seguito di alcuni reati commessi, ho perso anche quell’unico appiglio. In carcere essere tossicodipendente è un’ulteriore condanna che ti espone a qualsiasi sopruso. Lì ho conosciuto gente di tutti i tipi. Una cosa però è certa: se si può uscire dal tunnel della droga, non è in carcere che questo avviene. Me la sono cavata con l’unica carta che conoscevo, mi sono imposto con la forza, ma non tutti vi riuscivano e sopravvivere ogni giorno era dura. Allora nella mia vita c’era Anna e, nonostante il carcere, l’ho amata e difesa finché ha pagato con la vita i comportamenti a rischio ai quali ci si poteva esporre nella condizione di tossicodipendenza: scambi di siringhe o rapporti sessuali non protetti. Nel frattempo, uscivo e rientravo dal carcere perché i conti con la giustizia erano lenti, ma inesorabili e andavano pagati. Mio padre e mia madre mi accoglievano come potevano e cercavano di darmi consigli, ma la rabbia che avevo dentro era incontenibile. Poi quando credevo che la mia vita fosse tutta a rotoli, ho avuto la batosta più dura di tutte. A metà degli anni Ottanta, la Sanità pubblica iniziò a fare dei prelievi di sangue su particolari fasce di popolazione per capire la diffusione dell’Aids. La malattia era misconosciuta e allora si pensava che fosse esclusivamente legata alla comunità gay e dei tossicodipendenti. Dai controlli risultai sieropositivo. Nel 1985 questo significava morire.

 

Le cure erano pochissime e costose e quello che si sapeva sulla malattia era ancora meno. Nel mio caso una siringa utilizzata insieme ad altri per iniettarmi eroina deve aver veicolato il virus. La notizia mi ha devastato. Già mi sentivo emarginato per la mia identità sessuale, adesso diventavo un reietto. Anche in casa era diventato difficile stare. Bere un bicchiere d’acqua o andare in bagno era per mia madre, preoccupata per i miei fratelli e sorelle, una fonte di immensa inquietudine. Non so come, però sono riuscito ad andare avanti. Poco dopo Tonia, la mia migliore amica, si è ritrovata in ospedale. Anche per lei la condanna sono stati i comportamenti a rischio avuti nel periodo della tossicodipendenza. Una complicazione al fegato la stava divorando.

Tonia è stata sin dall’infanzia la mia migliore amica e, anche se oggi non c’è più, lo resterà per sempre. La sua malattia era insopportabile, non volevo che se ne andasse, ma non c’era nulla che si potesse fare, purtroppo.

Al capezzale di Tonia ho conosciuto sua cugina, l’unica parente che venisse a darle conforto. Quando l’ho vista, ho avuto un colpo al cuore. Era lei. Marilena. La nostra storia è iniziata senza che né io né lei l’avessimo preventivato o solo voluto e mi ha donato una forza straordinaria. Un amore così forte che mi ha portato a scegliere la vita, a comprendere il mio disagio interiore.

Marilena era al di fuori di qualsiasi giro da me frequentato fino ad allora ed è andata oltre le apparenze, mi ha amato come persona. Lei è stata la mia occasione per riprendermi in mano la vita. E così con uno sforzo enorme di volontà, ho provato a risalire lentamente la china. È stata dura e non avevo certezze per il futuro, ma sapevo che non volevo tornare indietro e, soprattutto, che volevo provare a vivere e ad amare essendo finalmente riamato. La via per noi è stata lunga, io avevo la mia vita da riprendermi e lei aveva nodi familiari che doveva prima sciogliere. Ci siamo presi tempo e siamo andati avanti, finché non siamo riusciti a vivere finalmente insieme. Nel frattempo, grazie ai primi gruppi sul web, ho iniziato ad avere contatti con varie persone che avevano già iniziato il percorso per cambiare genere. Gli incontri che sono seguiti mi hanno aperto un mondo di informazioni e sostegno, se volevo potevo diventare davvero Michele. Ci ho provato, non avevo altra scelta.

 

Avevo lasciato alle spalle la droga, la rabbia, il disagio di essere diverso, la paura di amare, volevo, anzi dovevo lasciare alle spalle anche Michela. Ho iniziato il percorso di adeguamento di genere e oggi sono Michele, per tutti Miki, il nomignolo con il quale mi conoscono. Ho percorso chilometri per arrivare dove sono e ho deciso che tutta questa strada, questa fatica, la voglio dedicare agli altri. Oggi sono presidente di Cest, Centro per la salute dei trans che ha sede a Taranto, la mia città. È un’associazione che ha un approccio innovativo nella presa in carico delle persone transgender. Offriamo sostegno e informazioni anche online in modo da poter raggiungere anche le persone fisicamente più lontane geograficamente. La disforia di genere è un tema ancora di nicchia e l’argomento della salute dei transgender lo è ancora di più. Nella fase di transizione, quando il corpo è già adeguato mentre i documenti riportano ancora i vecchi dati anagrafici, i problemi possono essere quotidiani.

Tutti gli operatori sanitari dovrebbero essere preparati ad accogliere la persona per le necessità legate alla salute, mentre spesso ci si ritrova davanti sguardi inquisitori e pregiudizievoli e questo è uno dei fattori che allontanano molte persone transgender dalla prevenzione e dal prendersi cura di sé. Una delle mie battaglie è fornire strumenti alla mia comunità e alla società in generale per superare queste barriere. Il diritto alla salute è sacrosanto per ogni cittadino a prescindere dall’orientamento sessuale o identità di genere. Non so se ce la farò, ma ci provo. ●

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