Storia di un’allergia di Mariateresa Novara

ConfyLab
Ascolta la storia

Se sei celiaco non ti scoraggiare, non è questo che deve farti paura nella vita! Sono siciliana e ne vado fiera ma, non me ne vogliate se dico di amare anche Parma: è la città che ha dato a mia figlia, per una seconda volta, il diritto di vivere. Serbo un bel ricordo di quest’altra splendida città e dei medici di quell’ospedale. Ho lasciato tanti piccoli angeli rincasando: qualcuno ha messo le ali, qualcun altro lotta sicuramente per sopravvivere… A loro affettuosamente va il mio pensiero.

Maria Teresa Novara

 

 

La spensieratezza mi fece compagnia fino al giorno in cui mia madre, a tavola, mi diede la notizia e il boccone che stavo ingoiando mi andò di traverso.

Io e tuo padre andremo al Nord: qui non c’è lavoro! 

E così, alla tenera età di nove anni, restai a casa dei miei nonni che da allora, da quel dì in cui mia madre lasciò la mia manina piangendo, diventarono i miei nuovi genitori. Nonno padre e nonna madre – così potevo dar loro un nome – si presero cura di me ed io rimasi nella loro casa fino al giorno in cui presi marito. Diventai presto madre del mio primogenito e poi, dopo un anno esatto, partorii una bella bambina.

Era il 1968. I valori dominanti di una società opulenta si disgregavano, i giovani insoddisfatti protestavano e, un po’ più in basso, la Valle Del Belìce tremava. In tutto questo trambusto anche il freddo la faceva da padrona. In Sicilia nevica di rado ma quel quattordici gennaio fu particolarmente gelido: i campi erano innevati, gli alberi del giardino sembravano sterili e il silenzio regnava sovrano. Cominciò un po’ di vita quando il plumbeo cielo diede il cambio ad uno nuovo e venne la pioggia. I blocchi di ghiaccio iniziarono a sciogliersi e a staccarsi dalle grondaie cadendo in terra in mille pezzetti e, finalmente, qualcuno uscì dalla tana in cui si era rincasato. Avevo appeso un bel fiocco rosa alla porta con un penzolante angioletto a braccia aperte che recava scritto – a caratteri ricamati a punto croce – il nome della mia adorata bambina: Marcella.

Era splendida. Quattro chili, bruna con un ciuffo nero e riccio che cadeva sulla fronte liscia e profumata di bebè. Quando si sparse la notizia ch’ero diventata per la seconda volta mamma, cominciò l’andirivieni. Non avevo mai visto cotanto affollamento! Se ci fossimo affidati ai famigerati pizzini sarebbe stato sicuramente più facile entrare in casa mia… Il parentado era ricco ma i curiosi furono in numero maggiore. Gli ospiti variavano. Ve n’erano buffi e strani, profumavano di zagara, nicotina, Felce Azzurra e caffè. Zii, cugini e via di scorrendo, si avvicendavano e si avvicinavano alla culla per ammirare la bambina dal ciuffo nero e dalle gote rosee e paffute che a toccarle sembravano di velluto. Marcella era immobile, ogni tanto sorrideva ma il più delle volte piangeva così tentavo di consolarla coccolandola e avvicinandole il seno per ristorarla anche se non era sempre possibile visto ch’ero troppo impegnata coi convenevoli. Allora, ecco che arrivava prontamente mia madre che cercava il modo per calmarla dondolando la cesta a ritmo cadenzato.

Marcella ciucciò il latte materno fino a sei mesi poi, al divezzamento, iniziarono le prime avvisaglie. Pesava circa nove chili. Per disabituarla dal seno, cominciai a darle le prime pappe semi-solide così come da programma alimentare: farine lattee, omogeneizzati, yogurt e semolino, alimenti che vanno bene per la stragrande maggioranza dei bambini ma che mia figlia non tollerava affatto. In effetti, dopo le prime cucchiaiate, vomitava il tutto con mio grande dispiacere.

Dove avrò sbagliato?

Rifacevo il composto seguendo meticolosamente il procedimento, ma ottenevo lo stesso esito precedente: Marcella vomitava come una fontana ogni sorta di cibo! Visti gli insuccessi in cucina, portai la mia cucciolotta dal pediatra il quale, dopo il rituale della visita, mi riferì che non vi erano stati cambiamenti né in lunghezza e né in peso e che si era di fronte ad un calo ponderale. Avevo intuito la possibilità di un’intolleranza alimentare – non il pediatra – molto probabilmente ad uno degli ingredienti delle pappe ma trovare l’intruso era praticamente impossibile visto che quei cibi contenevano, a dosi più o meno simili, le stesse componenti. Intanto vedevo mia figlia ogni giorno più debole: non le erano spuntati ancora i dentini, non muoveva i primi passi poiché non riusciva a reggersi in piedi mentre gli altri della sua età già lo facevano… Ritornai dal pediatra che, dopo aver visitato Marcella, prescrisse una serie infinita di esami.

Intanto mia figlia, con mio grande rammarico, perdeva ogni giorno il suo bel colorito: erano sparite le rosse gote e l’enorme pancino metteva in risalto gli arti ossuti ricoperti ormai da una pelle flaccida e prolassata. Consultai altri medici… Dai primi esiti dei prelievi effettuati non saltò fuori nulla di particolare ad eccezione di una ferritina bassa; gli altri avrebbero dovuto consegnarli fra breve ma il macchinario malfunzionante e un reagente che l’U.S.L. avrebbe dovuto acquistare in breve termine e che tardava ad arrivare, costrinsero a rallentare la guarigione della mia smunta figliola.

Non avevo ripreso a lavorare, non ne avevo voglia. Il panico mi terrorizzava ed era diventato un fedele compagno di viaggio. Marcella, più debole e spenta, era sempre sotto l’occhio vigile di mia madre e di noi genitori. A turno ci si prendeva cura di lei mentre qualcun altro cercava di trovare ristoro nel sonno. Anche suo fratello, che le voleva un bene dell’anima, stringendole la mano le sussurrava all’orecchio che quando sarebbe guarita l’avrebbe portata nei campi a correre, si sarebbero sdraiati sull’erba e cotti al sole come salsicce. Io, origliando, non mi ero resa conto di quanto Luigi fosse diventato così sensibile e prematuramente grande, nel contempo mi rendevo conto d’averlo lasciato crescere da sé concentrando tutte le mie forze solo su sua sorella, e piangevo perché pensavo che tutta questa storia mi aveva trasformata in una madre inutile.

Quando ritornammo dal pediatra, con molta leggerezza sputò la sua diagnosi: fibrosi cistica. Io e mio marito ci guardammo basiti e il panico venne a farmi compagnia. Ma le docteur aveva tenuto conto, nel dare la sua sentenza, che un simile colpo avrebbe lacerato il mio cuore? Forse non ne aveva idea perché chi non c’è mai passato non sa e non capisce. Non può un medico essere così superficiale e poco sensibile! E il bello è che lui sapeva perché gliene avevo parlato durante le innumerevoli visite ambulatoriali! Tornammo in ospedale per ritirare l’esito degli esami, ma, ancora una volta, facemmo un buco nell’acqua. Mio marito, che non avevo mai visto arrabbiato, era su tutte le furie. Dovremo prendere una decisione e subito! Non si può continuare in questo modo!

Guarda nostra figlia, sembra piccola, piccola. Non mangia, non beve, vomita di continuo e i medici stanno a crogiolarsi sul come e perché sputando sentenze di qua e di là. Partiremo e andremo al Nord! 

E così, riempite le valigie alla rinfusa e lasciato Luigi dai nonni, partimmo verso mete migliori. Ci recammo nella bellissima e tranquilla Parma. Arrivammo una mattina di luglio. Il sole era cocente. C’era gente che aspettava il tram molti, in bici, si recavano probabilmente al lavoro. Ma quante biciclette! Milioni! Certo, la città pianeggiante lo permette. Sfiderei chiunque giù da noi ad usare la bici per andare al lavoro! E poi – diciamocelo – chi di noi la prenderebbe, noi così tanto megalomani che andiamo in giro per farci notare, per far vedere l’ultimo tipo di vettura acquistata con gli infiniti optional, noi così esageratamente eleganti e griffati dai capelli in giù?

Dopo aver riempito di succhi gastrici la camicia di mio marito (Marcella vomitava anche il niente!), entrammo nel nuovo domicilio: Ospedale Maggiore di Parma, (uno dei primi in Italia per la diagnosi e la cura della fibrosi cistica o mucoviscidosi). Da quel momento i medici non ci lasciarono in pace. I prelievi di sangue e delle feci erano una routine, la eco addominale e il test del sudore furono un optional. Siccome la mia bambina non riusciva ancora a mangiare, le infilzarono un ago in una vena, le fasciarono il braccino ossuto ad un bastoncino di legno e la alimentarono per via endovenosa per circa cinque giorni. Gli infermieri andavano e venivano notte e giorno, controllavano la temperatura corporea e misuravano la pressione.

Caspita, non si riesce a dormire qui!

Durante la notte cercavo riposo ma non ci riuscivo. Facevo finta di dormire e, con gli occhi socchiusi, guardavo mia figlia sdraiata sul suo lettino con accanto il suo Winnie di peluche. Non avevo neanche una branda, almeno così pensavo. La stanza era grande, c’erano due lettini, due comodini ed uno strano cubo accanto la tv. Scoprii per caso che il cubo era, in realtà, una branda. Ci avevo involontariamente urtato contro e quello strano coso era finito in terra scoprendo una rete e un sottilissimo materasso.

Vabbè, fa niente! Mi ripetevo.

Tanto chi dorme al pensiero di scoprire una nuova ed obsoleta diagnosi? E dopo quindici giorni, alla biopsia intestinale, scoprimmo la causa che devastava il pancino di Marcella: era ed è celiaca e non ha la fibrosi cistica!

La celiachia non è una patologia, è soltanto un’intolleranza permanente al glutine. Sì, permanente. Non ci sono farmaci che la curano ma soltanto una dieta alimentare ferrea e lontana da fonti di glutine riesce a tenerla a bada. Il glutine è un complesso proteico contenuto in alcuni cereali quali frumento, segale, orzo, farro e avena. Non può mangiare il pane, la pasta, i biscotti, la pizza e tutte quelle merendine pubblicizzate in televisione con quei bei giocattolini né far uso di piatti pronti, non potrà bere la birra di suo padre quando diventerà grande. Per la spesa al supermercato dovrò spesso consultare un prontuario, per quella in farmacia no problem: hanno tutti il marchio della spiga barrata o recano la dicitura gluten free, sans gluten, gluten frei, sin gluten. Sono prodotti consentiti poiché sono costituiti da farine alternative ottenute dal riso, patate, mais e tapioca. Carni, pesce, uova, frutta e verdura: tutti da consumare!!! Ovviamente se infarinati con la farina alternativa, che sembra gesso!

In ospedale mi hanno spiegato che devo star attenta a preparare le pietanze, lavarmi spesso le mani e pulire accuratamente il piano di lavoro in cucina poiché rischio di contaminare gli alimenti e se, accidentalmente, Marcella ingerisce glutine fa del male ai suoi villi intestinali. Cosa sono questi esseri? Vivono nel piccolo intestino, conosciuto meglio con il nome di Tenue. Quando passa il cibo i villi diventano postini e recano gli alimenti decomposti lì dove servono: nel sangue, nei muscoli, negli organi… Se son bravi postini si cresce, se lavorano male sono guai! Son simili all’erba di un campo che si lascia carezzare dal vento, che soffre se viene calpestata.

Certo, l’inizio di questa nuova avventura è stato difficile poiché tornati a casa mi sono fatta prendere da un nuovo panico: la fobia delle mollichine. Sto sempre con l’aspirapolvere a portata di mano e sul tavolo un tiramolliche a batterie pronto all’uso. Guai a chi fa cadere pezzi di pane e a chi tocca del cibo non contaminato con le mani sporche di pane.

«Lavati le mani prima e dopo aver toccato il pane!» strillo a Luigi.

«E non baciare tua sorella se non lavi i denti!» aggiungo.

Sarò diventata stramaledettamente esagerata? Non devo, non posso far crescere mia figlia in una campana di vetro! È una bambina come tutte ed è soprattutto sana.

Se ho scritto queste righe è perché certe volte si pecca di egoismo credendo che il proprio male sia talmente tanto grande da non poterlo sopportare e non si pensa, invece, che c’è davvero tanta gente che soffre maledettamente per patologie gravi e affronta ogni giorno la vita con coraggio. La vita non è una strada facile da percorrere: è ostile e tortuosa, piena di cunette e dossi ed è insensato farci cogliere dal panico per talune stupidaggini, non è peraltro rispettoso per chi soffre veramente.

Se sei celiaco non ti scoraggiare, non è questo che deve farti paura nella vita! Sono siciliana e ne vado fiera ma, non me ne vogliate se dico di amare anche Parma: è la città che ha dato a mia figlia, per una seconda volta, il diritto di vivere. Serbo un bel ricordo di quest’altra splendida città e dei medici di quell’ospedale. Ho lasciato tanti piccoli angeli rincasando: qualcuno ha messo le ali, qualcun altro lotta sicuramente per sopravvivere… A loro affettuosamente va il mio pensiero.

 

Confidenze