Da 25 anni soffro di disturbo bipolare: vivo in un’altalena di emozioni che non controllo, dalla depressione nera all’esaltazione folle. Dalla malattia non si guarisce. Ma se s’impara a chiedere aiuto, ci si può convivere
Storia vera di Emanuela Dalla Valle raccolta da Alina Rizzi
Soffro da tanti anni di quello che i medici definiscono “disturbo bipolare di tipo 2”. Ne è passato di tempo dal mio primo ricovero in psichiatria, nel 2000, ma quello che mi stupisce è che ancora oggi, nonostante i progressi della scienza e i tentativi di eliminare lo stigma che accompagna queste patologie, molte persone si vergognano a dire di avere un disturbo mentale. Del resto è evidente: se racconti a qualcuno che hai una patologia fisica ricevi parole di conforto e sostegno, ma se confessi di avere un problema psicologico o psichiatrico, senti subito un ritrarsi raggelante. O peggio, ti vergogni e ti senti in colpa. Come se si potesse essere colpevoli di avere un tumore o di essere schizofrenici. Infatti io non mi sono mai sentita in colpa, ma stanca, esasperata, demotivata, delusa, arrabbiata, certamente sì. Perché stare tanto male e scoprire di essere resistenti ai farmaci è davvero brutto. Soprattutto quando la malattia insorge improvvisamente, già in età adulta. Avevo 36 anni, ero sposata e avevo due figli maschi, quando scoprii di avere un tumore all’occhio sinistro per cui sono stata in cura otto anni. Avevo avuto un’infanzia e un’adolescenza normali, come tutti. Certo, mia madre soffriva di depressione, stava male, ma quello che non poteva darmi lei me lo dava mio padre, che ha sempre sopperito affettivamente a tutti i miei bisogni. Io ero solare, scherzosa, avevo tante amiche e inventavo sempre cose nuove. Quello che ha fatto esplodere la mia depressione è stata la morte di un caro zio, a cui ero davvero affezionata, che già da quattro anni soffriva di tumore. La mia reazione è stata di rifiuto totale: nella sua morte ho immaginato la mia e sono crollata.
Non ero più interessata a nulla, passavo dal divano al letto tutto il giorno. Non volevo più lavarmi, vestirmi, uscire di casa. Finché mio marito mi ha portata in una casa di cura della zona e ho preso i primi antidepressivi. Sono stata subito meglio, ma presto la mia depressione si è trasformata in una reazione opposta, ossia in ipomania. In pratica, ero sempre di ottimo umore, stavo le nottate in piedi, non dormivo, andavo nei bar, stavo sempre fuori casa, spendevo molto e lasciavo il conto da pagare a mio marito. Una volta mi sono iscritta a una scuola di vela, un’altra volta a un corso di equitazione… La famiglia è passata in secondo piano. Finché non sono ricaduta in una profondissima depressione che mi ha portata a tentare il suicidio.
Per fortuna mi hanno salvata e mio marito si è attivato e ha cercato un primario rinomato, per farmi curare. È così che ho avuto la diagnosi di disturbo bipolare. Che in parole povere significa vivere tra alti e bassi più o meno duraturi. Quindi passare da profonde depressioni, immobilità, pensieri suicidi, a stati di attivismo ed esaltazione tali che portano a compiere gesti fuori controllo. Si vive in un’altalena di emozioni che può durare giorni o mesi e non sai mai quando lo stato che stai vivendo si trasformerà, perché non dipende da te ma dalla tua mente, da ciò che ti succede dentro e su cui non hai potere, se non attraverso i farmaci e quindi gli psichiatri.
Ho iniziato ad andare ogni settimana dallo psichiatra a Milano, ricordo che costava tanto, ma mio marito era determinato a fare tutto il possibile per riportarmi in salute. Purtroppo ho scoperto di essere resistente ai farmaci. Hanno tentato con le infusioni in vena per accelerare gli effetti, ma a volte funzionava e a volte no. Sono stata tra le prime a sperimentare la stimolazione transcranica, in cui i medici agiscono sul cervello del paziente attraverso elettrodi posizionati sulla testa. Ma sembravo refrattaria a tutto. Passava il tempo e io tornavo alle mie fasi di depressione ed esaltazione e quando non ce la facevo più tentavo di farla finita. È tremendo pensarlo, ma per ben dieci volte sono finita in rianimazione e mi hanno presa per i capelli.
Mio marito è stato il mio più grande alleato, e i miei figli ora adulti, ma mi hanno aiutato anche la famiglia d’origine e quella di mio marito. Con la scusa di fornirmi un aiuto domestico, mio marito mi metteva sempre in casa una donna, che oltre a sbrigare le incombenze pratiche, doveva tenermi d’occhio. Mi ha portata da ogni specialista, senza badare mai a spese, sempre al mio fianco.
Finché poi il suo lavoro ha cominciato ad andare male, le spese erano tantissime, e abbiamo perso la casa. Ciò nonostante nessuno della mia famiglia mi ha mai fatta sentire in colpa. Anzi, uno dei miei figli è diventato un neuroscienziato che lavora presso l’università di Rovereto, forse proprio perché ha capito quanto può essere grave e invalidante la malattia psichica. Non a caso ho avuto l’invalidità del 100%, non potendo più lavorare. Mi hanno tolto la patente, perché prendo davvero troppi farmaci. Dalla villa dove abitavamo siamo passati a vivere in affitto, mio marito ha rinunciato al suo studio in città. Insomma c’è stato un drastico ridimensionamento delle nostre vite e delle nostre spese, ma la salute è fondamentale, anche quella mentale non solo quella fisica, e andrebbe ribadito più spesso.
Per dare il mio contributo, da un’idea di mio marito, otto anni fa abbiamo creato un gruppo chiuso su Facebook che oggi conta più di 3200 iscritti e si chiama “Disturbo bipolare. Insieme ne usciamo”. Siamo felici di avere tra i nostri iscritti diversi autorevoli clinici. Attraverso il gruppo, avendo 25 anni di esperienza nel campo del bipolarismo, mi sento in grado di dare qualche consiglio pratico e di vita vissuta. Io ribadisco sempre di rivolgersi agli psichiatri per i farmaci e mai fare da soli cambiamenti di qualunque tipo. Raccomando anche l’importanza della psicoterapia. Io ho fatto un percorso di terapia cognitivo comportamentale per circa sette anni, ed è stata basilare per affrontare varie tematiche relative al mio passato.
Mi sono accorta che tramite il gruppo le persone si aprono, sapendo di non essere lette da estranei al gruppo, e si sfogano, cercano la condivisione. Perché nella malattia psichiatrica ci si sente molto soli, a volte alienati, e questo fa davvero male. Però, basta scriversi tramite una pagina Facebook, ricevere tanti pareri, commenti, auguri, per sapere di non essere i soli a stare male e ritrovare la speranza di poter stare meglio. Perché da questa malattia non si guarisce purtroppo. È una specie di tratto caratteriale, che si può correggere, e i farmaci sono indispensabili, fino a cercare di raggiungere uno stato di serenità che permetta di condurre una vita normale, come sto facendo io da due anni.
Ed è importante non vergognarsi per la propria malattia, non esitare a chiedere aiuto, ai nostri cari e ai medici soprattutto, perché non si guarisce da soli. Ma si può imparare ad accettare come siamo fatti, con la malattia e i suoi momenti di crisi, ma anche con tante cose belle che vale sempre la pena di vivere.●
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Articolo pubblicato su Confidenze n. 41 2025