Non ho mai dimenticato quella notte di dicembre. Stavo preparando il dolce che mia figlia adorava quando arrivò quella telefonata. Mi parlavano di auto, incidente, ospedale… Nella disperazione ritrovai nella mia mente una preghiera. E a quella mi affidai
Storia vera di Elsa D. Raccolta da Alessandra Mazzara
Palermo, 1646
Una terribile carestia ha messo in ginocchio la città e i suoi abitanti. Non c’è più cibo e la gente muore di fame. Senza più speranze, i palermitani si rifugiano in cattedrale a pregare. Solo il cielo può aiutarli. Si uniscono in preghiera, le bocche aride e lo stomaco che borbotta, per invocare l’intercessione di Santa Lucia, perché compia per loro il miracolo. Ed ecco che, improvvisamente, giunge in cattedrale una colomba bianca. Tutti la vedono volare sull’altare, tutti sentono l’eco di una voce che grida l’arrivo di un bastimento carico di grano. I devoti si guardano l’un l’altro. È il miracolo tanto atteso. Quindi, scendono lungo la via, diritti al porto. Il grano è già là, chiuso in grandi sacchi di tela. I palermitani se li caricano sulle spalle e li portano a casa, ce n’è così tanto da bastare per tutti. Ma non c’è tempo per lavorarlo perché la fame è troppa. Allora lo prendono così com’è e lo mettono subito a bollire, poi lo condiscono con un filo di olio e di vino cotto: è la “cuccìa”.
Gli adulti assaporano quel piatto che sa di provvidenza, bagnandolo con lacrime di ringraziamento, mentre osservano con emozione finalmente i propri figli mangiare. Quella sera del 1646 nessuno a Palermo andrò a letto con lo stomaco vuoto.
Santa Lucia ha concesso la grazia: per ringraziarla, da quel momento ogni 13 dicembre sulle tavole di ogni casa verrà mangiata la “cuccìa”, in ricordo del miracolo del grano che fino ad oggi si tramanda in tutta l’isola…
Le avevo suggerito di non andare.
Erano giorni che Diana accusava un leggero mal di gola ed era anche parecchio raffreddata.
Avevo accolto, quindi, la notizia della sua partecipazione a quella festa con un po’ di ansia.
«E dai, mà» mi aveva detto Diana infilandosi velocemente i collant sotto al vestitino di velluto blu notte. «Saremo a casa di Carlotta, cosa vuoi che mi succeda?».
«Fa freddo, Diana, potresti prenderti un brutto colpo d’aria» le avevo detto io di rimando, sperando di convincerla.
Ma sapevo di parlare a vuoto.
Del resto, mia figlia aveva appena 18 anni: chi le ascolta, le madri, a quell’età?
La guardai raccogliere i lunghi capelli biondi in una coda di cavallo e fermarli con un elastico glitterato, poi avvicinarsi allo specchio e iniziare a truccarsi.
Era la sera dell’11 dicembre.
Dal cielo grigio cadeva da giorni un sottile nevischio che si scioglieva all’istante una volta arrivato a terra.
Faceva davvero tanto freddo.
Mi ero stretta nella mia vestaglia di pile e continuavo a guardarla mentre finiva gli ultimi ritocchi sul suo viso così bello e giovane e liscio da non aver bisogno di alcun trucco.
«Ti ammalerai, Diana. Non senti il freddo che fa? Metti almeno qualcosa di più pesante di quel vestito» le avevo detto mentre ripiegavo il mucchio confuso di maglioni, jeans e vestiti che mia figlia aveva provato e riprovato e poi deciso di abbandonare sul suo letto.
«Questo è perfetto. E poi, te lo ripeto» aveva incalzato lei chiudendo il mascara e riponendolo nel suo astuccio, «saremo a casa di Carlotta. Casa, hai presente? Una struttura con un tetto, un pavimento, delle pareti…»
Avevo sospirato e Diana mi aveva fatto una linguaccia allo specchio.
«Lascia almeno che ti accompagni papà. Casa di Carlotta è lontana, le strade sono bagnate».
Diana aveva spruzzato un po’ del suo profumo alla vaniglia sui polsi e dietro le orecchie, creando in stanza una nube dolciastra e soffocante.
«Dovrei farmi accompagnare da papà come una bambina delle medie? Mamma, ma sei seria? Vuoi che mi prendano in giro da qui all’eternità?».
Sì che ero seria.
Serissima.
Ma lo era anche mia figlia. Dovetti, quindi, darle le chiavi della mia macchina. Accidenti quanto mi batteva forte il cuore ogni volta che la vedevo salire su e mettersi al posto di guida.
Ci eravamo spostate in cucina. O meglio, Diana si era spostata in cucina per prendere il cellulare e altre cose, io l’avevo seguita come un cagnolino.
«Mandami un sms appena arrivi, Diana. Non lo dimenticare»
«A che punto è la cuccìa, ma?» mi aveva interrotto mia figlia mentre si avvicinava al pentolone coperto da un canovaccio e posto in un angolino della penisola della nostra cucina.
«Deve riposare un po’, poi potrò condirla. Senti…».
«Che bontà! Solo a pensarci mi viene l’acquolina in bocca, non vedo l’ora di mangiarla. Scappo, mà».
«Diana» la chiamai con un po’ di irritazione nella voce.
Si era girata sbuffando. «Lo so. Il messaggio di arrivo. Stai serena, mammansia».
«Mezzanotte e mezza a casa. Non un minuto di più».
Mi aveva stampato un bacio sulla guancia, poi era andata via, lasciando dietro di sé la scia dolciastra del suo profumo. Dalla finestra l’avevo seguita con lo sguardo, osservata salire in auto, mettere in moto e lasciare il vialetto di casa.
Sospirando, mi ero, poi, avvicinata alla cuccìa. Per tanti anni l’avevo preparata seguendo le due ricette più antiche che mi aveva insegnato zia Nena, quella al vino cotto e quella al cioccolato. Di quest’ultima versione, in particolare, Diana ne era golosissima.
Guardai l’orologio: le 21.15.
Preparai una tisana e mi buttai sul divano a leggere una rivista, mentre mio marito finiva un lavoro al computer, chiuso nel suo studio. Non sapevo ancora, come avrei potuto?, che da lì a un’ora e mezza circa avrei ricevuto una telefonata che mai più avrei dimenticato. Una voce sconosciuta mi avrebbe detto parole che messe insieme formavano frasi che le mie orecchie non volevano ascoltare, né il mio cervello rielaborare: figlia, incidente, auto distrutta, albero, ambulanza.
Urlai.
Mio marito venne di corsa da me, prese il telefono, lo vidi impallidire.
«È ancora viva? Dimmi che è ancora viva» gridai, mentre le labbra formicolavano e la vista si annebbiava.
Gli occhi di mio marito lo tradirono. Erano pieni di paura e disperazione. «È in coma».
Fu l’ultima cosa che sentii.
Poi, il buio.
Passammo la notte in ospedale. Ci dissero che Diana era andata con l’auto dritta contro un albero, forse per un sorpasso azzardato, la dinamica era ancora da chiarire. Che l’avevano estratta dalla macchina viva, ma priva di conoscenza. Che la mia automobile era adesso una lattina schiacciata, da buttare.
Aveva, quest’ultima cosa, forse, importanza per me? La bruciassero pure, quella maledetta auto, insieme a quell’albero.
La situazione rimase stabile per tutta la notte e la giornata a seguire. La sera dopo il medico ci riferì che le condizioni di Diana erano serie. Bisognava attendere, sperare e pazientare, senza illusioni.
«In questi casi è molto utile la stimolazione dei sensi. Fatele ascoltare la musica che preferisce, la voce di un’amica, o magari ancora i dialoghi della serie tivù preferita…».
Erano già passate 24 ore dall’incidente.
Era il 12 dicembre.
Su Palermo continuava a cadere il nevischio e a fare davvero tanto freddo. Dalla finestra della stanza d’ospedale dove giaceva immobile mia figlia vedevo le luci nelle case degli altri, in netta contrapposizione con tutto il buio che avevo dentro. Volevo mia figlia. La volevo in piedi, senza tubi attaccati, con il suo vestito di velluto blu. Volevo sentirla prendermi in giro, chiamarmi mammansia, volevo sentire la sua risata, rivedere l’azzurro dei suoi occhi aperti.
«Può essere di stimolo anche il buon profumo di un cibo che Diana ama in modo particolare».
In quell’istante tornai in me e a quello che la dottoressa continuava a dire.
Un cibo che Diana ama in modo particolare.
La cuccìa!
Presi le chiavi della macchina dalla tasca del giubbotto di mio marito e senza dire nulla feci per andare.
«Elsa», mi fermò Nicola. «Ma che ti salta in mente? Dove stai andando così di fretta?».
Non mi voltai nemmeno.
Corsi verso gli ascensori lasciandomi dietro lo sguardo confuso e allibito di mio marito, poi giù, fino al cortile dell’ospedale e via, in auto verso casa. Arrivata, tolsi le scarpe, lavai velocemente le mani e andai in cucina. I chicchi di grano erano ancora sul piano da lavoro, ad aspettarmi.
Me ne ero dimenticata.
Mi avvicinai al pentolone che li conteneva e mentre allacciavo in vita il grembiule fu impossibile non tornare con i ricordi alla mia prima cuccìa.
Avrò avuto più o meno otto anni. In quegli anni mi capitava spesso di trascorrere interi pomeriggi a casa di Zelia, mia nonna materna, che condivideva casa e vita con la vecchia sorella maggiore, zia Nena. Era una donna tutta d’un pezzo. Decisa a non sposarsi mai fin dalla più tenera età, aveva trascorso la sua vita a occuparsi dei campi e dei genitori, accudendoli con estrema dedizione fino al loro ultimo giorno. D’indole forte, autorevole e indipendente, viveva in un’umile casetta di legno e pietra in un piccolo paesino di provincia, a pochi chilometri da Palermo, dove tutti noi abitavamo. Quel luogo era tutto per lei, tutto quello che aveva conosciuto: laggiù, la vita era scandita da ritmi lenti e semplici e la felicità stava nascosta nelle piccole cose. In quella casetta zia Nena impastava il pane e lo cuoceva nella vecchia stufa a legna, poi si avvolgeva nello scialle e andava per le vie del paese a distribuire panini e pagnotte nelle case più povere, convinta che solo seguendo la via della carità si arrivasse in Paradiso.
E lei, al paradiso, ci credeva per davvero. Aveva una fede antica, ferma e incrollabile e, seppur analfabeta, conosceva e recitava tutte le preghiere in latino, sgranando il rosario tra le dita nodose. Ma c’era una Santa, in particolare, per la quale zia Nena aveva un debole assoluto e incondizionato: Santa Lucia. In suo onore aveva creato un piccolo altarino in cucina con una statuetta della Santa siracusana e una candela sempre accesa. Non c’era malattia, dispiacere, problema economico o matrimonio a rischio di cui zia Nena venisse a conoscenza che non fosse da lei stessa affidato all’intercessione di Santa Lucia.
«Ha salvato la gente dalla carestia, Elsa. È una Santa potente. Pregala, pregala con fede e lei esaudirà le tue richieste» soleva ripetermi sempre quando mi trovava imbambolata davanti a quella donna di cera con gli occhi poggiati su un piattino che teneva tra le mani.
Quando zia Nena si fece così vecchia da non poter più vivere tutta sola in quella casa, nonna Zelia andò a prenderla per portarla con sé.
«Non ci vengo a Palermo» aveva sentenziato. «È questa la mia casa e qui voglio morire».
Ma quella fu l’unica battaglia che zia Nena perse, l’unica volta in cui fu costretta ad abbassare la testa. Si trasferì a casa della sorella, lasciandosi dietro tutti i suoi ricordi. Nessuno della famiglia potè capire o anche solo immaginare cosa provò quella povera vecchietta nel chiudere per sempre la porta di una casa che l’aveva vista nascere e crescere e con essa tutti i ricordi di una vita, i ritratti dei genitori, il suo vecchio forno a legna, l’altarino a Santa Lucia, che da quel giorno non venne più abbellito da alcun fiore fresco.
A Palermo zia Nena si abbandonò a una vita fatta di silenzi. Il suo sguardo si rianimava soltanto quando stava con me.
«Vieni, Elsa, seguimi in cucina» mi disse in un lontano e tempestoso pomeriggio di dicembre. Mancavano pochi giorni alla festa della sua Santa preferita. «Oggi ti insegno a preparare la cuccìa».
La vidi raccogliere i chicchi di grano già cotti, bianchi e perfetti nella forma, da un pentolone. «Questi hanno riposato per un giorno e mezzo, Elsa».
La osservavo muoversi lenta. I suoi gesti precisi mi ipnotizzavano. Aveva, poi, diviso il grano in due contenitori. In uno aveva aggiunto il vino cotto, in un altro la ricotta di pecora e pezzetti di cioccolato amaro.
«Ora recita la preghiera insieme a me: “Santa Lucia, tu, ca ci sarvasti di la caristia (tu che ci hai salvato dalla carestia)/ Grazie a la to’ intercissioni (grazie alla tua intercessione)/ arrivarono binidizioni (arrivarono le benedizioni). No jorno to’ santo (Nel tuo giorno santo). cuccìa preparai(ho preparato la cuccia) pa nun scurdarmi lo to’ miraculu mai (per non dimenticare mai il tuo miracolo). Meritu nun cercu e manco vanto, (Merito cerco, non vanto) / sulu onorari lu to’jornu santo.(solo poter onorare il tuo giorno santo). Pi grazia di Diu, oh Santa Lucia, ascuta l’anima mia e concedi na grazia puru pi mìa (Per grazia di Dio, Santa Lucia, ascolta l’anima mia e concedi anche a me la grazia)“».
Zia Nena mi fece ripetere due volte la preghiera. Quando ebbi finito mi disse: «Ora devi chiedere alla Santa una grazia».
«E cos’è una grazia, zia?» le chiesi.
«Un miracolo. Qualcosa che vuoi che il Signore faccia per te». Non ricordo cosa chiesi. Ero una bambina felice, cresciuta in una famiglia unita e serena, cosa mai avrei potuto chiedere?
Quando zia Nena morì, scrissi su una piccola pergamena la preghiera che mi aveva dolcemente tramandato e che ormai conoscevo a memoria e gliela misi tra le mani, insieme a un santino di Santa Lucia.
Negli anni che seguirono, ormai adulta, non mancò un 13 dicembre senza la cuccìa e quella preghiera alla Santa che aveva salvato il mio popolo dalla fame.
Il ricordo dolcissimo e lontano nel tempo di zia Nena bagnò di molte lacrime la mia cuccìa di quel terribile 13 dicembre. La mia Diana, la mia bambina, doveva svegliarsi. Condivo il grano e recitavo la preghiera, mentre i singhiozzi si mangiavano le parole, una dopo l’altra.
«Per grazia di Dio, oh Santa Lucia, ascolta la mia anima e concedimi la grazia…».
Tirai su col naso, asciugai velocemente le lacrime col dorso delle mani e chiusi i due contenitori pieni di cuccìa al vino e al cioccolato. Li infilai nella borsa e tornai giù in macchina, di nuovo verso l’ospedale.
Nicola era ancora là, seduto su quelle orribili panchine di ferro, chino, la testa tra le mani.
«Ci sono novità?» gli chiesi.
Al sentirmi arrivare lui alzò la testa. Aveva gli occhi stanchi e cerchiati di nero. Mi fece segno di no.
Presi, allora, il corridoio andando alla ricerca di un medico. Un’infermiera mi vide arrivare con le due ciotole tra le mani e subito capì che cosa volevo fare. Mi fece entrare nella stanza.
Diana era immobile sul letto, pallida. Accanto a lei, una macchina ne segnava il battito cardiaco e le funzioni vitali.
«Prego, signora, si accomodi pure qui» mi disse l’infermiera porgendomi una sedia.
Presi posto e con le mani che tremavano aprii la prima ciotola.
La cuccìa al vino. La porsi all’infermiera che l’avvicinò al naso di Diana.
Dentro di me la voce di zia Nena mi accompagnava nella recita a fior di labbra della preghiera.
“Pi grazia di Diu, oh Santa Lucia, ascuta l’anima mia e concedi na grazia puru a mìa…”
Poi, l’altra. La cuccìa al cioccolato.
“Pi grazia di Diu, oh Santa Lucia, ascuta l’anima mia e concedi na grazia puru a mìa…”
Diana non si mosse. Neanche un impercettibile movimento degli occhi, delle mani. Nulla.
Quella sera tornai a casa con Nicola.
Esausti, ci buttammo a letto. Il nevischio aveva smesso di cadere e il cielo blu della sera era punteggiato da miriadi di stelle. Dalla mia postazione, osservando dalla finestra, ne vidi una che brillava più intensa delle altre. Nella mia mente continuavo a sentire risuonare la preghiera: “Pi grazia di Diu, oh Santa Lucia, ascuta l’anima mia e concedi na grazia puru a mìa…”.
Caddi rapita da un sonno profondo.
Ci svegliò lo squillo del telefono.
Fuori era ancora buio.
Nicola rispose, io mi drizzai a sedere col cuore che batteva così forte da farmi male. Guardai la sveglia: mezzanotte. Era già il 13 dicembre.
Nicola riattaccò. «Andiamo da Diana» fu la sola cosa che riuscì a balbettare.
«Cosa ti hanno detto? Per l’amor di Dio, parla» dissi, ma mio marito sembrava come rapito. Non insistetti, nella mia mente risuonava ancora l’eco della preghiera. Ma non osavo sperare.
Quando arrivammo il medico di turno ci venne incontro e in quell’istante credetti di morire.
«Si è svegliata».
Caddi in ginocchio là, in quella fredda e spoglia corsia ospedaliera, il pigiama sotto il cappotto, il viso stanco e i capelli stropicciati, e piansi così tante lacrime da non averne più. Niente mi toglierà dalla testa che quella notte Santa Lucia aveva ascoltato la mia disperazione. Aveva fatto ancora una volta il miracolo.
Oggi Diana è una studentessa al secondo anno di Architettura. Piena di sogni e progetti, divide il suo tempo tra gli amici, lo studio e il teatro, la sua più grande passione. Io, la sua mammansia, continuo a piegare i suoi vestiti sparsi per la casa e ad avere le palpitazioni ogni volta che sale al posto di guida di un’auto, mentre la statuetta di Santa Lucia che un tempo appartenne alla cara zia Nena mi sorride dal piccolo altarino che Nicola ha messo su in segno di ringraziamento. E di monito al cuore.
Per l’amore e il bene e le piccole e grandi grazie grazie che abbiamo ricevuto.●
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