Il vento di novembre mi scompiglia i capelli mentre Libera scodinzola accanto a me, fedele e rassicurante. Lei è il simbolo della mia rinascita. Anch’io sono uscita da una gabbia, anni fa. Ma ho imparato a vivere di nuovo. Con coraggio e amore per me stessa
Storia vera di Debora m. raccolta da Alessandra Maria Mazzara
I lividi li portavo addosso quasi come se neanche mi accorgessi più di averli.
L’estate era da poco finita e ne contavo ben otto: due sul braccio destro, uno su un lato del fianco, due sulla schiena, all’altezza dei reni, uno un po’ più piccolo e in via di guarigione sulla gamba sinistra e un altro ancora sotto l’occhio. Questo era quello più recente. Gonfio, violaceo con i contorni chiazzati di un verde scuro, prendeva tutta la palpebra inferiore destra. L’occhio era semichiuso. Non potevo aprirlo per bene, perché solo a provarci il dolore era insopportabile. Quell’estate, ricordo, l’ultima estate, andavo in spiaggia sfoggiando le ecchimosi sulla mia pelle con una disinvoltura che, negli anni, avevo imparato ad assumere.
Per non insospettire.
Per nascondere.
Per far finta di niente.
Per far credere agli altri che andasse tutto bene.
E le risposte alle domande erano sempre le stesse.
Sono caduta dalle scale.
Ho urtato inavvertitamente contro lo spigolo del tavolo.
Il bambino, giocando, mi ha tirato il suo trenino di legno, prendendomi in pieno viso.
Sono scivolata.
Mi ha punta un brutto insetto.
Che mi credessero o no, poco importava. Solitamente, con quelle risposte dette con sorrisi ampi e voce sicura, mettevo subito a tacere la curiosità. E proseguivo a testa alta, un passo dopo l’altro, abilissima nel celare quel tremolio alle mani che mi prendeva ogni volta che qualcuno mi ricordava che sulla pelle avevo i segni dei suoi schiaffi, dei suoi spintoni, dei pizzicotti, dei suoi calci, dei suoi pugni. Trattenevo le lacrime, nascondevo il tremolio stringendo la borsa o ficcando le mani in tasca. E tornavo a casa, spinta dal sole, dal vento, dall’afa o dal gelo, verso una vita che non volevo, ma che dovevo continuare a vivere.
Mi chiamo Debora, ho 55 anni, e la storia che sto per raccontarvi, la mia storia, è una storia di dolore, di umiliazioni e sottomissione.
Ma anche di forza, coraggio e gratitudine.
E di amore, tanto, tantissimo amore.
Che sempre salva.
Conobbi Antonio nel 1987.
Avevo 17 anni e da un anno avevo lasciato a malincuore la scuola. Cresciuta senza genitori, con una vecchia zia che di me si curava davvero poco e che non aveva mai soldi per niente, di perdere tempo dentro a un’aula scolastica, non ne volevo sapere. Avevo bisogno di soldi, non di libri. Avevo cercato, quindi, lavoro e lo avevo trovato come apprendista parrucchiera presso un salone di bellezza della mia città, bruciando subito le tappe e passando prestissimo da semplice apprendista a parrucchiera ufficiale.
Ero davvero brava, sembrava fossi nata per quel lavoro. E non ero io, magari presa da un eccesso di autocompiacimento, a dirlo. Le signore facevano a gara per chiamare prima e aggiudicarsi l’appuntamento con me. Dal riflesso dello specchio, mi guardavano civettuole mentre frizionavo con dell’olio d’Argan le loro chiome ricce, lisce, morbide, crespe, sottili e sfibrate, “stasera incontrerò i miei futuri suoceri”, mi dicevano, oppure, “ho una serata galante”, “vorrei tanto quel taglio alla Olivia Newton John”, e io, come una fata buona, esaudivo il loro desiderio di sentirsi di essere, bellissime. Adoravo quel lavoro e in cuor mio sognavo di poter presto aprire un salone tutto mio, un luogo da fiaba, dove i desideri diventavano realtà.
Era l’aprile del 1987 e lavoravo al salone da un anno circa, quando conobbi Antonio, un muratore di sei anni più grande di me. Amico di amici, tra noi scattò subito quella scintilla cui difficilmente puoi resistere, specialmente a quell’età, quando tutto è follia, leggerezza, brividi e infinite possibilità.
Ci fidanzammo dopo qualche mese. L’impegno al salone non mi dava tante libertà, ma Antonio era così premuroso, così innamorato, così desideroso di stare con me, da fare anche più di un salto al giorno al salone nelle sue ore di pausa, in modo, così, da vederci anche mentre io lavoravo. Controllava che stessi bene, chiedeva alla mia titolare se fosse venuto “qualcuno” per me, faceva battutine tipo “se passo di qui e ti vedo parlare con un altro ti acconcio io per le feste e meglio di come fai tu con queste signore!”. Ma le faceva ridendo, le sue battutine, facendomi l’occhiolino, e io ridevo e tutte ridevamo, perché Antonio era un burlone, faceva divertire, era un comico, mica diceva sul serio.
Ero troppo ingenua, troppo immatura, per cogliere i primi segnali.
Lo avessi fatto, probabilmente, adesso racconterei una storia diversa.
Ma non è andata così. Si dice che l’essere umano sia l’artefice del proprio destino, che la vita ce la facciamo noi stessi con le nostre scelte, le diamo forma con le nostre stesse mani. Ed è la verità. Le cose non accadono. Siamo noi a fare in modo che possano accadere.
Non avevo neanche 20 anni. Per me, la possessione di Antonio, quel suo guardare in cagnesco gli altri uomini quando si camminava per strada, quel suo ripetermi che le minigonne non dovevo indossarle, quell’ossessione per i fidanzatini passati, quel non volere ch’io uscissi con le mie amiche senza di lui, quel suo stringermi forte e dirmi che ero solo sua, per me, tutto questo era amore. E io, a tutto quell’amore così grande, tutto per me, non potevo che rispondere con l’accettare le sue condizioni e lo feci con tutto il cuore, felice di farlo. Perché aveva ragione Antonio, era vero che le mie amiche avevano troppe libertà, era vero che se mettevo la minigonna tutti si giravano a guardarmi, era vero che se me ne andavo, che so, a ballare da sola, la gente avrebbe pensato male anche di lui. Aveva sei anni più di me, più esperienza. Era suo dovere proteggermi perché ero una cosa sua.
Ci sposammo un anno e mezzo dopo.
Al mio matrimonio non venne nessuna delle mie amiche. Perché di amiche, ormai, non ne avevo più. Le avevo già allontanate tutte. Peggio per loro, pensavo, sono solo invidiose perché io ho trovato un uomo che mi ama, loro, invece, che hanno?
Il primo schiaffo arrivò in viaggio di nozze, quando osai truccarmi più del solito per una cena.
«Vuoi che ti guardino tutti?» mi disse, gli occhi iniettati di sangue. «Vuoi farmi passare per un cornuto?».
Aveva ragione. Che motivo avevo, adesso che ero una donna sposata, di truccarmi in quel modo?
Presi dei batuffoli di cotone, li riempii di latte detergente e, con la faccia pulita dei bambini, mano nella mano con mio marito, andai a quella cena. La guancia bruciava un po’. Quando, una volta a letto, scoppiai in lacrime, Antonio mi chiese scusa, una, dieci, cento volte. «Non lo farò mai più, mi hai fatto innervosire, voglio che tu sia sempre felice, ho paura di perderti».
Lo perdonai.
Del resto, siamo tutti fragili e bisognosi di assoluzione.
Gli perdonai anche il calcio che mi diede a casa, qualche mese dopo, perché mi aveva beccata al telefono con una vecchia amica che non sentivo da anni.
Gli perdonai la tirata di capelli quando rientrai un po’ più tardi dalla spesa.
Gli perdonai lo spintone e i calci quando, al ritorno dal lavoro, vide il fattorino uscire dal portone del nostro palazzo, convinto fosse venuto da me per fare chissà cosa, quando invece quello stava solo facendo il suo lavoro, consegnando un pacco alla vicina.
Gli perdonai le urla e i piatti buttati per terra perché la cena non era di suo gradimento.
Gli perdonai anche il dolore che mi diede quando mi costrinse a lasciare il mio lavoro.
Quella fu la volta in cui le presi davvero pesantemente. Non volevo licenziarmi. Gli dissi che non avrei permesso al lavoro di interferire con le cose di casa, ma lui diede di matto, mi prese per i capelli, mi spinse per terra, si buttò su di me e cominciò a tempestarmi di schiaffi e pugni, finché non mi arresi. Quando, il giorno dopo, chiamai al salone per annunciare la mia decisione, lui arrivò la sera con un mazzo di rose rosse e la promessa che quella sarebbe stata l’ultima volta.
Ma non fu così.
Altri schiaffi, altri pugni, altri spintoni.
E ogni volta, poi, le scuse.
Non lo farò più.
Ti amo troppo.
Ho paura tu possa lasciarmi.
Tu sei mia.
Lo dissi a sua madre, in una fresca domenica d’autunno, mentre Antonio faceva il suo riposino sul divano russando rumorosamente e io aiutavo mia suocera a rassettare la cucina.
«Gli uomini della nostra famiglia sono così, cara. Non devi prendertela. Sono focosi, cavalli imbizzarriti, gelosi. Antonio è un bravo ragazzo, ti ama davvero tanto. È così che ti manifesta il suo amore. Anche la buon’anima di suo padre era così. Sai quante ne ho prese io? Eppure, sono andata avanti, per il bene della famiglia. Se impari a stare al tuo posto, Debora cara, nulla di male ti accadrà, vedrai, e un giorno potrai dire che il vostro è stato un matrimonio felice» disse.
Rimasi al mio posto. Eppure, gli schiaffi non si placarono. Arrivavano per un volume troppo alto della radio, per essere rimasta troppo tempo affacciata al balcone (“Chi stavi guardando? Dimmelo, prima che t’ammazzo con queste mie mani!”), per aver parlato con il marito della vicina. Si fermarono solo davanti al test di gravidanza positivo.
Ero incinta.
Antonio mi abbracciò forte, pianse, si inginocchiò, mi promise che non mi avrebbe mai più sfiorato con un dito. Furono nove mesi di pace idilliaca. Mio marito si prese cura di me con dolcezza, con attenzione, credendo finalmente che fosse cambiato. E io mi buttai tutto alle spalle, lividi, schiaffi, urla, godendomi quel momento, assaporando ogni istante.
Yuri arrivò nel dicembre del 1990. Era magrolino, un po’ cianotico, ma io lo trovai meraviglioso. Tornati a casa dall’ospedale, all’inizio fu un po’ difficile. Il piccolo piangeva sempre, io ero esausta e il disordine, i pianti, la mia stanchezza fecero innervosire Antonio, al punto da ritornare a essere manesco per un nonnulla. Oggi per il letto non ancora fatto, domani perché non riuscivo a farlo smettere di piangere, “che razza di madre sei?”, dopodomani perché “devi stare muta quando ti parlo, hai capito?”.
Lì, capii che Antonio era senza speranza di redenzione. Che aveva ragione mia suocera, che il bene della mia famiglia dipendeva dalla mia sottomissione.
Ma non bastò.
I lividi cominciarono a sommarsi sulla mia pelle, le persone a fare domande, io a dissimulare. Uscivo spingendo il passeggino con su Yuri cercando di coprirmi il più possibile, indossando, a volte, anche le maniche lunghe in piena estate.
Faceva male.
Non i lividi, no. Sì, un po’ anche quelli, ma era un dolore che poi passava, quello.
Mi faceva male l’anima. Ogni colpo era un colpo alla mia anima.
Nel febbraio del 1992 nacque Ylenia. Altri nove mesi di tregua, sapendo questa volta già che sarebbero durati il tempo del parto. Tornai a casa con la piccola. E con noi, tornarono anche le violenze.
L’inverno in cui tutto accadde, avevo 32 anni.
I miei bambini erano già cresciuti, Yuri aveva 12 anni, Ylenia dieci. Mancava un mese a Natale e con i miei ragazzi ero al centro commerciale per comprare le luminarie nuove per l’albero, in sostituzione delle vecchie ormai fulminate, quando il cellulare squillò.
Negli anni, Antonio non aveva smesso di picchiarmi. Continuava a farlo, ma mai davanti ai bambini. Con loro era un padre distante, a volte insofferente, sicuramente severo, ma non violento. Non li ha mai neanche sfiorati. Forse perché sapeva che, se solo avesse provato a toccargli un capello, io lo avrei ammazzato con le mie stesse mani. Quindi, se prima non c’era stanza o orario in cui prendermi a schiaffi, man mano che Yuri e Ylenia crescevano, le botte arrivavano la sera, in camera da letto, quando i bambini già dormivano. E per non svegliarli, per non impaurirli, io stringevo i denti e non urlavo, tenevo dentro di me tutto il dolore e lo buttavo fuori la notte attraverso fiumi di lacrime, mentre accanto a me Antonio, soddisfatto della violenza e del sesso che poi mi obbligava a fare, russava a bocca aperta. Ma se non sapevano, i miei figli, di certo, vedevano. Vedevano il mio sguardo spento, il mio dimagrimento sempre più preoccupante, i miei falsi sorrisi. Perché i figli, per quanto possiamo proteggerli dalla verità, riescono da soli a capire, a sentire, quando qualcosa non va.
E poi, c’erano i lividi. Alcuni li nascondevo, come quelli sulla schiena. Altri, come quelli sul viso o sulle braccia, spesso non potevo. Yuri e Ylenia li fissavano, poi mi guardavano dritto negli occhi, aspettando forse che io dicessi qualcosa. Ma io tacevo sempre. E loro capivano.
E tacevano anche loro.
Presi il cellulare dalla borsa.
Risposi, in una mano tenevo ancora la scatola con dentro le luminarie.
Cadde per terra.
Guardai i miei figli.
In quel momento, in quell’inverno, tutto per me, per Yuri, per Ylenia, e per la tutta vita che ancora avevamo davanti, cambiò.
All’obitorio il corpo di Antonio giaceva pallido e freddo sul bancone di marmo. Un incidente stradale sulla statale. Era morto sul colpo, una morte cattiva e dispettosa, che non concede tempo al pentimento per il male fatto e per tutto il bene che non si è voluto fare. Dove stesse andando e perché a quella velocità, non lo saprò mai. Organizzai il funerale come ogni moglie avrebbe fatto, però, non versai neanche una lacrima. L’unico dolore, i lividi più recenti che avevo sulle cosce e sulla schiena, quelli che mi aveva fatto perché avevo osato dirgli troppi no a letto.
Tornare alla vita, però, non fu semplice. E non per l’assenza, che fu una liberazione.
E nemmeno per i ragazzi, che sembravano aver superato con dignità e grande maturità lo shock.
Ero io il problema.
Perché non sapevo come si viveva ogni giorno senza la violenza, senza quella paura addosso che regola i tuoi passi, le tue scelte, i tuoi pensieri. Non sapevo che farmene, della libertà. Né come si vivesse in libertà. Non avevo un lavoro, non sapevo guidare. Dipendevo dal fantasma di Antonio che pure da morto decideva della mia vita.
Nell’inverno in cui tutto accadde, un mese o due dopo la morte di Antonio, furono i miei figli a svegliarmi da quel torpore. Erano davanti a me, immobili, lo sguardo leggermente stanco, o forse disorientato, che mi guardavano mentre io, seduta sul bordo del letto, piegavo i calzini puliti di Antonio, sistemavo la sua roba e la infilavo nei cassetti, cose che avrei dovuto regalare, bruciare, ma che io continuavo a lavare, rammendare, piegare, perché era quella l’unica vita che ero capace di vivere.
Fuori la pioggia picchiava forte e gelida contro i vetri.
Alzai lo sguardo. I nostri occhi si fissarono. Capii.
Mi resi conto di tutto.
Fu un attimo.
Mi alzai. Come guidata da una furia animalesca, svuotai i suoi cassetti, la sua anta dell’armadio, gettai tutto per terra, poi corsi a prendere dei sacchi neri e ci ficcai tutto dentro, stringendoli con un bel nodo. Li gettai dentro ai cassonetti. E con essi, in quei contenitori enormi di lamiera, gettai una vita che non volevo più.
Cercai lavoro.
Iniziai con le pulizie in due appartamenti, poi in un B&B, poi ancora in uno studio medico. Per arrotondare, stiravo per altri. Mi iscrissi alla scuola guida. Ero una frana, un’imbranata come poche, eppure riuscii a prendere la patente e a guidare con sicurezza. Con i miei ragazzi prossimi alla maturità, mi iscrissi a una scuola serale. Volevo anch’io il mio diploma.
E fu la mia salvezza. Grazie a quello, infatti, un paio di anni dopo partecipai a un concorso per diplomati nella pubblica amministrazione e lo vinsi.
Smisi di fare le pulizie, di spaccarmi la schiena, di stirare, e iniziai il mio lavoro di impiegata. Nel frattempo, Yuri e Ylenia avevano spiccato il volo. E io, sola, salvai un cucciolo dal canile, un Setter irlandese di un anno inabile alla caccia, più buona di un agnellino appena nato.
Libera. Fu così, che scelsi di chiamarla.
Lei, libera dalle gabbie del canile, io da quelle che la violenza aveva alzato attorno a me. Misi in vendita la casa che avevo condiviso in quegli anni terribili con Antonio. Puzzava troppo del suo ricordo. Con il ricavato, comprai un bilocale con un bel giardino, niente di che, sicuramente bisognoso di qualche ammodernamento, ma che per me fu il punto di svolta. Era la mia casa, comprata con i miei soldi. Le sue pareti non mi avrebbero vista mai subire più nulla. Perché io non ero più la Debora di prima.
Sono passati diversi anni. Oggi sono una donna che ricorda cos’ha vissuto, ma che non si lascia schiacciare dal dolore del passato.
I miei figli sono due adulti consapevoli.
A mio figlio, al mio meraviglioso Yuri oggi ispettore di Polizia, ho insegnato ad amare e a rispettare la donna come se stesso.
A mia figlia, alla mia bellissima Ylenia che oggi è titolare di un salone di bellezza, ho insegnato l’importanza dell’indipendenza, non solo economica, ma anche di pensiero. Il sogno di aprire un salone tutto mio, alla fine, l’ho realizzato insieme a lei.
A entrambi, ho insegnato che lo studio, la conoscenza, il sapere sono le uniche vie verso la libertà.
Non mi sono più risposata. Di occasioni ne ho avute parecchie, eppure le ho allontanate tutte. Ho imparato a stare bene con me stessa.
E mentre penso a tutto questo, ai lividi sulla pelle, al dolore dell’anima, alla forza che ho avuto per ricominciare, all’orgoglio di vedere i miei figli realizzati, felici, onesti, mi godo dal mio giardino questo splendido tramonto di novembre, incurante del vento che mi scompiglia i capelli e gela il volto. Libera è qui accanto a me, un po’ invecchiata, ombra fedele e rassicurante.
È lo stesso vento di quell’inverno, l’inverno in cui tutto accadde. Quando la natura si preparava a dormire e la mia vita, invece, come spinta da una primavera fuori stagione e improvvisa, ritornò a fiorire. ●
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