di Tiziana Pasetti
Trama – Letizia è nata nel capoluogo abruzzese, L’Aquila, in una frazione che guarda la città dall’alto, Collebrincioni. Aveva sette anni quando sua madre, operaia, è morta; una morte giovanissima, ‘bianca’, per silicosi. A crescerla è stato suo padre in una casa in cui poteva anche mancare il pane ma mai una copia de L’Unità. Poi Letizia è andata a studiare a Roma, Giurisprudenza alla Sapienza, per sperare – così diceva suo padre – di entrare nel giro giusto. Lo studio prima di tutto, solo quello, e Letizia si laurea con il massimo dei voti in anticipo di un anno. Tornare a L’Aquila no, suo padre non vuole, Letizia deve restare a Roma. Bice, una zia nata a Collelongo, la mette in contatto con il “sindacalista compaesano”, Tonino Giuliante, il Principe. Anche il padre di Tonino aveva intimato al figlio: “Scappa se non vuoi ridurti un ubriacone”. E Tonino lo aveva fatto, era scappato. A 14 anni e con un diploma di terza media preso in una scuola serale. È il 1992, l’onda di Tangentopoli sta invadendo come uno tsunami l’Italia, Letizia è poco più di una bambina quando Tonino le garantisce un posto nell’olimpo degli avvocati. Tonino che potrebbe essere suo padre. Tonino e quel ciuffo di capelli grigi sulla fronte, gli occhi azzurri, Tonino che le regala Addio alle armi e che un giorno le recita i versi di una poesia di Caproni. È solo l’inizio di molte storie in una.
Un assaggio – Le volte in cui torno in paese c’è sempre un cambiamento. Cose da nulla, come le genziane per il vicolo che porta in chiesa, una panchina o un nuovo intonaco sulle pareti già scrostate del bar. I pastori sono rimasti in pochi. Le donne si occupano ancora dei propri orti. Sradicano le patate con la testa protetta da uno stoffa annodata senza un fiocco sotto il mento. Quando si chinano, si intravedono gli orli delle sottane spuntare dalle gonne di lana scura e pesante. In paese non ci sono giovani. Non più. Ma i vecchi ci sono sempre e hanno nomi destinati a sparire insieme a loro: Felicetta, Erasmo Fioravante, Palmetta. Quando torno in paese saluto con affetto le comari – alla lontana siamo tutti parenti –, e mi fermo a raccontare di Roma e del lavoro. Quell’uggia sulle facce delle vecchie, una di fianco all’altra sopra le sedie fuori i portoni o davanti alla chiesa. Sento di conoscerle tutte, pur se non saprei distinguerle, e di amarle. Mi guardano con rispetto, i travagli impressi sui visi screpolati. Piccole, derelitte, austere, sgranano il Rosario con voce avvilita. Non solo le loro voci. Il paese è tutto è avvilito. Arrivando di mattina, lo si trova avviluppato in una cappa da cui filtra un sole timidissimo. Ovunque domina un senso di desolazione. Eppure, i tramonti. Inondano di rosa la conca collebrincionese, tingono gli avanzi di neve sul ciglio della strada, rianimano le vette, le foglie, i fiumi. I tramonti, qui, lasciano senza fiato.
Leggerlo perché – Soprattutto perché la scrittura di Annalisa è bella, elegante, sofisticata. L’Abruzzo merita di essere raccontato così, terra dura e sinuosa insieme, terra di grandi storie. Dietro la figura di Tonino Giuliante c’è Ottaviano Del Turco, c’è la sua ascesa e la sua discesa agli inferi. Ma non è il mio un consiglio di lettura legato a questa pagina di storia nazionale. Ho vissuto in Abruzzo, a L’Aquila, per quasi vent’anni. Conosco ogni angolo di questa città, delle sue frazioni, conosco i profumi, la malinconia che non ti spieghi e continui a cercare, conosco quei tramonti e conosco il senso e la vertigine di ogni ritorno. Annalisa scrive di cose verosimili, le filtra in purezza. E consegna al lettore un romanzo che racconta d’amore e passione: l’amore per la politica, per un padre, per un sogno, per un uomo e una donna che non riusciranno a dimenticarsi mai.
Annalisa De Simone, Ingrata, Nutrimenti
















