La prima della classe fin dalla prima elementare, l’attaccante più tosta della squadra, quella sempre pronta ad alzare la mano e con la risposta giusta stretta tra le labbra al corso di lingue, la studentessa con la media più alta al primo anno di Architettura. Infatti lo sanno già tutti in Facoltà che sarò tra i cinque selezionati per la borsa di studio a Boston il prossimo anno, cinque in tutta la facoltà di Architettura, ormai è quasi una certezza. La ragazza che va a Messa ogni domenica mattina e nel fine settimana dà una mano in parrocchia. Faccio quel che c’è da fare senza mai lamentarmi, sempre col sorriso perché sì, io sono una brava ragazza. Che studia sodo e si impegna perché ha un obiettivo: laurearsi nel breve tempo possibile e lavorare allo studio di famiglia. Mamma e papà, architetti molto noti nella nostra città, hanno però voluto che studiassi lontana da casa. «Devi riuscire a farcela con la sola forza del tuo talento e dell’impegno, non grazie alla sicurezza del tuo cognome» è quello che mio padre e mia madre mi hanno ripetuto come un mantra, sempre, soprattutto quando iniziai a piagnucolare all’idea di allontanarmi dal mio mini mondo. Ma alla fine ho fatto come loro mi hanno detto. Perché voglio che siano sempre orgogliosi di me, la loro unica figlia. Perché i consigli dei genitori sono preziosi, anche quando non li capiamo o li troviamo scomodi. Perché una brava ragazza ascolta sempre gli ammonimenti paterni.
E io, Nicole, sono una brava ragazza.
Eppure…
Eppure, è accaduto.
C’erano le stelle, c’era la musica, la luna era piena e Milano odorava di libertà, successo, nevischio e prospettive.
Con mia piena consapevolezza, ho lasciato che accadesse.
Una cena tra amici, un nuovo arrivo, Giulio, amico di un’amica, che spunta dal nulla e si mette a sedere accanto a me. che inizia a parlare, che inizia a piacermi. Che ha tre anni più di me e che gestisce una cartoleria di famiglia. E io già che penso che mamma e papà non approverebbero. Perché non studia, ha un semplice diploma. E loro, per me, vogliono un compagno alla mia altezza. E mentre io penso a queste complicazioni, Giulio mi chiede il numero, io glielo do, lui mi fa uno squillo, lo memorizzo, ma prima ancora che nella rubrica lo memorizzo nella mia testa, quegli occhi blu arrivano dritti al mio cuore e da lì non se ne vanno più, neanche nelle settimane a seguire, quando Giulio passa a prendermi per un cinema, un gelato, una passeggiata col suo cane, quando sale su nell’appartamento che mamma e papà hanno comprato per me a pochi passi dal campus, perché dividere la stanza con degli sconosciuti non era contemplato. «Abbiamo parecchi soldi, tesoro. E vanno spesi bene». Ho sempre avuto tutto: viaggi, macchine, abiti firmati, scarpe e borse da capogiro, libri, bambole, fine settimana alla spa, abbonamento ai teatri, corsi di pittura, di scrittura creativa e di lingue…
Tutto. Certo, ci sono state volte in cui tutto questo sembrava soffocarmi, volte in cui avrei davvero gettato tutto in un sacco della spazzatura solo per avere in cambio un abbraccio di mamma in più, una carezza di papà in più. Ma loro c’erano davvero poco, il lavoro li assorbiva completamente.
Non è colpa loro, se sono cresciuta in compagnia della solitudine. Era proprio perché lavoravano così tanto, che io avevo tutte quelle cose, quei privilegi.
E, quindi, Giulio sale in casa mia, è la prima settimana di dicembre, ci conosciamo da qualche mese, ormai, così poco tempo, ma a me pare una vita.
È dolce, attento, Giulio misura sempre le parole, i gesti. Non si impone. Mi fa ridere. Mi fa sentire amata. Bella. Unica. Preziosa. Apriamo due lattine di bibita, non ho alcol in casa, non bevo, le brave ragazze non bevono, gli dico, e lui scoppia a ridere, rido pure io, anche se l’ho detto pensandolo seriamente, Giulio si butta sul divano ad angolo che è costato un patrimonio e dentro di me prego che non lo sporchi con la bibita, mi ci siedo accanto e poggio la testa sulla sua spalla. Dalla finestra si vedono le stelle, la luna, in un cielo indaco, rassicurante, come rassicurante è la voce di Giulio che mi racconta qualcosa di quando era bambino, un episodio divertente, mentre con una mano mi solletica leggermente la schiena, su e giù, giù e su. Un bacio. Un altro. Un altro ancora.
Poi ci stacchiamo, ci guardiamo, non parliamo, lo fanno gli occhi al nostro posto. Faccio di sì con la testa, così piano che forse Giulio neanche se ne accorge. Un ciuffo di capelli sfugge all’elastico e mi cade sulla fronte, allora Giulio lo sposta e lo sistema dietro un orecchio e sento sulla schiena brividi di freddo e di caldo, di caldo e di freddo e un desiderio che mi spaventa ma attrae allo stesso tempo.
Sono una brava ragazza, ripeto nella mia testa. Sono una brava ragazza.
E me lo dico pure mentre, mano nella mano con Giulio, raggiungo la mia camera, il letto, le lenzuola che profumano di ammorbidente, mentre Giulio mi spoglia, si spoglia, mentre chiudo gli occhi e lascio che tutto accada.
Sono una brava ragazza. Sono una brava ragazza. Quando apro gli occhi, la prima cosa che vedo è la foto di me il giorno del mio diploma, stretta tra mamma e papà. E il peluche a forma di coniglietto che gli sta accanto, quello che da bambina stringevo forte prima di addormentarmi. Giulio dorme accanto a me, il suo respiro è lento.
Mi prende il panico.
Non posso più tornare indietro.
È accaduto.
Ho lasciato che accadesse.
Mi giro su un lato, stringo forte il lembo del lenzuolo e una lacrima cade giù a bagnare il cuscino. Sono una brava ragazza, sono una brava ragazza.
A mamma ho sempre raccontato di tutto. Dei miei primi amori, delle mie cotte, delle delusioni. Tutto. Giulio è il mio primo e unico segreto. Penso di essermi innamorata così tanto da perderci il sonno e la testa. Non ci lasciamo più.
Quando, però, il mio ciclo salta il mese, tutto si ferma dentro e fuori di me. Non è possibile.
Non può accadere. Questo, no.
Eppure, accade. Manca una manciata di giorni al Natale, la mia valigia è già pronta con tutto dentro, ho dato gli ultimi due esami, due 30 e lode, come sempre, fino a quelle due linee rosa.
Getto via il test di gravidanza, lo chiudo dentro a due sacchettini perché nessuno, neanche il netturbino, possa vederlo. Torno giù a casa per le vacanze.
Giulio mi accompagna all’aeroporto.
«Tutto bene?» mi chiede prima di lasciarmi andare.
«Sì, certo» rispondo.
Non gli dico del bambino. Lo bacio, imbraccio lo zainetto, mi allontano, gli faccio ciao con la mano e sull’aereo chiudo gli occhi, sperando di non pensare troppo. I giorni a casa passano veloci, mamma e papà sempre presi dallo studio e dai progetti, io persa in quella villa silenziosa, circondata da ricordi che, non so perché, fatico a sentire ancora miei.
Quando torno a Milano, Giulio mi accoglie come solo lui sa fare, abbracciandomi, baciandomi, riempiendomi la testa di parole, racconti, aneddoti, frasi.
Io mi sento stanca, preda di una sonnolenza che non mi dà tregua. Tra una lezione e l’altra, prenoto una visita ginecologica che mi conferma la gravidanza. Sento il battito, vedo dallo schermo in bianco e nero quell’esserino che ora vive e si muove dentro di me.
«Ha deciso cosa fare, signorina?» mi chiede la ginecologa, mentre mi rivesto.
Faccio di no con la testa.
«Ha tempo fino e non oltre le 12 settimane di gestazione. Dopo, non sarà più possibile».
Annuisco. Pago la visita. Poi, in silenzio, vado via.
Mi butto a capofitto sullo studio, raddoppiando le ore sui libri. Giulio mi chiama, mi chiede di uscire, invento mille scuse pur di non farlo. Ci incontriamo di rado, gli dico che sono presa dagli esami e dalle lezioni, lui capisce, è così comprensivo, è così tenero, mi lascia libera, rispetta i miei spazi, non si mette tra me e i miei libri. Se solo sapesse…
Conto quelle 12 settimane sul calendario, sbarrando giorno dopo giorno con un pennarello rosso. Al loro scadere, mi butto sul letto e quel giorno salto per la prima volta la lezione. A marzo chiamo mamma. Fuori non è ancora primavera, su Milano la pioggia è così costante da non farci neanche più caso.
Mamma è in studio, mi dice che ha solo pochi minuti per parlare con me, ma quando mi sente singhiozzare si ferma, sento che dice qualcosa a qualcuno e che cambia stanza, sento chiudere una porta e poi lei dire, allarmata: «Che succede?». Forse si aspetta che io le dica di una bocciatura, di un brutto voto, di un carico pesante di stress, del bisogno di un anno sabbatico.
Sono queste, le marachelle delle brave ragazze.
Quello che, invece, dico, la ammutolisce.
Due parole: sono incinta.
«Di quante settimane?» è l’unica cosa che riesce a dire mamma. Le sussurra, forse ha paura di sentirne persino il suono.
«Sono al quarto mese».
Mamma capisce tutto. Capisce che l’ho tenuto. Che non ho avuto il coraggio di eliminarlo. Il giorno dopo me la ritrovo sulla soglia di casa, con tanto di trolley gigante. È mattino presto e io mi sto preparando per andare a lezione, quando sento suonare alla porta.
La prima cosa che fa mamma è guardarmi la pancia. Non si vede nulla. Sono sempre stata magrissima, nessuno finora si è accorto di niente.
Neanche Giulio.
Di lui, mamma non chiede nulla.
Non vuole sapere nulla.
Mi costringe a sedermi faccia a faccia con lei, devo andare a lezione, le dico, ma lei incalza dicendo che non è venuta a Milano per giocare al gioco dell’amica, ma per fare la madre, quindi devo mettermi seduta e ascoltare quello che deve dirmi.
«Nessuno – N E S S U N O – dovrà sapere della gravidanza».
Il mio fisico asciuttissimo la sa nascondere bene e questo è un punto a mio favore.
Questo è il piano: continuerò a studiare. Andrò avanti con gli esami e le lezioni. Quando la pancia si farà evidente, sparirò da Milano. Mamma andrà a parlare «con chi so io, non fare troppe domande», darò gli esami da esterna, senza l’obbligo di frequenza. Partorirò nell’anonimato e lascerò il bambino in ospedale. E a settembre partirò per Boston insieme ad altri quattro tra i migliori studenti di facoltà, com’era in programma che accadesse. Perché ho 20 anni. Perché un figlio ora sarebbe solo un ostacolo. Perché ho una vita piena di opportunità che mi aspetta. Perché sono una brava ragazza.
Andò così, tutto secondo i piani di mamma. Che non mi lasciò un attimo, che mi seguì agli incontri con la ginecologa, che mi strinse la mano, in quella notte di agosto, quando nacque il mio bambino. Che si mise tra me e l’infermiera che lo teneva in braccio, per impedirmi di vederlo. Giulio?
Lo lasciai all’arrivo di mamma.
«Non provo più niente» mentii.
Lo vidi andare via a testa bassa.
Lui, che mi amava tanto.
Io, che gli sarei corsa dietro.
Lasciarlo andare è stato difficile.
Rinunciare a quel bambino fu devastante. Lo sentivo muovere, scalciare, sentivo perfino quando aveva il singhiozzo. Ne intravedevo i lineamenti nelle ecografie, la notte sognavo di stringerlo tra le braccia.
«È la cosa più saggia che potessi fare, ragazza mia» mi disse un sacerdote, mentre io nascosta dalle grate di un vecchio confessionale che odorava di muffa, piangevo tutte le mie colpe. «Una famiglia se ne prenderà cura e lo amerà come fosse suo».
Ma lui, quel bambino, era mio.
E di nessun altro.
«Dimenticalo, Nicole. Pensa alla tua vita e a quello che di grandioso ti aspetta dietro l’angolo. Buttati questa brutta storia alle spalle».
Mamma è così.
Lei vede solo il bianco e il nero.
Le altre sfumature della vita non sono contemplate.
Andai avanti.
Studiai con impegno.
Diedi tutti gli esami.
Feci domanda per la borsa di studio a Boston.
Vinsi. Chiamai mamma, nel frattempo tornata giù, e glielo dissi.
«Visto? La vita è piena di porta. Hai chiuso e aperto quelle due giuste».
Quando riattaccai, sentii come un calcio alla pancia, come se il bambino fosse ancora dentro di me. E piansi, per tutto quello che avrebbe potuto darmi, per quello che io avrei potuto dare a lui.
È passato un anno da tutto questo. Il mio viaggio di studio è finito, salgo la scaletta dell’aereo pensando che tornerò in Italia con un curriculum da fare invidia a chiunque e un bagaglio di esperienze davvero notevole. Qui, negli States, ho studiato, ho visitato posti nuovi, conosciuto gente di ogni tipo, sperimentato nuovi sapori e assimilato un nuovo stile di vita. Prendo posto, allaccio la cintura, cerco di rilassarmi, quando sento una notifica sul cellulare.
Una mail. È Giulio.
Scrive che non ha mai smesso di pensarmi. Mi chiede di incontrarci. In questi mesi ci siamo sentiti ogni tanto, il fuso orario di certo non ci ha aiutato molto.
Se mi è mancato?
Tanto.
Se l’ho pensato?
Troppo.
Ma è tempo, mi chiedo, dopo tutto quello che è accaduto, ancora per noi?
Non rispondo. Spengo il cellulare e lo metto in borsa, insieme al ricordo di quel che è stato. Ricordo che viene a trovarmi ogni notte, nei sogni. Che ha il viso di un bambino che sgambetta goffo verso di me e io che lo prendo e lo sollevo tra le braccia, lo bacio sulle guance paffute e lo stringo in un dolcissimo abbraccio.
L’aereo decolla, prende quota, si infila tra le nuvole, sale sempre più su. Chiudo gli occhi ed eccolo ancora lì, quel bellissimo visino, quegli occhietti, i riccioli biondi. Una lacrima scende lungo la mia guancia.
Apro gli occhi e lui scompare. Voglio che scompaia.
Perché ho fatto la mia scelta, perché dal passato bisogna stare lontani, perché fuori da questa scatola di ferro mi aspetta una vita piena di prospettive, mi aspetta l’università, mi aspetta il mio futuro, la parrocchia, gli esami a pieni voti, le vacanze giù in famiglia, le partite di pallavolo, i viaggi, la messa la domenica, le cene con le amiche…
Mi aspetta la mia vita di sempre.
Una vita da brava ragazza.●
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Testo pubblicato su Confidenze 46/2025
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