storia vera di Erminia F. raccolta da Alessandra Mazzara
C’è da perderci la testa, gli occhi, il sonno, con lui.
Da bambino adorava il gelato alla stracciatella. Una volta, ne mangiò così tanto da farsi venire una brutta indigestione. Quella sera restammo sul divano a guardare i cartoni, lui stretto a me e afflitto dai crampi, io a massaggiargli il pancino gonfio.
«Ora ti passa, piccolo mio. Ora ti passa».
Adora il mare, Fabio, lo ha sempre adorato pur non avendolo mai visto, fin da bambino.
Fissato con il gamberetto Sebastian del cartone La sirenetta, desiderava vedere com’era fatto. Ma dalla nostra città, Potenza, il mare era solo un miraggio lontanissimo. Ricordo ancora il suo sguardo quando per la prima volta lo portai a vederlo. Sulla mia utilitaria vecchia e sfasciata, attraversammo la Basilicata e guidammo fino a Polignano al mare, in Puglia, i finestrini abbassati, la voce di Brian Adams che urlava al massimo del volume dalla radio, il vento che ci accarezzava il viso e scompigliava i capelli e noi che cantavamo Please, forgive me stonati e sbagliando le parole, in un inglese che tutto era tranne che inglese.
Fabio aveva sei anni, io ne avevo 26.
Eravamo due bambini che stavano imparando a crescere insieme senza un uomo accanto. Sergio, il padre di Fabio, era stato l’incontro di una notte, una storia lunga qualche giorno, già stanca e finita prima di iniziare. Non gli dissi mai che aspettavo un bambino. Dopo quella notte e quei giorni insieme fatti di un amore tiepido e inconsistente, non lo vidi più. Eppure, da quel niente che io e Sergio eravamo stati, era nata la persona più importante al mondo per me. Uno scricciolo di tre chili e mezzo, tutto pieno di pieghe e vernice caseosa che mi cercava. Lo attaccai al seno. Lui alzò il suo sguardo vacuo verso di me, poi si attaccò vorace, a succhiarmi latte, forza e vita.
Non ci lasciammo più.
Quel fine settimana in Puglia, del tutto improvvisato, senza uno straccio di programma e con quattro soldi in tasca, Fabio si innamorò del mare.
Perdutamente.
Senza più possibilità di ritorno.
Era agosto.
Il cielo su di noi era così limpido che neanche una nuvola aveva osato macchiarlo. Fabio si era guardato intorno, mi aveva lasciato la mano ed era corso verso la riva. Era incantato. Quel mare così azzurro, le sue onde leggere, il suo odore che pizzicava le narici, lo avevano ipnotizzato.
«Mammina, possiamo fare il bagno?».
Ci spogliammo e in costume ci buttammo a occhi chiusi nell’acqua gelida che per un attimo mi mozzò il fiato, mentre i gabbiani volavano alti sulle nostre teste e gracchiavano la loro libertà, portata ovunque dal vento. Restammo in acqua finché Fabio non venne pizzicato sulla gambetta da una piccola medusa. Tornammo in spiaggia. Il mio coraggioso ometto neanche pianse. Trattenne le lacrime, stringendomi forte la mano mentre il bagnino gli applicava un unguento sulla pelle.
«Ora ti passa, piccolo mio. Ora ti passa».
La sera, seduti su una delle panchine del centro del paese, io con un cono caffè e panna, Fabio con la solita coppetta grande stracciatella, Fabio mi guardò, con la boccuccia sporca di gelato e la luce della luna che perpendicolare gli illuminava gli occhi, e mi disse: «Grazie per questo viaggio, mammina. Sono così felice, vicino al mare…».
Bastarono quelle parole e il suo sguardo sereno per farmi dimenticare che ero sempre al verde, che avevo mille arretrati da pagare, che quel fine settimana folle avrebbe aumentato i miei problemi economici.
Fabio era vita. E quella vita con lui, io, me la volevo vivere tutta.
Gli anni volarono portandosi dietro immagini, suoni, ricordi, giocattoli, parole di un’infanzia andata via troppo presto e Fabio diventò un uomo senza che neanche riuscissi ad accorgermene. Nella sua cameretta i peluche e i Lego avevano lasciato il posto ai libri sulle specie marine, sugli oceani e le pareti erano ricoperte da collage di foto di lui con i suoi amici e con le ragazze che, negli anni, avevano occupato angoli del suo cuore. Troppe, per i miei gusti. Oggi, non saprei neanche contarle.
«Ma quando metterai la testa a posto, Fabio? Impegnarti con una ragazza, fare progetti magari».
«Una sola, ma’? Ma sei seria?».
Allora io provavo a continuare il discorso, ma lui ogni volta scoppiava a ridere. E rideva, rideva tantissimo, poi mi abbracciava, mi baciava, mi solleticava, mi sollevava sulle spalle e mi portava correndo per casa, per poi rimettermi giù, scompigliarmi i capelli e chiudersi in camera a studiare.
Biologia marina.
Aveva otto anni e gli mancavano quattro denti quando mi confidò che era questo quello che voleva studiare. «Da grande voglio fare lo studioso del mare, mammina».
E questo stava facendo, quando la sua vita scorreva serena, spensierata, piena di sogni e ragazze e notti con gli amici e sere sul divano insieme a me a guardare un film, i popcorn sulle nostre gambe, la pizza sul tavolino, il suo braccio muscoloso attorno a me e io rannicchiata contro di lui.
Non sapevo, non potevo ancora sapere, che a tanti chilometri di distanza dalla vita di Fabio, c’era la vita di Cinzia.
Cinzia, che quando Fabio ha 20 anni, ne ha 24. Che studia legge e che sogna di lavorare a tutela dei minori senza famiglia. Che è fidanzata con Marco e che ama viaggiare. Che adora la cucina cinese e che ha il terrore dei ragni. Cinzia, che va matta per Leonardo Di Caprio e per la musica jazz. Che ogni venerdì sera va dai nonni e dorme da loro come quando era piccola. Che impasta il pane con la nonna e che fa le parole crociate col nonno. E che a 18 anni ha scoperto di avere una miocardiopatia dilatativa, dopo essere svenuta durante una partita di pallavolo con le amiche. Cinzia non si è fermata davanti a quella terribile diagnosi, anzi l’ha presa per le corna ed è andata avanti con la sua bella vita, ma con un’attenzione in più. Il suo cuore le ha tirato un brutto colpo, ma Cinzia è ottimista. Sa che andrà tutto bene, lo ripete a sua madre, a suo padre, ai nonni che stravedono per lei e che, se potessero, le darebbero il loro, di cuore, pur di saperla salva. Cinzia, che di giorno sorride a tutti e infonde buonumore, ma che la notte, riparata dal buio e dalle coperte, piange e rabbrividisce al pensiero che la sua sopravvivenza, tutta la sua vita, la possibilità di esserci ancora in futuro, dipenderà solo e soltanto dalla morte di qualcun altro.
Che per ora vive come lei, respira come lei, sogna come lei, cammina come lei, va in pizzeria e al cinema come lei, ama come lei.
È un atroce paradosso. Continuare a vivere perché un altro muore, morire perché un altro possa vivere. Eppure, questa è una storia che lo dimostra. Con dolore, ma anche tanta speranza.
Il 15 luglio del 2018 Fabio è a Levanzo, la più piccola delle isole Egadi. Sceglie sempre il mare per le sue vacanze. Io non sono con lui. Vorrei tanto, ma non posso. Arriva un momento, nella vita di una madre, in cui si deve fare un passo indietro, sciogliere i nodi legati nell’infanzia e liberare il figlio, la figlia, da quel legame. Lasciarlo volare via, come un uccellino vissuto in gabbia che vede aprirsi le sbarre. E limitarsi a osservarlo da lontano, questo figlio, questa figlia, che vola, seguendolo con lo sguardo e un batticuore che non rallenterà mai.
A 20 anni, Fabio sa già come volare da solo.
«Al mio rientro, ti porto a mangiare in quel ristorantino che hanno aperto da poco in centro». Ha lo zaino in spalla e un mini trolley lo aspetta all’ingresso. Mi schiocca un bacio sulla guancia. «Promesso».
Un messaggino al mattino e uno alla sera, è l’unica cosa che gli chiedo per non farmi salire l’ansia. So che Fabio è un ragazzo molto responsabile, ma questo non mi basta e ho bisogno di sapere che sta bene per potermi addormentare tranquilla, la sera, così lontana da lui. È via da tre giorni, quando ricevo quella telefonata. Al mattino, il messaggino di Fabio è arrivato puntuale alle 8:30 a dirmi: ”Giorno, ma’. Anche oggi, giornata super spettacolare qui. Il cielo e il mare sono una cosa sola”.
Poi due cuoricini e una faccina che ride.
“Pensa un po’, qui invece piove. Divertiti, tesoro mio” è la mia risposta.
Passo la mattina al lavoro, tra scartoffie e numeri da sommare, moltiplicare, sottrarre all’ufficio di assistenza fiscale che mi ha assunta quando Fabio non aveva neanche due anni. È una giornata nuvolosa e uggiosa, umida e di un caldo quasi insopportabile. Trascorro la pausa pranzo con Gianna, la mia collega. Con lei, mangio un’insalata e un panino al prosciutto nel bar accanto all’ufficio. Parliamo di cose che pesano e di cose che fanno ridere, della malattia di sua madre e dell’ultima puntata di Uomini&donne, della scuola di sua figlia e dell’ultimo 30 e lode di Fabio, della suocera che non sopporta e della mia non pervenuta vita sentimentale, della cellulite e della nuova cartoleria giù in piazza, dell’ultimo romanzo di Nicholas Sparks e della regina Elisabetta.
Quando si fa l’ora torniamo in ufficio. Di nuovo sommersa dai numeri, dalle scartoffie, dalla clientela, dalle statistiche, fino a che il telefono nella mia borsa squilla. Davanti a me, una donna è in attesa che calcoli per lei il 730. Lancio un’occhiata alla borsa aperta accanto a me per cercare di intravedere chi possa essere. È Fabio.
Guardo l’orologio tondo affisso al muro. Sono le 17. Insolito, da parte sua, chiamare a quest’ora. Sa che sono al lavoro, non ha mai, mai, mai chiamato nelle ore lavorative. Mi ricordo che una volta, andava in quinta elementare, si tenne un brutto mal di pancia pur di non farmi chiamare dalla maestra, per non disturbarmi.
Il telefona continua a squillare, io continuo a battere al pc, ma si vede che sto in ansia, tant’è che la cliente non esita a dire: «Risponda pure, non si preoccupi».
«È mio figlio. Farò in un attimo» dico ringraziandola e, soprattutto, per scagionarmi. «Tesoro, sono in ufficio» dico con voce frettolosa e con parole che quasi si mangiano tra loro, «tutto bene?».
Ma non è Fabio a parlarmi all’altro capo del telefono.
Io, quella voce che mi parla, non l’ho mai sentita. Non la conosco.
È un uomo, non mi dice neanche come si chiama, ha un marcato accento siciliano e la sua voce è fredda, composta, quasi innaturale. Mi dice poche parole che io all’inizio non capisco o forse non voglio capire, non voglio sentire.
Perché quello che mi dice è impossibile. Dimentico dove sono, dimentico il 730, dimentico che davanti a me c’è una sconosciuta che mi guarda preoccupata, mi alzo, mi cade il telefono dalle mani, bum, per terra fa un tonfo e si spegne, allora urlo, ma non per il cellulare, neanche me ne accorgo che è caduto per terra, urlo perché non so fare altro, so fare solo questo, allora Gianna corre da me e mi prende tra le braccia per evitare ch’io cada per terra e faccia la stessa fine del telefono, ma Gianna non sa ancora niente, non sa che io, ormai, non esisto più perché le mie orecchie hanno appena sentito che Fabio, il mio bambino di tre chili pieno di vernice caseosa, il mio ometto appassionato di Lego e fan del gamberetto Sebastian, il mio ragazzo bellissimo che ama il mare e che cambia ragazze con una facilità disarmante, che all’università non prende mai meno di 30 e lode, che mi ha promesso che al suo ritorno da questa spensierata vacanza in Sicilia mi porterà in quel ristorantino nuovo in centro, è morto.
Gianna mi sorregge.
Io voglio andare da mio figlio. Devo rassicurarlo, stringergli la mano, dirgli ora passa, piccolo mio, ora passa, come quando era piccolo e aveva una bua. Ma non posso. Non posso più farlo. Ferita a morte da questa consapevolezza, cado tra le braccia di Gianna. Dentro e fuori di me, solo buio.
A pochi chilometri da Torino, anche il telefono di Cinzia squilla.
Lei è nella villetta di montagna dei nonni, distesa sull’amaca che nonno Gerry le ha costruito da bambina e che ancora regge, nonostante di anni ne siano passati così tanti da non contarli più. Legge I Malavoglia, di Giovanni Verga. È immersa nella casa del nespolo, quasi la vede, quasi le sente le voci di Maruzza, di Lia, di ‘Ntoni, quasi lo sente l’odore della Sicilia, dei suoi agrumi, dei fiori di mandorlo e di gelsomino…
“Quant’è bizzarra, la vita” pensa, appena risponde al telefono e una voce di donna, cordiale ed emozionata, le dice che dalla Sicilia è in arrivo un nuovo cuore per lei. Cinzia si tira su e corre, corre verso casa, da suo padre che sta guardando un notiziario sportivo, da sua madre, che sfoglia una rivista, dalla nonna che monda i fagiolini, dal nonno che fuma la pipa all’ombra di un pioppo. Il romanzo di Verga cade giù dall’amaca e finisce sulla terra rossa e umida, aperto. Il vento leggero ne muove le pagine, fino a chiuderlo.
Il tempo dopo la morte di Fabio è un tempo sospeso senza minuti, senza ore, senza secondi. Passa, scorre via, al giorno succede la notte, all’autunno l’inverno, a un anno il successivo, ma io non ci faccio più caso. La vita che devo continuare a vivere è come congelata. Non c’è pomeriggio che io non vada al cimitero.
Mi porto dietro una seggiolina pieghevole, di quelle in legno come si facevano una volta, la apro, mi siedo e resto immobile davanti alla tomba di mio figlio che mi guarda dalla foto scattata in quella sua ultima estate, circondata da quel silenzio sospeso che solo in un camposanto si percepisce.
Spesso, parlo con Fabio. Gli racconto le mie giornate grigie e senza amore, aneddoti di quando era piccolo, ricordi che mi fanno così male da ingarbugliarmi gli intestini. E, poi, gli pongo sempre la stessa domanda: perché? Perché sei salito su quella scogliera, tesoro mio? Perché hai tentato la sorte, lanciandoti giù? Livio, uno dei suoi amici che erano con lui, mi ha detto che era una sfida: chi avrebbe fatto il salto più corto avrebbe pagato la cena per tutti. Fabio era inciampato e nel cadere aveva rovinosamente battuto la testa sugli scogli.
Perché. Perché. Perché. Perché. È un mantra, questa parola fatta sei lettere, che ripeto con la seggiola sotto braccio, la testa china, le lacrime ormai stanche di scendere, sulla via del ritorno a casa.
Sempre. Ogni giorno.
E sono proprio con Fabio quando il mio cellulare squilla. È primavera, le rondini fanno i loro nidi sotto i tetti, la natura sboccia profumata e colorata mentre io continuo a distruggermi per quel perché che non ha risposte, solo un’eco della mia disperazione nel silenzio del cimitero. Rispondo.
Chi mi cerca non mi conosce, né io conosco lei. È una donna, una giovane donna dalla voce calda ed emozionata, che quasi balbetta. Sento che trattiene a stento le lacrime. Cosa vorrà mai, questa tizia, da me? Ho già la mia dose di dolore addosso, le mie spalle non sono in grado di reggerne dell’altro.
Eppure…
Eppure quella voce mi riporterà pian piano alla vita, alla luce, come un verme che rompe il guscio e spicca il volo. Mi dice tante cose che non sapevo, che non immaginavo, che mi lasciano senza fiato e senza parole. Mi dà l‘indirizzo di un paesino tra le colline piemontesi, mi racconta di una vita che il destino ha voluto si intrecciasse con quella del mio Fabio e ora con la mia. Quando chiudo, Fabio mi sorride dalla sua foto.
«Devo proprio andare?» gli chiedo.
Ma, come sempre, nessuno risponde, e la mia voce si perde tra i cipressi. Alla fine, vado.
E tutto cambia.
Lo scorso maggio, il dieci, per essere esatti, su Torino il cielo è benevolo. Chiaro, luminoso, limpido. In piedi sui gradini della chiesa, sento le mani sudare, tanto forte è l’emozione. Un’auto d’epoca si ferma.
La sposa che ne esce è bellissima nel suo abito di seta con il velo bordato di pizzo francese. Alza lo sguardo e quando mi vede sorride. Sollevando leggermente l’abito per non inciampare, sale i gradini e mi raggiunge.
«Cinzia, sei splendida» le sussurro.
Mi dà la mano e io gliela stringo.
Dalla chiesa arrivano le prime note della marcia nuziale suonata da due violini e insieme ci incamminiamo.
È stata Cinzia a cercarmi, tre anni fa. È stata lei a muovere mari e monti per riuscire a risalire alla famiglia del donatore che le ha salvato la vita. A me, che all’inizio non ne volevo sapere, ma che poi ho ceduto e l’ho incontrata. È stata lei a voler che io l’accompagnassi all’altare, dal suo Marco.
All’improvviso, Cinzia si ferma.
«Erminia, ascolta com’è felice Fabio» mi dice prendendomi una mano e mettendola sul suo petto. Ma a me la mano non basta, la tolgo e appoggio metà del mio volto.
Bum.
Tum.
Bum.
Tum.
Il cuore di mio figlio batte forte nel petto di Cinzia.
Le ha salvato la vita.
E non solo a lei. Le sue cornee, il suo fegato, i suoi polmoni, i suoi reni, hanno salvato altre vite, tra cui quella di un bambino di soli dieci anni.
Mio figlio non è mai morto.
Con questa certezza proseguo il cammino lungo la navata centrale, Cinzia a braccetto. Fabio è stretto a me, lo sento dal pulsare ritmico delle vene di Cinzia.
Fabio e Cinzia.
Due vite lontane che la vita ha unito. E che insieme hanno sconfitto per sempre la morte.●
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