È tutto vero quello che raccontate nel libro?
«Adesso va benissimo. Dopo la mia denuncia, la condanna di Lorenzo e il decreto di allontanamento, un po‘ alla volta abbiamo ripreso a vederci. Ci siamo ritrovati e per poterci raccontare le cose scomode che non ci eravamo mai detti, ci siamo fatti piccole interviste a vicenda che io ho trascritto e messo nel cassetto. Mi sono messa molto in discussione io come madre, perché fino alla denuncia ero convinta di avere fatto tutto il possibile per Lorenzo. Invece, lui mi ha rivelato come aveva vissuto certe situazioni, e mi ha detto cose che mi hanno messo in crisi. Abbiamo pianto molto, tutti e due, durante questi scambi. Però questo ci ha portato anche al desiderio di voler condividere quello che abbiamo passato. Sia la scrittura, sia adesso la presentazione del libro ci hanno ridato tanta complicità».
Credi che il vostro svelarvi possa essere utile ad altri?
«Certo. Si parla poco di questo tipo di violenza, dei figli contro le madri, ma due riflessioni sono importanti: la prima è che, se i numeri delle denunce sono bassi, è anche perché c‘è tanta omertà, tanta vergogna. Io stessa ci ho messo anni prima di denunciare e forse non l’avrei fatto se non ci fosse stata a un certo punto un‘escalation e un concorso di circostanze che mi ha dato la spinta. Ma la seconda riflessione è che la violenza che subisci da un figlio è diversa da quella da un marito perché, da madre, subentra il desiderio di salvarlo: la denuncia diventa una partenza di rinascita, non una chiusura ma un tentativo di ricominciare su basi diverse».
Per voi, infatti, è stato così. Guardando indietro, c’è qualcosa che non rifaresti ?
«Non lo manderei in collegio. L‘ho fatto perché, nella preadolescenza, Lorenzo faceva cose da bulletto. Io, che l‘ho cresciuto da sola, faticavo a esercitare il ruolo materno e paterno insieme, pensavo che il collegio potesse aiutarlo. Invece lui l‘ha letto come allontanamento da casa. Da genitore, adesso so che bisogna mettersi in discussione con se stessi prima, per riuscire a essere autentici con i figli e ad ascoltarli in modo aperto, mettendosi in connessione con le loro emozioni. Il che non vuol dire essere amici, ma essere autentici, nel presentare anche le proprie criticità»
Qual è la “giusta distanza” tra madre e figlio?
«Bella domanda! La giusta distanza: riuscire a non entrare troppo nei confini l’uno dell’altra, altrimenti la complicità cancella l’autorevoleza. Poi, contano anche i caratteri: noi due abbiamo caratteri opposti, tra noi serve una distanza fisica, ma abbiamo bisogno e voglia di vederci, questo per noi funziona» conclude Anna Tiziana.
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Testo pubblicato su Confidenze 47/2025
















