La donna del lago

Cuore
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Un incontro al bar, una donna affascinante, un uomo che racconta la sua vita, tranne la cosa più importante. Ecco la storia preferita del n. 39

 
L’ho incontrata al tavolino di un bar mentre era intenta a scrivere con carta e penna. Mi ha subito affascinato, ho trovato naturale aprirmi con lei, raccontarle tante cose. Tranne quella che più mi stava a cuore

Storia vera di Gabriele D. raccolta da Francesca Stucchi

L’ho incontrata troppo tardi. Seduta al tavolino di un bar sulla riva del lago, scriveva su una piccola agenda, ogni tanto alzando lo sguardo verso l’orizzonte. Una giovane donna con i ricci al vento, di una bellezza delicata, insolita, rara. Chissà cosa stava facendo, forse lavorando o pianificando i prossimi giorni. Difficile trovare ancora persone che utilizzano carta e penna, che sia stato quello ad affascinarmi? M’incamminai dall’altro lato della strada, cercando di non farmi notare. Non sono il tipo che si ferma a guardare le donne, non più. Ho lasciato al tempo passato i desideri di gioventù, amo camminare in montagna in solitaria, da quando Roc, ormai diciottenne, ma pur sempre cucciolo, preferisce stare sdraiato sul divano confondendo il pelo tra il grigio del tessuto, ad aspettare il mio rientro per una seduta di coccole.Lavoro nei cantieri edili e la settimana non ha pause. Così il tempo libero del weekend me lo gusto a dovere, cucino i miei piatti preferiti, lasciando a mia madre il tempo di riposarsi, e ogni tanto invito i nostri amici per una serata in compagnia. O almeno questo era quello che accadeva prima dell’estate, fino alla tac eseguita per alcuni valori sballati negli esami del sangue. La diagnosi sospetta era stata confermata: un cancro avanzato si stava diffondendo nel mio corpo, non si sapeva nemmeno da dove fosse partito e, del resto, che importanza aveva? Piansi a lungo il pomeriggio del verdetto, prima che mia madre rientrasse, tanto che Roc si agitò fino a farsi mancare il respiro. Quando si riprese balzò sul divano e mi leccò il viso nella speranza di confortarmi. Alla fine mi dovetti calmare, più per lui che per me. Era il mio turno stavolta. “Almeno non ha famiglia” avrebbero bisbigliato i condomini in portineria, aggiungendo con plumbea commiserazione “peccato però, è così giovane…”.In effetti immaginavo di avere ancora molti anni davanti a me, stupidamente, me ne rendo conto. Un errore comune che la realtà della malattia aveva fatto presto a mettermi sotto il naso. Ora ho una data di scadenza, come il latte a lunga conservazione che dimentico nella dispensa e poi devo buttare via. A dispetto dell’accumularsi dei pensieri che sopraggiungevano nella mia mente, la donna al tavolino del bar non si era mossa, continuava a scrivere. Mi avvicinai e non potei fare a meno di notare che era ancora più bella di come sembrasse da lontano. Mi ricordava, forse, una compagna del liceo che mi aveva rubato il cuore.

«Mi scusi, la disturbo se mi siedo con lei a bere un caffe?». Ovvio che la disturbavo, ma ormai l’avevo chiesto.

Accennò un sorriso, allungò la mano: «Piacere Isabella» disse stringendo forte la mia.

«Gabriele, piacere mio» risposi pieno di stupore.

 

Mi sedetti di fronte a lei, mi sentivo frastornato e non mi veniva in mente nulla di adeguato da dire. Scrisse ancora qualche parola, non erano appuntamenti, ma frasi. Sollevò lo sguardo di scatto, come se avesse avuto un’intuizione, incrociai i suoi occhi dello stesso colore cangiante del lago. «Cosa scrivi? Se posso chiedere». Mi sembrò che aspettasse quella domanda. Intanto il sole s’avvicinava alla cima della montagna regalandoci, tra le nuvole allungate, uno dei più bei tramonti rosa e gialli dell’estate.

«Un romanzo. Sono all’inizio, ho un’idea, un luogo, un filo da seguire, ma devo ancora immaginare le caratteristiche del protagonista e costruire la trama». Isabella brillava, non saprei dire se fosse per i raggi obliqui del sole che la sfioravano o se di luce propria. Era raggiante. Pagliuzze dorate nell’iride, strisce scintillanti tra i capelli e riflessi sulla camicia di seta. «Wow, sei una scrittrice!». Non ne avevo mai incontrata una e lei aveva un fascino così particolare.

«Con la fantasia si può andare ovunque» mi spiegò «sperimentare situazioni ed emozioni sempre nuove, si mescolano le carte e si creano storie imprevedibili».

Per me che passavo il tempo tra calcoli e misure e avevo sempre cercato di progettare e di fare previsioni, la fantasia era qualcosa di estraneo. Eppure in quell’istante le sue parole sembravano avere un senso.

«Raccontami qualcosa di te, se ti va» mi chiese con un dolce sorriso. Raccontai, come forse non avevo mai fatto, cose che mi erano capitate, senza un ordine temporale, senza legame. Le parlai del camoscio che era spuntato all’improvviso da una roccia in alta quota e mi aveva osservato a lungo prima di sparire nel suo ambiente montano, del viaggio in Amazzonia, il più incredibile della mia vita, dell’incidente in cantiere in cui persi un dito, di mia madre, del suo desiderio di prendere una casetta al mare, che era diventato prepotentemente urgente quando era mancato mio padre, tanto da convincerla a vendere la nostra casa “per svegliarci la mattina con i piedi sulla sabbia”, come sognava lei.

Intanto il sole era tramontato, il lago era diventato più scuro, anche se al centro luccicava ancora qualche riflesso rosso che si sarebbe presto spento nella sera. Si era alzata una fresca brezza, Isabella non aveva interrotto il mio racconto, solo ogni si era appuntata qualcosa.

«Spero di non averti annoiata» mi scusai.

«Amo ascoltare le storie delle persone» mi rassicurò.

In un mondo ormai dominato dall’apparire, l’autenticità di Isabella nel suo starmi ad ascoltare mi parve un dono. Era venuta l’ora di salutarci, realizzai che non sapevo ancora nulla di lei.

Intuì che stavo per alzarmi e mi disse: «Sarò qui fino a domani, se sei libero ci vediamo nel pomeriggio, così continui il racconto, sono curiosa di sapere se avete poi preso la casa al mare».

«Volentieri» mi congedai, senza dire altro.

Tornando a casa non potei fare a meno di pensare a quell’incontro sospeso e a come avrebbe potuto essere un futuro che non avevo a disposizione. Forse proprio per quello ci pensai, la libertà di chi ha i giorni contati è l’ultimo regalo che la vita ti fa. L’assaporai guidando fino a casa.

Mia madre stava cucinando la torta salata ai peperoni, si sentiva il profumo già dal cortile. La vidi dalla finestra apparecchiare la tavola con cura, sistemando un vasetto di fiori freschi al centro. Posizionò solo due piatti, l’uno di fronte all’altro, così faceva da quando papà non c’era più e mia sorella si era trasferita in città. Era così accogliente il nostro piccolo nuovo appartamento, 60 metri quadri che ci avevano permesso di acquistare la casa al mare, dove trascorrevamo almeno tre mesi all’anno. Mamma ce l’aveva fatta a realizzare il suo sogno!

L’appartamento che avevamo comprato era proprio sul lungomare di Rimini, dove abbiamo sempre trascorso le vacanze estive fin da quando io e mia sorella eravamo piccoli. Ci andiamo a maggio, a settembre e anche a Natale, perché lì ci sentiamo meno soli.

Il giorno seguente continuai a raccontare la mia storia, seduto allo stesso tavolino di ferro battuto di fronte a una donna ancora più splendida, con un abitino di cotone rosso annodato con un fiocco in vita. I ricci erano stati ben raccolti in uno chignon, il filo di trucco che le rendeva più profondo lo sguardo mi fece pensare che si era preparata per il nostro appuntamento. Le domandai di dove fosse. «Non ho una vera e propria casa, viaggio molto, ma sono originaria dell’Umbria» rispose sbrigativa. Al contrario di me non aveva voglia di raccontarsi. Scrisse ancora qualcosa sull’agenda, poi all’improvviso mi disse: «Mi piacerebbe venire a trovarvi al mare a settembre».

Mi spiazzò. Non esisteva settembre, non avevo idea di come sarei stato, né se ci sarei arrivato. «Non credo sia il caso» le dissi, bruciando così la sua proposta che sapeva di futuro.

 

Una linea sottile di delusione si formò sulla sua fronte, come se non avesse calcolato la possibilità di una simile risposta in un momento così speciale e in un posto così romantico. D’altra parte non avevo scelta.

Non s’inizia qualcosa alla fine, è una questione di rispetto. Ci salutammo con una stretta di mano e uno sguardo pieno di malinconia, che avrebbe dovuto essere un abbraccio. «Buona fortuna per il tuo romanzo allora» furono le mie ultime parole.

«Grazie, mi rispose, ho trovato il mio protagonista». Che bel sorriso mi regalò Isabella… la seguii con lo sguardo fino a vederla sparire dietro una curva. Avrebbe potuto essere un sogno, anzi, lo credetti in certe notti d’insonnia e dolori.

I mesi estivi sono trascorsi soffocanti, le visite mediche autunnali hanno incrinato ogni speranza, ma grazie alle terapie e alle cure amorevoli di mia madre sono ancora vivo.

Qualche giorno fa trovo una busta indirizzata a me nella cassetta della posta. La apro incuriosito dalla calligrafia con cui è scritto il mio nome. È un libro. In copertina è raffigurato un paesaggio col lago al tramonto.

La prospettiva sembra esattamente quella del tavolino a cui ero stato seduto con la donna misteriosa che aveva ascoltato le mie confidenze.

Trattengo il respiro, sul retro la foto della scrittrice conferma quanto avevo immaginato. Non so come, ma mi ha trovato. Un colpo al cuore! Stringo il libro al petto, respiro profondamente, dilaniato dall’impaziente desiderio di leggere la storia che non vivrò. Mi sdraio sul letto, sono ormai senza forze, sconfitto, esausto. Accarezzo la copertina, annuso le pagine, apro la prima e leggo la dedica: “A Gabriele”. La mia vita è appesa a un filo, ma resterà per sempre impigliata tra le pagine di questo romanzo.

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