Lontano da te

Cuore
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Questa volta non ho potuto ignorare la verità, chinare la testa per il bene della famiglia davanti al tuo ennesimo tradimento. Mi riprendo la mia vita, Antonio, quella che misi nelle tue mani tanti anni fa, rinunciando a me stessa

Storia vera di Maria P. raccolta da Sabrina Bergamini

 

Siamo seduti uno di fronte all’altra. Il silenzio ha rapito le nostre grida trascinandole lontano e adesso nella stanza l’aria si è fatta tagliente quanto la lama affilata di un coltello. Nel mezzo c’è un tavolino, sopra le prove del crimine, il tuo. Cinque passi ci separano. Li ho contati in certi pomeriggi vuoti. Quei pomeriggi che prima o poi ti cadono addosso e ti annientano, se sei una di quelle donne considerate da chi non ti conosce, ma tuttavia si crede in diritto di giudicare, baciata dalla fortuna, in quanto nella condizione privilegiata di non doverti alzare tutte le mattine per andare a lavorare. Ti cadono addosso e ti annientano certi pomeriggi che prima o poi arrivano, inutile illudersi e altrettanto inutile cercare di scansarli, ti trovano comunque.E allora dove sta tutta questa fortuna vorrei domandare alle donne che mi hanno guardato dall’alto in basso all’uscita di scuola, che hanno ammiccato mentre mi allontanavo dal parco tenendo per mano i miei figli? Dove, dove, dov’è tutta questa fortuna? Perché io non riesco proprio a vederla e oggi meno che mai. È un privilegio che avrei lasciato volentieri ad altre, ma come si fa a saperlo prima.Ecco il guaio: la vita non si può riavvolgere come un nastro, ti sorprende l’infelicità che è già troppo tardi.«È soltanto una vile calunnia. Quella ragazza non ha ottenuto ciò che voleva e adesso vuole vendicarsi. È un tuo preciso dovere sostenermi nel momento del bisogno, restarmi accanto. L’avvocato è stato chiaro su questo punto, la tua presenza sarà fondamentale durante il processo, indebolirà l’accusa». Le parole di mio marito fanno di colpo planare i miei pensieri, mi riportano al presente. Sento i muscoli del corpo contrarsi, la mascella serrarsi. Sono una statua di sale. Poso lo sguardo su di lui.

I miei occhi sono calmi come le acque di un lago, i suoi fuggenti come mossi dal vento. È forse la prima volta che non riesce a reggere il confronto. Si guarda le mani, afferra le carte posate sul tavolino, se le gira e rigira tra le dita come se scottassero, prima di lasciarle cadere a terra. Resto immobile a fissare i suoi gesti maldestri, non si addicono a un chirurgo di fama, no amore mio, dove è finita la tua calma proverbiale, la tua mano ferma e precisa con cui hai aperto ventri, estirpato tumori, ricucito lembi di pelle, di tessuti, di vita?

La mia invece l’hai fatta a brandelli, giorno dopo giorno, anno dopo anno e io te l’ho permesso, questa è la verità. Ed è la cosa che più mi fa male. Ti guardo e non riconosco in te nulla dell’uomo che ho amato e scelto come sposo. Quando finisce un amore? E tutti i sospiri, le mani intrecciate, le notti insonni, i baci strappati a morsi sulla pelle? Non saprei proprio. Forse scompaiono nel buco nero dei giorni che si sommano sulle nostre spalle sempre un po’ più curve e stanche. Degli amori che svaniscono rimangono nitidi solo i ricordi di quando sono nati. E io ricordo che il nostro ha avuto origine in un tempo lontano della mia adolescenza, un tempo di cui conservo nella memoria i colori e i sapori: azzurro il cielo e il mare, salato il vento che si posava sulla pelle nuda, dolci i frutti assaporati appena colti da alberi rigogliosi in quella terra seducente, dolce e aspra, fatta di luci e ombre, contraddizioni e spaccature, ricca di tutto e povera nella sostanza, così povera che prima o poi tutti hanno sognato di andarsene in cerca di un domani migliore.

La tua famiglia è una di quelle che al pensiero ha fatto seguire l’azione e ha deciso di andarsene per davvero. Tornavate puntuali ogni estate per rivedere i parenti, gli amici e abbracciare con lo sguardo tutto quell’azzurro che non conosce confini. Vi lasciavate alle spalle i lunghi inverni, la nebbia che avevate visto con meraviglia la prima volta una sera di novembre, lo smog della città, i grandi palazzi che si mangiano il cielo.

 

 

Vivevate in attesa del ritorno, solo questo vi dava la forza di resistere. Avevo 16 anni quando mi accorsi del tuo sguardo che si posava sul mio corpo giunonico, sul viso ancora acerbo, risaliva fino ai lunghi capelli ribelli, una massa incontenibile di capelli neri che mi ricadevano sulle spalle. Ero seduta al tavolino di un bar con davanti una bella coppa di granita con la panna quando ti sei avvicinato e subito l’amica che mi stava accanto si è alzata e ti ha buttato le braccia al collo.

«Maria, ti ricordi di mio cugino?» mi ha chiesto Donatella dopo essersi sciolta dall’abbraccio. Ho fatto cenno di no con la testa mentre ti stringevo la mano che prontamente avevi allungato per presentarti. I tuoi occhi neri e vivaci hanno penetrato i miei. Ho sentito in quel preciso istante le viscere contrarsi, qualcosa di simile a uno smottamento, o forse no, qualcosa di più vicino al vuoto che si avverte prima di tuffarsi nelle acque profonde e fredde del mare.

Una settimana dopo, la festa del paese aveva fatto da cornice al nostro primo bacio. Era accaduto dopo la funzione religiosa, dopo la processione, dopo la messa in mare della statua della Madonna protettrice dei pescatori, dopo che i giochi pirotecnici avevano illuminato il cielo. Era accaduto quando la spiaggia si era fatta silenziosa e solitaria e la luna era tornata a risplendere, unica vera padrona della notte. Il rumore delle onde accompagnava i nostri respiri mentre le nostre labbra iniziavano a conoscersi, a esplorare il primo territorio di un corpo ancora vergine. Abbiamo trascorso insieme il tempo che restava di quell’estate che seppur lunga mi parve così breve rispetto a tutte quelle venute prima.

Mi piacevi perché eri così diverso dai ragazzi a cui ero abituata. Eri così elegante nel modo di dosare le parole, i gesti, persino nell’abbigliamento. La testa sempre china su un libro, io ti restavo accanto, in silenzio, per ore. Eri già allora così determinato e sicuro di ciò che desideravi. Io al contrario non sapevo ancora dove collocare la mia esistenza, nessuna grande passione mi aveva mai rapito il cuore. Solo tu eri riuscito nell’incantesimo.

Ci siamo salutati con la promessa di restare insieme nonostante la lontananza.

Ed è così che ho presto imparato il vero significato della parola pazienza. L’inverno trascorse lento al ritmo di lunghe lettere e brevi telefonate. L’estate successiva ha suggellato definitivamente il nostro amore.

Per diversi anni il nostro legame si è stretto attorno a quei pochi luminosi mesi dell’anno: nel resto del tempo buttavamo le fondamenta del nostro futuro, ognuno a modo suo. Io diventando maestra, tu forgiando il medico che avevi sempre desiderato essere. Ci siamo sposati appena poco dopo la tua laurea. Io ho abbandonato il paese per seguirti come era ovvio che fosse. La nostra vita insieme si è rivelata presto ben più difficile di quanto credessi. E non solo per la prevedibile nostalgia verso la mia famiglia e la mia terra che mi ha intrappolata come un ragno nella sua tela, ma bensì perché mi sono resa conto di conoscerti molto poco. Non potevano certo bastare gli anni di fidanzamento, le lettere e i brevi periodi trascorsi insieme per dirsi davvero consapevoli dell’altro.

Mia madre mi consolava e rassicurava ogni volta che le telefonavo: «Ogni matrimonio presenta le sue difficoltà all’inizio, guai se non fosse così» mi diceva.

Eppure non si trattava solo di questo. Sentivo che svelavi a poco a poco tratti del tuo carattere che fino a quel momento avevi sempre celato dietro a gesti misurati e sorrisi gentili. Come la volta in cui ho espresso la volontà di insegnare anche dopo il matrimonio e tu non hai risposto, mi hai rivolto uno sguardo magnanimo come a dire “poi vedremo”, ma di fatto una volta sposati mi hai detto che non se ne parlava proprio. Il mio posto era in casa. La tua specializzazione era agli sgoccioli e dopo ti attendeva una grande carriera di questo eri sicuro, io dovevo solo occuparmi di te e dei figli che presto sarebbero arrivati. Agata e Stefano, avevi già persino scelto i nomi. Desideravi una femmina e un maschio.

 

Il tuo desiderio si è esaudito, qualche anno dopo. Allora io ho messo da parte le mie legittime aspirazioni di donna indipendente perché, tra le faccende domestiche, due bambini piccoli e un marito in carriera, il tempo fuggiva via veloce che nemmeno avevo più il tempo per una piega dal parrucchiere. E mentre io mi facevo sempre più invisibile chiusa tra le mura di casa, fagocitata dalle esigenze degli altri, tu prendevi il volo verso il mondo che ti accoglieva a braccia aperte e grandi applausi. Avevi le capacità, la determinazione e la giusta rete di appoggi e conoscenze per emergere. Pochi anni dopo hai vinto il concorso da primario presso un rinomato ospedale situato nella riviera Ligure. Quella città di mare mi ha restituito un po’ di serenità, ma è durata poco. Presto mi sono sentita di nuovo affogare nella vita quotidiana che ti portava sempre più lontano da me.

Oggi un convegno qui, domani una conferenza là. Assenze e ancora assenze. E tradimenti sempre più evidenti, che facevo finta di non vedere. Una volta un’amante particolarmente intraprendente ha iniziato a telefonare a casa, insistente fino allo sfinimento. Alzavo la cornetta e lei riattaccava. Quell’estate mia madre si accorse per la prima volta della mia infelicità cucita sul viso smunto, le ossa sporgenti.

«Antonio mi tradisce, è sempre lontano, mi tratta con sufficienza, non ne posso più» confessai tra le lacrime.

«Antonio è un uomo meraviglioso, un padre affettuoso e un dottore straordinario. Tutti ti invidiano qui in paese. Un tradimento è cosa da nulla per un uomo. Figlia mia, una donna deve imparare a sopportare, e chinare la testa per il bene della famiglia. Se quella poco di buono continua a telefonare tu non rispondere, semplice, no? Che ci vuole». Già certo, che ci vuole? Durante quell’estate ho rivisto un’amica dei tempi della scuola.

Marina era sempre stata una ragazza un po’ ribelle, allergica alle convenzioni sociali. E infatti quando aveva scoperto di aver sposato l’uomo sbagliato non aveva esitato un secondo a chiedere il divorzio. Aveva aperto un negozio di ceramica, creare oggetti era la sua vera passione da sempre. Vederla così felice e realizzata mi provocò un moto di invidia, un sentimento del quale mi vergognai.

«Maria ma davvero non lavori? Guarda che i figli prima o poi crescono e cosa farai poi? Attenta alla sindrome del nido vuoto» mi disse con la solita voce squillante che aveva da ragazza e il sorriso indulgente.

E arrivò, infatti, quel tempo profetizzato. Quei pomeriggi fatti di nulla, quelli in cui ti ritrovi a contare i passi. Cinque, esattamente cinque. Gli stessi che adesso ci dividono. Solo che questa volta è diverso. Non ho potuto ignorare la verità, sollevare la cornetta e lasciare che suonasse a vuoto, voltare la faccia dall’altra parte pur di non far crollare il castello di menzogne che mi ha protetto fino a oggi. Questa volta sei stato denunciato da una giovane specializzanda che ha ceduto alle tue avances per paura di ritorsioni. Tu hai dovuto ammettere che sì una relazione c’è stata, ma assolutamente consensuale ti sei affrettato a chiarire. «Una sciocchezza» ti sei giustificato con me. Hai tentato persino di convincermi di essere tu la vittima. Caduto ingenuamente nella trappola ben architettata di una giovane donna senza scrupoli, capace di tutto pur di fare carriera. Grazie agli atti giudiziari che non hai potuto tenermi segreti, la tua amante ha un nome e cognome, i suoi dati sono scritti nero su bianco. E così io ho potuto darle un volto. Mi sono fatta coraggio, ho preso informazioni. Ho scoperto che, da quando ha abbandonato l’ospedale, aiuta la madre nel bar di famiglia.

 

 

Ci sono andata, mi sono seduta in disparte e sono rimasta a guardarla. L’ho subito individuata in una giovane cameriera dalla coda di cavallo e gli occhi spenti da ogni emozione. E no, mi spiace tanto ma la sua immagine non corrisponde affatto alla descrizione che mi hai fornito. Non è la ragazza appariscente dal seno rifatto messo in bella mostra, le labbra gonfiate e il corpo fasciato in vestiti sensuali. È esattamente l’opposto: una ragazza dal viso pulito, i capelli raccolti e gli occhi tristi, i gesti gentili e il sorriso sincero.

Alla cassa ho cercato di attaccare bottone con quella che ho immaginato dovesse essere la madre.

«Il caffè era ottimo e la cameriera di una gentilezza squisita. È sua figlia? Vi somigliate molto. La mia Agata alla sua età non ci pensa proprio a lavorare e per quanto riguarda lo studio è meglio lasciare perdere, ha già cambiato due facoltà» ho cinguettato.

«Grazie. Sì è mia figlia ed è un medico sa? Quanti sacrifici per farla studiare, sapesse. Sta attraversando un brutto momento adesso, si è concessa una pausa, la faccio lavorare qui qualche ora per non lasciarla sola a casa tutto il giorno» mi dice scuotendo la testa e proprio in quel momento sentiamo il rumore di un vassoio che si rovescia, vetro che si frantuma. Non ho aggiunto altro, ho pagato e sono uscita.

Avevo avuto la conferma che cercavo. Il corpo accucciato a terra di quella ragazza mi è rimasto impresso nella mente, nemmeno il vento che soffiava forte è riuscito a cacciarlo via.

«Hai sentito quello che ho detto? È in gioco il nostro futuro» torna a incalzarmi mio marito.

«Ho capito benissimo. Ma vedi, è in gioco il tuo futuro, non il nostro. Il mio sarà lontano da te» dico con una calma che mi sorprende.

Mi alzo e ignorando i suoi improperi, agguanto la borsa ed esco.

Fuori l’aria profuma di primavera inoltrata, il sole splende alto nel cielo. Cammino senza meta, fino a raggiungere la spiaggia. Ecco la cosa bella di vivere in una città di mare, basta uscire per ritrovare nell’azzurro un po’ di pace. Mi tolgo le scarpe, lascio sprofondare i piedi nella sabbia, respiro l’aria salata, ascolto la musica delle onde, una melodia che non mi stanca mai. Mi guardo le mani. Penso a Marina, alle sue creazioni. La mia vita è tutta da ricostruire. Saprò farne una bella opera? Afferro un sasso, lo stringo al petto prima di lanciarlo lontano. Verso il futuro.

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