Venezia, amore mio

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“Venezia, amore mio” di Antonella Tomaselli, pubblicata sul n. 8 di Confidenze, è una delle storie più apprezzate della settimana. Ve la riproponiamo sul blog

 

Storia vera di Alessandra S. raccolta da Antonella Tomaselli

 

Cara Venezia, ti scrivo. Comincio prendendo in prestito le parole di una celebre canzone: “Ti scrivo, così mi distraggo un po’, l’anno vecchio è finito ormai, ma qualcosa ancora qui non va…”.

Panta rei. Tutto cambia. Tutto si trasforma. Vorrei governare il tempo e arretrare le lancette dell’orologio. Di qualche anno. Ma non si può. L’acqua del fiume non torna indietro. E se è vero che nulla si distrugge è pur vero che ciò che abbiamo lasciato che mutasse, non sarà più come prima. È perso.

Quando apro una finestra di casa mia, uno spettacolo unico al mondo mi meraviglia. Lo conosco bene, eppure non mi ci abituo, mi toglie ogni volta il respiro. Io sono nel tuo cuore, cara Venezia, e davanti a me c’è la Laguna, la parte a est. Di fronte ci sono Murano e Burano. Nell’oro dell’alba e negli incendi dei tramonti, si stagliano le silhouette scure delle barche. Quelle stesse che durante il giorno sfavillano sull’acqua, mentre i gabbiani percorrono il cielo. Sono nata qui, tra le tue braccia. Un privilegio. È l’una di notte. Volevo dormire, ma non è stato possibile. La rabbia mi ha fatto muovere. Mi sono stretta in una vestaglia e sono uscita dal mio appartamento. Sono andata di sotto. Ho bussato. Mi ha aperto un ragazzo. Rideva divertito, mentre mi chiedeva cosa volevo. «Per favore, tu e i tuoi amici, potete fare più piano? Domani devo andare a lavorare e ho bisogno di riposare» gli ho detto in un

sussurro che si è perso nel frastuono. Il ragazzo non capiva, mi guardava interrogativo. Gliel’ho urlato, allora. «Ok» ha risposto. Mi ha chiuso la porta in faccia. Sono rimasta lì, impotente.

Ci sono avvezza. Sapevo che un attimo dopo la luce sul pianerottolo si sarebbe spenta, mentre le risate, la musica, il baccano, dietro quella porta, sarebbero rimasti accesi. Me ne sono tornata nel mio appartamento. Rassegnata. È così quasi ogni notte. Quante volte ho chiamato il 113? Ho perso il conto. Ma non si risolve niente. Le pattuglie arrivano tardi. I turisti cambiano ogni giorno. E io non riesco più a dormire. In questo palazzo, anni fa, c’erano solo Veneziani. Ora quasi tutti gli appartamenti sono stati tramutati in camere con bagno, dove viene offerto servizio di bed & breakfast. Come tanti altri tuoi palazzi e condomini, cara Venezia. Invasi da un andirivieni spasmodico di gente da tutto il mondo. Una moltitudine di persone in vacanza. Gente che vuole divertirsi, dimentica di freni inibitori. “Qui tutto è permesso” pensa ognuno di loro.

 

Sono una veneziana vera. Ho aperto gli occhi sul mondo, cullata dal canto delle tue onde. Dell’acqua non ho paura. Ma ne ho rispetto profondo. Me l’hanno trasmesso mia madre e mio padre, quando ancora ero piccolissima. Ho imparato a nuotare come a camminare e a parlare.

Qualcuno dice che noi veneziani nasciamo in barca. È vero.

Da bambina giocavo con gli amici nelle tue calli e nei tuoi campi – così chiamiamo le piazze – ed eravamo sereni. Non c’erano pericoli e ci conoscevamo tutti. E tu eri libera e trasparente. Ancora adesso, come allora, mi emozionano le regate. E gli sposi novelli in gondola. E anche i funerali. Qualche giorno fa è morto un maestro d’ascia, uno dei pochi rimasti. La sua bara è stata messa su una gondola enorme, mossa da diciotto vogatori. Dietro, in corteo, tutte le barche. Fino al cimitero. Passando prima nel Canal Grande. E mentre guardavo, in intima riverenza, mi veniva la pelle d’oca. Però non era uno spettacolo solo triste: le tue tinte, lo stormo di uccelli che volava calmo nella stessa direzione della gondola col feretro, la tua acqua, il tuo cielo, tutto contribuiva a comporre un ultimo viaggio speciale.

Perché tu sei così, sempre uno spettacolo e sempre troppo bella.

A volte, quando mi trovo nella zona delle Zattere, davanti alla Darsena, proprio dove c’è la Punta della Madonna della Salute e comincia il Canal Grande, mi fermo a osservare quei tuoi palazzi così pieni di storia e di mistero. E accarezzo piastrelle e pietre, le sfioro con la punta delle dita, mentre la mia fantasia scorge dame e cavalieri di tempi passati. Fantasmi colorati di danze oniriche. Sei la mia morbida e seducente e inquieta e fragile città, e in ogni tuo angolo respiro la tua arte. Ma ora sei una città oltraggiata. Mi ritrovo a dover scavalcare, mentre cammino, gambe e valigie di turisti ammassati, seduti per terra e sugli scalini. E a non riuscire a salire su un motoscafo perché la folla enorme e scomposta me lo impedisce. E a rabbrividire per chi butta bicchieri di plastica nei canali. E a incappare in chi vomita sui gradini del Palazzo Ducale. E a voltarmi da un’altra parte perché qualcuno sta orinando vicino a un ponte.

 

Tanti Veneziani se ne sono andati. Prima ho perso loro, adesso sto perdendo te. Non è che ti vorrei solo per me, tutti devono poter godere delle tue bellezze, ma chi viene dovrebbe avere riguardo per te. Come fa chi ti ama. I turisti qui ci sono sempre stati, ma fino a quattro o cinque anni fa arrivavano 40 mila persone al giorno. Adesso ne arrivano 150 mila. Troppi. Erano rimaste delle zone salve, quelle che loro non conoscevano. Certe calli e certe scorciatoie erano ancora nostre, labirinti noti solo a noi. Ora, no. L’invasione è completa. E non ce la facciamo più a ribellarci. È come se ci avessero messo un coperchio sopra. E noi stiamo morendo, lì sotto. Snaturati, come te. Irriconoscibili. Vinti. Stanno scomparendo anche gli artisti del vetro. Rimpiazzati da chi propone oggetti taroccati a prezzo stracciato. A Murano hanno chiuso tante vetrerie storiche.

Si è fatto giorno. Nell’appartamento di sotto è arrivata la quiete. Nell’appartamento di sopra invece c’è fermento: una chiassosa compagnia prepara i bagagli per la partenza. Io non ho dormito, e ora devo andare a lavorare. Ieri ho salutato Teresa. Era affacciata a una finestra di casa sua. La conosco da sempre. Parla il dialetto veneziano. Arriva dolce alle mie orecchie, come musica. «Come stai? Quante navi da crociera sono arrivate?» mi ha chiesto. «Ne ho contate sette, grandi come città» ho risposto. Lei ha corrugato la fronte: «Cara, ho ottant’anni suonati, non ho più la forza. Altrimenti farei come te. Hai la mia benedizione». Ha sorriso. Ma a tutt’e due veniva da piangere. Teresa sa. Lei sa che me ne vado. Cara Venezia martoriata e brutalizzata, ti lascio. Per salvarmi. Per poter dormire di notte. Decisione dolorosa. Vengo mandata via con violenza…

Ho trovato una casa. Tra pochi giorni traslocherò. L’ho scelta non troppo distante. Così riuscirò a tornare, perché lontano non ci posso proprio stare.

Tua Alessandra. Per sempre, innamorata di te

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