Requiem per un amico: Paolo Villaggio

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Ho aspettato che si calmasse la gran cassa degli elogi funebri per parlare di un amico, un genio della comicità

Non ho voluto parlare di Paolo Villaggio subito dopo la sua morte, quando tutti i giornali erano pieni di elogi funebri. Diceva che in Italia basta morire per essere dichiarati geni. Ma lui, anche in vita, i riconoscimenti li aveva avuti tutti, come inventore e interprete di un classico immortale, la tragica maschera di Fantozzi.

In Russia è considerato un discepolo di Gogol, il più venerato degli scrittori russi, ed era stato magnifico in un film di Fellini. Diceva anche che l’importanza di una persona si vedeva dai funerali, che dovevano essere fastosi e prolungati. È per prolungare le sue onoranze funebri che voglio salutarlo oggi da questa pagina. Coi morti non si ha mai la coscienza a posto fino in fondo. Ognuno che se ne va è un rimorso. Di colpo dici : «ma quella persona mi era cara! Perché non sono andata a trovarlo, perché non gliel’ho detto?».

Eravamo stati amici, ma quando in un’intervista si lagnò perché lo stavano abbandonando tutti, non sono corsa a dirgli “Ci sono io!”. Rimandavo, secondo l’illusione più stupida di noi mortali: ci sembra d’avere tempo. Con lui i rapporti erano tutti sul filo del paradosso, c’era molto scherzo, molto teatro, ma sapeva volere bene, e aveva un profondo interesse per gli altri, di natura artistico-scientifica, ma anche umana. E la sua generosità nel far ridere chi lo frequentava, nel rovesciare il senso comune, era formidabile.

Lo conobbi a Cannes. Venivo da Genova, dove avevo conosciuto una signora con un cappellino verde da elfo, che si era presentata come sua madre. Glielo dissi, e lui sbiancò: «Mia madre? Mia madre è morta vent’anni fa!». Poi si mise a parlare di quella impostora che si spacciava per sua parente, facendo ridere tutti.

Invece era proprio sua madre: era uno dei suoi scherzi, di una spregiudicatezza temeraria. Quando ce lo rivelò, un amico gli disse: «Ma non avevi paura di portare jella alla tua vecchia?».  

No, non aveva paura di niente, sfidava alla guascona il perbenismo e la malasorte, per lui contavano  solo il paradosso e l’ effetto comico, non innocente, che ti faceva vacillare dalle fondamenta. I suoi funerali hanno avuto il fasto che desiderava, tutte le televisioni hanno trasmesso i suoi film, molta gente ha pianto per lui, ridendo.

Gli dedico le mie irrilevanti lacrime di coccodrillo. E in cuor mio dico cari amici, non fate come me: se mi volete bene non aspettate che io muoia per dirmelo, fatemi una carezza, adesso, finché ci sono ancora.

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