Foglie secche

Cuore
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Un padre con una figlia speciale, un legame unico e commovente. E la storia preferita del n. 48

Marilena, senza di me, non può stare. E io, senza di lei, non posso vivere. Funziona così, quando la vita ti dona una figlia speciale. Io e mia moglie l’abbiamo accolta con forza e ottimismo. Oggi, chiudo gli occhi e affido al cielo una sola preghiera

storia vera di Lucio P. raccolta da Alessandra Mazzara

 

Fuori è ancora buio quando apro gli occhi. Oggi, è giovedì. Gipy con un balzo salta sul letto, si avvicina ai miei piedi e comincia a fare le fusa. «Lo so, piccola» sussurro al mio siamese di nove anni, «è ora di alzarsi». Piano piano, mi alzo e mi metto seduto sul bordo del letto. Resto qualche secondo, poi, quando sono sicuro di non avere capogiri, mi metto in piedi. «Andiamo a preparare la colazione» dico al gatto, che mi segue fino in cucina.Metto su un pentolino con del latte, poi sul tavolo sistemo biscotti, cacao in polvere, tovaglioli, due tazze, un cucchiaino col manico rosso. «È ora di svegliarla, Gipy». La camera di Marilena è illuminata da un abatjour a forma di mela posta sul comodino, accanto al letto. La spengo e poi, a passi lenti, vado verso la finestra e la apro, per cambiare l’aria che sa di vaniglia e sudore.Marilena è rannicchiata sotto il lenzuolo. Glielo scosto e le accarezzo i capelli neri striati da fili bianchi.

Al mio tocco, si gira e apre gli occhi.

«Oggi è giovedì?» mi chiede con la voce ancora impastata dal sonno.

«Sì, tesoro mio».

Marilena sospira, poi mi dà una mano. Gliela afferro e l’aiuto a mettersi seduta. Dal cassetto del suo comodino tiro fuori un blister di pillole, ne tolgo una e gliela porgo. È per il cuore, che da due anni fa i capricci.

Senza fare storie, Marilena mette in bocca la pillolina bianca e la butta giù con un po’ dell’acqua che la sera prima le ho lasciato in un bicchiere sul comodino. «Il cacao è sul tavolo?».

«Sì».

«E il cucchiaino, è quello col manico rosso?».

«Sì». Le stesse domande, le stesse risposte, lo stesso ordine di parole, ogni mattina.

E così, mano nella mano e seguiti da un gatto che sembra più un cane che un felino, raggiungiamo la cucina, mentre fuori il cielo si tinge di arancione, rosso e blu.

Avevo 20 anni anni quando conobbi Sarina. Su Palermo, in quel pomeriggio di fine aprile, la primavera era una ragazzina capricciosa che porta solo pioggia e io, ai Quattro Canti, sigaretta tra le labbra, con una mano reggevo un ombrello e con l’altra il libro che avrei dovuto studiare per prepararmi al concorso alle Poste, ma che avevo aperto sì e no tre volte.

«Il pane dello Stato è più dolce, Lucio» mi ripeteva mia madre. «Ci vuole un lavoro onesto e stabile per mantenere una famiglia».

«E chi la vuole, una famiglia?» le dicevo io accendendomi una sigaretta e spaparanzandomi sul divano, mentre mamma rammendava il bucato, gli occhiali sulla punta del naso, le mani screpolate e 38 anni che sembravano 50.

Lei, allora, mi lanciava uno sguardo al di sopra delle lenti. «Se ti sentisse la buon’anima di tuo padre! Che storia è questa che non ti vuoi sposare? Che novità è? Tutti si sposano, tutti mettono su famiglia. E così farai pure tu».

Mamma era del 1920. Nata e cresciuta con i valori dell’epoca, era dell’idea che solo ciò che rimane uguale nel tempo garantisce sicurezza e stabilità. Si sposò con mio padre senza neanche conoscerlo, un matrimonio portato, come si dice da queste parti. Pazienza se aveva il vizietto delle femmine. Era tutto sommato un brav’uomo, e se lo doveva tenere così com’era. Se l’era portato via un infarto quando io ero ancora un bambino.

 

Era ancora bella, mamma, con quei suoi capelli corvini e gli occhi blu, i fianchi morbidi e un seno abbondante che neanche i vestiti più accollati riuscivano a nascondere. Avrebbe potuto rifarsi una vita. Eppure, non si risposò più.

«Il matrimonio è uno solo» ripeteva sempre.

Crescendo, mi accorsi presto di somigliarle nell’aspetto, ma poco nell’indole. Le ragazze diventarono presto un passatempo, qualcosa da usare a mio piacere. Mi piacevano. Tutte. E mi piaceva sedurle, finché non mi venivano a noia. Era questa, l’idea che avevo dell’amore. Poi, però, in quel pomeriggio uggioso d’aprile, dalla via Maqueda arrivò ai Quattro Canti Sarina, che scivolò e che cadde ai miei piedi. Subito l’aiutai a rimettersi in piedi.

«Vi chiedo scusa, è colpa della pioggia» mi disse in preda all’imbarazzo e lisciandosi l’abito lungo fin sotto il ginocchio. Alzò lo sguardo su di me e quando i nostri occhi si incontrarono, tutto quello che fino all’istante prima avevo vissuto improvvisamente sbiadì, divenne opaco, insignificante. Rimasi imbambolato. Di ragazze, ne avevo avute tante. Ma nessuna, nessuna mai, mi aveva lasciato letteralmente senza parole.

«Vi siete fatta male?».

Aveva abbassato lo sguardo e dato un’occhiata al ginocchio un po’ escoriato. «No, tutto bene, solo un graffietto. E pensare che stamattina mia madre mi aveva raccomandato di prendere un ombrello, ma io non le ho dato retta. E ora mi tocca aspettare l’autobus sotto questa pioggia».

«Si devono sempre seguire, i consigli delle madri» le dissi quasi ridendo di me stesso.

Io, che quello che mi diceva mia madre me lo facevo entrare in un orecchio per poi farlo uscire dall’altro! Ma avrei detto e fatto e giurato e ammesso di tutto, pur di farle una buona impressione. «Tenga, prenda pure il mio», le dissi porgendole il mio ombrello e pregando che Carlo, il mio ex commilitone che di lì a qualche minuto sarebbe venuto a prendermi per andare insieme al famoso concorso alle Poste per il quale mia madre aveva acceso tre ceri alla Madonna e recitato novene fino ad avere la gola secca, tardasse o, meglio ancora, non venisse più.

«Vi ringrazio, ma vi bagnereste e non mi sembra giusto».

«Vorrà dire, allora, che se per voi non è un problema, aspetteremo sotto lo stesso ombrello».

Aveva annuito e un lieve rossore aveva imporporato le guance pallide. Non ci fu più scampo, per me. Mi ero innamorato.

Carlo arrivò prima dell’autobus. Per poco non feci finta di non conoscerlo.

«Volete un passaggio?» le chiesi, implorando il cielo che dicesse di sì.

«No, vi ringrazio» rispose.

«Allora, tenete il mio ombrello». Entrai in macchina. «Questi minuti passati insieme sotto la pioggia, signorina, sono stati i più belli di tutta la mia vita» le dissi prima di chiudere lo sportello, bagnato fradicio.

Vinsi il concorso. Iniziai a lavorare.

E a ogni angolo, in ogni strada, a ogni semaforo e incrocio, a cercare quella ragazza di cui non sapevo neanche il nome.

Poi, un pomeriggio di maggio, qualcuno bussò alla nostra porta. Andò mamma ad aprire.

Era lei. «Abita qui Lucio?».

Mia madre si illuminò. Finalmente, una bella ragazza sulla soglia di casa nostra. «Lucio, vieni qui, è per te».

Era là, davanti a me, più bella di come me la ricordavo. «Sono venuta a riportare l’ombrello. Per fortuna, c’era la targhetta appesa al manico con su scritto il vostro nome e l’indirizzo, altrimenti non avrei saputo come ritornarvelo».

La targhetta. Un’altra opera di mamma che io trovavo ridicola, ma che si rivelò miracolosa.

«Adesso che sapete il mio nome, forse è il caso che io sappia il vostro» le dissi con un groppo alla gola che per poco non mi fece soffocare.

«Sarina». Restammo così, a guardarci, inebetiti e imbarazzati, sull’uscio di casa, finché dalla cucina non si udì mamma gridare: «Lucio, ho fatto il caffè. Falla entrare, alla tua amica, che ci offro la crostata che ho preparato stamattina».

In altri tempi, l’avrei mandata a quel paese senza troppe cerimonie, con tutta la crostata. Ma quei tempi, ormai, non mi appartenevano più.

«Bisogna sempre ascoltare i consigli delle mamme» mi disse Sarina, sorridendo.

Fu così che il mio primo e unico amore entrò nella mia vita.

 

Aiuto Marilena a vestirsi. È la parte più faticosa della giornata. Ho l’artrosi alle mani, non riesco a muoverle come dovrei, eppure lo faccio, altrimenti mia figlia resterebbe sempre in pigiama. Le metto prima la maglietta, poi l’aiuto a infilare i pantaloni per il verso giusto e a chiuderli. Quando è il momento delle scarpe, mi metto seduto davanti a lei, che non è capace né di infilarle, né di allacciarle. Non dovrei piegarmi, ma lo faccio per agevolarle i movimenti. Poi Marilena alza la gamba, la poggia sulla mia e io annodo i lacci. Restiamo così per qualche secondo, giusto il tempo di riprenderci dalla fatica. «Ora metto il profumo?».

Faccio di sì con la testa. Sono già stanco. In ascensore Marilena non fa che grattarsi il naso. Fa sempre così, quando è nervosa.

«Smettila, che ti fai male» le dico con tutta la pazienza che ho.

Ma lei non ascolta. Giunti in portineria, si aggrappa al mio braccio e quasi cado, sbilanciato dal peso del borsone pieno delle nostre cose. «Fa’ attenzione, Lena. Così papà cade».

Mi stringe il braccio e io avverto la sua paura farsi sempre più forte. Ci sono sei gradini da scendere, il suo incubo più grande. «Ti tengo io, non ti preoccupare» le sussurro all’orecchio.

Allora, Marilena prende il coraggio, allunga una gamba e scende il primo gradino. Poi il secondo, il terzo. Ci impiega il doppio del tempo di quanto servirebbe, ma alla fine siamo già per strada ed è la cosa che più importa. Il sole ci colpisce in pieno volto, alto e brillante in un cielo limpido. Sul marciapiede, Marilena si stacca dal mio braccio e mi prende per mano. Sento i calli e la durezza della sua pelle contro la mia. La fermata dell’autobus è a un centinaio di metri da casa nostra, ma percorsi al passo lento e zoppicante di Marilena e al mio stanco e da vecchio, sembrano chilometri.

Arriviamo qualche minuto del mezzo. Quando finalmente siamo saliti e l’autobus si mette in marcia, Marilena poggia la testa sulla mia spalla. Le do un bacio sui capelli ingrigiti e lei mi stringe una mano. So che tra qualche secondo mi chiederà di fare la stessa cosa che mi chiede ogni giovedì mattina sul pullman. E so che l’accontenterò. Anche se mi costa fatica, scavare nel fondo dei ricordi.

«Papino?».

«Dimmi, piccola mia».

«Mi parli della mamma?».

Ci sposammo nel settembre del 1967, io e Sarina, cinque anni dopo il nostro primo incontro, giusto il tempo per lei di finire i suoi studi di Legge.

«Prima di pensare a un figlio» mi disse una sera, davanti a due calici di vino rosso e agli avanzi di una cena romantica, «vorrei potermi realizzare come avvocato, avere anch’io una stabilità economica. Sei d’accordo?».

Io, un figlio, lo avrei voluto subito. Però, non lo dissi. Accettai il compromesso.

Avrei accettato di tutto, pur di vederla felice.

Furono anni pieni di amore e di viaggi, di discussioni e di notti passate stretti tra lenzuola stropicciate e piene del nostro odore. Sarina iniziò a lavorare presso uno studio associato e a guadagnare anche piuttosto bene.

«Adesso sono pronta, Lucio».

Era la fine di agosto e su Palermo c’era una cappa di umidità così pesante che nemmeno si vedevano più le stelle. Massimiliano arrivò nove mesi dopo quella notte, un fagottino rosso e paffutello, quieto come un angioletto, bellissimo come la mamma. Mia madre ci aiutò così tanto da diventare indispensabile. Adorava Sarina e quel bambino arrivato a portarle tanta gioia. Adesso, i ceri, li accendeva per lui.

Iniziò così la nostra vita a tre, un mosaico di piccoli attimi di felicità. Sei anni passarono veloci come un soffio di vento. Nostro figlio cresceva in salute e bellezza. La nostra vita scorreva su mari placidi. Marilena arrivò del tutto inaspettata, l’ultimo giorno di dicembre del 1977.

Una creatura magrolina, scura di capelli come me. La presi in braccio. Io, così grande e grosso, e lei, così piccola che si poteva rompere, ebbi quasi paura. Poche ore dopo il parto, mi chiamò il medico: «C’è qualcosa che dovrei dirle».

Fino a quel momento non avevo mai sentito parlare di sindrome di Down.

Il dottore mi spiegò che, con grande probabilità, Marilena sarebbe cresciuta con un grave ritardo mentale che avrebbe compromesso il naturale svolgere della sua vita. «Possiamo privarla dell’alimentazione e lasciarla morire qui in ospedale nel giro di poche ore».

Cosa mi fermò dal prenderlo per il collo, ancora non lo so. Senza dire una parola, mi alzai e uscii dalla stanza, sbattendo la porta.

Mia moglie accolse la sindrome di Down con una forza e un ottimismo da lasciare allibito chiunque si avvicinasse a noi, gente convinta che quella bambina fosse solo una disgrazia. «Ha solo bisogno del nostro amore» rispondeva Sarina alle mie paure.

Non fu facile. Crescendo, le difficoltà di Marilena si fecero sempre più evidenti, così come i suoi ritardi. I primi passi a quasi cinque anni, le prime paroline a tre, cibi frullati fino a sette.

«Ho deciso di lasciare il lavoro. Marilena ha bisogno di me».

Sarina fu irremovibile. Chiuse i suoi sogni e le sue cause dentro a una scatola e si buttò a capofitto su Marilena. Studiò, cercò altri pareri, contattò associazioni e terapisti. Il suo lavoro, ora, era Marilena. E quando nostra figlia si diplomò alla scuola media, piangemmo di gioia. Ce l’avevamo fatta, nonostante tutto.

 

Nel frattempo, gli anni passavano inesorabili. Massimiliano diventò un ragazzo, poi un uomo. Iniziò la facoltà di Legge come la madre, si laureò, incontrò Rosanna, aprì il suo studio, si sposò, comprò una villetta a Mondello e diventò padre.

Mia madre morì in una fredda mattina di gennaio, lasciandomi orfano del suo amore un po’ antico, ma indispensabile. E mentre tutto questo accadeva, mentre il tempo ci modificava, cancellava volti e ne creava altri, Marilena restava un’eterna bambina, insieme alla sua mamma e al suo papà che imbiancavano inesorabilmente. Sarina ci lasciò nel 2015.

Fu una malattia gentile, perché se la portò via in due mesi. Giusto il tempo di una diagnosi e lo strazio di non riuscire a trattenerla ancora con noi. Marilena ne fu devastata. Erano, quelle due, una cosa sola.

«Perché non posso andare con lei, papà?», mi chiedeva tra le lacrime ogni santissimo giorno.

E io, che avevo il cuore trafitto da spilli, tacevo, la stringevo a me, e uniti nel dolore, piangevamo l’assenza di Sarina. La depressione di mia figlia si aggravò fino a toglierle la fame. Fu allora che Massimiliano si presentò in casa con una gattina siamese di pochi mesi, dagli occhi azzurri e il pelo soffice e lucido.

«È tuo, sorellina» disse a una Marilena che era ormai l’ombra di se stessa, succube degli psicofarmaci. Gipy fece il miracolo che né io, né Massimiliano, né i nipotini, nè i farmaci erano riusciti a fare. Lei ricominciò a mangiare, a parlare, a uscire, a sorridere. A vivere.

Arriviamo a Mondello accompagnati dal canto dei gabbiani. Massimiliano ci aspetta in auto alla fermata. Appena ci vede, ci viene incontro.

«Papà, come va?» mi chiede dandomi una leggera pacca sulle spalle.

«Come i vecchi» gli dico abbracciandolo.

Prende il mio borsone e con un gesto veloce se lo carica sulla spalla. Come facevo io con i suoi zaini pesantissimi, quando andavo a prenderlo a scuola. Poi si gira verso Marilena, che lo guarda innamorata. L’attira a sé e l’abbraccia, stringendola forte. Massimiliano adora la sorella. Dopo la morte della madre, mi propose di trasferirci da lui, nella sua villetta sul mare.

«C’è posto anche per voi due, papà. Non vi mancherebbe nulla».

Non ho mai accettato. Massimiliano ha la sua famiglia. Una moglie. Tre figli. Un lavoro. Non voglio imporre la mia presenza stanca. Non voglio che la fatica che c’è dietro e dentro la vita insieme a Marilena pesi su di lui. È nato così l’appuntamento del giovedì.

 

Ogni mattina del quarto giorno della settimana, io e la mia eterna bambina saliamo su un autobus che ci porta a Mondello da Massimiliano, dai suoi bambini, da una vita serena. Sto con i miei nipoti, Marilena si lascia coccolare dalla cognata e dal fratello, pranziamo, si gioca in giardino, e io e mia figlia godiamo di quel che la vita ci dà, quei piccoli attimi di gioia, fino a che il sole si spinge verso il mare, in attesa che questo lo inghiotta. Poi, salutiamo e risaliamo sull’autobus. Che ci riporta a quel che la vita, invece, ci ha tolto. «Hai preso la pillola per dormire?».

Rannicchiata sotto la coperta, fa sì con la testa. Gipy è sul letto con lei. Le do un bacio tra i capelli. «Buona notte, vita mia».

«Buona notte, papino mio».

Accendo la sua abatjour e a passi lenti mi avvio in camera. Mi metto a letto. Sul comodino, Sarina e io siamo felici, chiusi in una cornice. Davanti a noi, la torta del suo cinquantesimo compleanno. Alle nostre spalle, Marilena e Massimiliano sorridono. Eravamo felici, nonostante la fatica. Ora, da quando Sarina è andata via, sento su di me tutto il peso della disabilità di mia figlia. Sono vecchio. Sono stanco. E Marilena sta invecchiando. Si sta stancando. Sto per addormentarmi quando sento dei passetti venire verso di me. «Papino, sei sveglio?».

Sorrido. «Sì, bimba mia». Marilena è davanti a me. Gipy è ai suoi piedi, un’ombra di pelo e vibrisse. «Posso dormire nel posto di mammina?».

Sollevo la parte di coperta accanto alla mia.

«Vieni qua, piccola».

Marilena, lentamente, si mette a letto. Si rannicchia contro di me, poi poggia la testa ingrigita sul mio petto. Gipy salta su e va ad acciambellarsi ai nostri piedi. E mentre sento il suo lieve russare su di me, chiedo a Sarina di rivolgere a Dio la mia sola e unica richiesta, quella di venirci a prendere insieme, quando sarà il nostro momento.

Io e Marilena, due foglie secche che, al medesimo istante, lasciano il loro ramo, cadendo in una lenta danza, insieme. Perché Marilena, senza di me, non può stare. Perché io, senza Marilena, non posso vivere. Funziona così, quando la vita ti dona un figlio speciale. Vuoi andartene con lui.

Chiudo gli occhi. Non mi accorgo che in cielo una stella cade giù veloce, illuminando con la sua scia magica il cielo blu della notte.

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