Perché te ne vai

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Vi riproponiamo sul blog una delle storie vere votate questa settimana sulla pagina Facebook, “Perché te ne vai” di Francesca Colosi, pubblicata sul n. 50 di Confidenze

 

So cosa vuol dire “fuga di cervelli”. Mia figlia voleva lasciare l’Italia per trovare un futuro gratificante. Avevo perso da poco mio marito, non accettavo di vedere andare via anche lei

Storia vera di Anna P. raccolta da Francesca Colosi

 

Mi chiamo Anna e sono una persona sola. Avevo un marito: la leucemia lo ha ucciso. Ho una figlia: lei se n’è andata. Lo ha fatto per motivi di lavoro. Ha dovuto partire, lasciarmi. Adesso Franca vive negli Stati Uniti.

Quando Carlo, mio marito, è morto dopo una lunga malattia, avevo provato un’inconfessabile nota di sollievo. Mesi di stanchezza e di sconforto avevano straziato il mio matrimonio di fronte al declino fisico e morale dell’uomo che avevo amato e sposato. Avevo 47 anni ed ero vedova. Carlo era stato il mio primo e unico amore. Un amore nato tra i banchi del liceo e consolidato nel tempo. Le nostre giornate scorrevano tranquille, una uguale all’altra, chiuse ogni sera dal bacio della buona notte; i momenti speciali erano sempre più rari.

In realtà c’era stato uno scossone quando, rispondendo prima con fastidio, poi con sempre maggiore compiacimento alla corte di un collega, avevo percepito che giovinezza e femminilità erano state seppellite dalla noia.

Intanto era arrivata mia figlia, cercata e amata, a riempire la vita di nuove attese ed emozioni. La sua nascita aveva trasformato radicalmente la mia esistenza, anzi l’aveva resa speciale. Finalmente mi sentivo appagata. Ero ancora molto giovane, ma la maternità non mi aveva affatto spaventata, anzi mi aveva inorgoglita. Mi sentivo l’unica donna al mondo capace di compiere quel miracolo. Franca era una bambina bellissima e vivace e da subito divenne il centro dei miei giorni. La sua crescita era stata un percorso di allegria, condivisione di favole, balli e baci, tanti baci. La lasciavo malvolentieri per andare al lavoro e contavo i minuti che mi dividevano dal ritrovare le sue manine aperte, pronte ad abbracciarmi.

Bravissima a scuola sin dalle elementari, fui certa che anche all’università si sarebbe distinta quando, dopo la Maturità, annunciò che avrebbe fatto Medicina. Si laureò a pieni voti a soli 24 anni.

Franca era davvero una figlia meravigliosa. La bambina dolcissima si era trasformata in una simpatica e responsabile adolescente, poi in una donna realizzata, impegnata e sicura.

Il giorno della sua laurea sapevamo già della malattia di Carlo, anche se ancora erano forti le speranze di riuscire a controllarla e a debellarla. Ma, anche se l’ombra della malattia oscurava la felicità, nei nostri visi traspariva la soddisfazione per il traguardo importante raggiunto da quell’unica, amatissima figlia.

Purtroppo le cure non avevano dato l’effetto sperato: la malattia risultò particolarmente aggressiva e devastante e la vita di famiglia venne completamente stravolta.

Poi finalmente, sì, dico finalmente, era finita.

 

Condoglianze, abbracci, solidarietà. Gente che entrava e usciva di casa, strascico del tormento passato e parole, tante parole quando io non desideravo altro che restarmene sola in silenzio a pregare e a riposare.

Durante l’intero periodo della malattia, Franca era stata la forza di entrambi, aiutando il padre ad affrontare la morte, me a sopravvivere. Mi aveva sostituita anche nell’organizzazione del funerale e di tutto quello che era seguito. Come sempre, anche in quella circostanza mia figlia era stata perfetta, sempre presente a se stessa, impeccabile.

Poi, finalmente sole, si era presa cura di me ribaltando i ruoli di madre e figlia. Mi accudiva, mi coccolava e mi confortava. Ero stanca e confusa, ma mi rasserenava averla accanto. Sentivo che esisteva un’ancora sicura a cui potermi aggrappare: la mia figlia forte sapeva affrontare ogni situazione e rendeva tutto bello e unico. Sarebbe stata il mio solo conforto e con lei la vita avrebbe seguito il suo corso, piena comunque d’amore. Noi due, insieme, potevamo superare il dolore e la perdita ed essere ancora una famiglia, sostenendoci a vicenda, consolandoci e, perché no, divertendoci. Mi immaginavo lei e io insieme dal parrucchiere e al cinema, al ristorante e a fare shopping; ci vedevo sedute a tavola tutte le mattine per la colazione e, la sera, guardare un film alla televisione. Avremmo potuto viaggiare e fare esperienze straordinarie. Con Franca non mi sarei mai sentita triste o sola e la vita mi avrebbe riservato ancora tante cose belle.

Però, non furono molte le colazioni consumate insieme. Una mattina, Franca mi disse che dovevamo parlare: senza troppi giri di parole, mi comunicò che aveva preso una decisione definitiva. Era stata ammessa alla scuola di specializzazione in Neurologia di New York e sarebbe partita il mese successivo.

Il mondo mi crollò addosso.

Piansi tutte le lacrime trattenute, sentii vivo e tangibile un dolore che non riuscivo a soffocare, vidi la mia vita frantumarsi nella perdita insopportabile del mio unico appiglio.

 

Litigammo come non era mai accaduto: implorai pietà, urlai di rabbia, espressi tutto il mio egoismo. Franca rivendicò la sua scelta con dolcezza e determinazione. “Fuga di cervelli” ripetevo confusamente nella mia testa: avevo letto e sentito questa espressione tante volte senza percepire quanto mi potesse riguardare. Perché la mia unica figlia doveva andare così lontano per garantirsi un lavoro dignitoso e gratificante? Cervelli che si allontanavano dalle loro case per sfuggire allo sfruttamento, alla mediocrità, alla burocrazia, al nepotismo e alla corruzione. Ma mia figlia non era un cervello!

Lei era la mia piccolina, la luce dei miei occhi, l’amica del cuore, la mia famiglia, il mio tutto. Qualcuno o qualcosa me la stava portando via. “Maledetti” pensai, “maledetti tutti quelli che erano responsabili di queste fughe, maledetti gli imbroglioni, i corrotti, i conniventi”.

Ancora un mese e lei se ne sarebbe andata. Sentivo che quella decisione era definitiva. Magari l’avrei avuta a casa per una settimana due o tre volte l’anno e naturalmente anch’io potevo andare a trovarla qualche volta, sino a quando avrei avuto le forze per farlo. Ma la verità inconfutabile era che stavo perdendo mia figlia. Argomentazioni lunghe ed estenuanti non mi consolarono. Non potevo confessarlo, ma avrei preferito averla sempre accanto a me, anche disoccupata, sottopagata e sfruttata, ma accanto a me.

Capii di dovermi arrendere dopo aver ascoltato tutte le sue motivazioni, pianto le mie lacrime e ascoltato le promesse reciproche. Quando finalmente calò il silenzio, io e mia figlia ci abbracciammo, ci perdonammo e ci preparammo al distacco.

La notte precedente la partenza, dormimmo insieme nel lettone. Mi alzai di buon mattino, preparai per Franca una ricca colazione, poi le feci le ultime raccomandazioni mentre con la macchina l’accompagnavo in aeroporto. Le offrii quel tipo di consigli che si danno di getto, quasi in automatico, come per riempire un vuoto del cuore ed evitare il pianto in pubblico. La seguii fino all’ingresso del controllo bagagli, poi ci fu solo un bacio fugace prima di fuggire verso la solitudine.

 

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