Di quel giorno ricordo tutto

Cuore
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Di quel giorno ricordo tutto. Era quasi Natale e finalmente avrei visto il mio bambino! Sapevo che era ancora piccolo come un pesciolino, ma era già diventato il mio bambino

Storia di Emma raccolta da Maria Luisa Righi

Di quella giornata ricordo tutto: il cielo gonfio di nubi grigie, la macchina che non partiva, il cellulare scarico, il mio veloce risalire le scale, aprire la porta, svegliare Marco, tranquillizzare Birba che vedendomi rientrare saltava e abbaiava dalla gioia: «La passeggiata al parco la facciamo dopo, fai la brava». Attraversare la città mentre inizia a piovere, con lui che mugugna e io che mi metto a cantare: «Piove! Madonna come piove, senti come viene giù», strappandogli un sorriso; la sua mano che si insinua tra le mie cosce, affettuosa. In clinica arrivammo puntuali, Marco andò al bar a fare colazione mentre Elisa, l’infermiera dai capelli rossi, m’invitava a entrare per l’ecografia. Finalmente avrei visto il mio bambino! Sapevo che era piccolo come un pesciolino, che aveva iniziato da sole dodici settimane la sua corsa verso la vita, che si stavano formando le palpebre e pesava meno di 20 grammi, ma era già diventato il mio bambino. Quello che salutavo appena sveglia, la creatura cui parlavo durante il giorno e che suo padre cercava di contattare con l’orecchio appoggiato sulla mia pancia. Presente e amato. Vincenzo è il mio ginecologo oltre che amico di famiglia: mia sorella lavora in reparto con lui, mio marito gioca a pallone con lui e mia madre lo ha avuto come studente al liceo. È un uomo simpatico, sempre pronto alla battuta, gli occhi chiari che ridono prima della bocca: «Speriamo somigli a te. E, se maschio, che giochi meglio di suo padre» disse, facendomi sdraiare sul lettino; il rumore dell’ecografo, così simile al ribollio di un minestrone, cominciò subito. Aspettavo con gli occhi chiusi di sentire il battito del mio bambino ma niente, sollevai la testa per chiedere come mai ma mi bastò incrociare lo sguardo di Vincenzo per capire. «Emma, mi spiace… si è fermato tutto».
Di quella giornata ricordo ogni cosa, l’alito caldo di Marco sul mio viso, la mano forte del ginecologo che stringeva la mia, lo sguardo triste dell’infermiera e quel vuoto spalancato che stava risucchiandomi. Avere un figlio, ma anche due, tre, quanti ne arrivavano, era nei nostri progetti di coppia, anche se i figli non arrivavano. Sapevo che fissandomi sul problema avrei peggiorato le cose, per cui rimandai ogni indagine clinica ai miei 34 anni, la stessa età che aveva mia madre quando restò incinta di mio fratello, primogenito, cui mi aggiunsi io dopo tre anni. Mi piaceva pensare che avrei fatto come lei, del resto il mio negozio di articoli sportivi assorbiva tempo e spazio, cui si aggiungeva il volontariato presso il canile municipale (da dove arrivava Birba). Le analisi non evidenziarono anomalie di nessun tipo, l’ecografia transvaginale aveva rilevato il pieno funzionamento delle ovaie, la biopsia dell’endometrio non rilevò nessun problema. Anche Marco si sottopose a varie indagini e la quantità e motilità dei suoi spermatozoi divenne argomento su cui vantarsi con gli amici: erano perfetti.

A settembre capii che l’attesa era finita, me ne accorsi quando Birba appoggiò la sua testolina sul mio ventre emettendo un ululato carico di allegria. «Forse ci siamo» sussurrai a Marco prima di addormentarmi, lui rispose con un sorriso che prometteva una notte perfetta.
«Questi eventi sono molto più frequenti di quanto si immagini, recenti studi indicano che circa un terzo delle gravidanze termina con un aborto spontaneo». Vincenzo parlava da medico e da amico, snocciolava dati e statistiche che avevano su di me un effetto soporifero, chiudevo gli occhi senza pensieri o risposte. Dormire era la mia risposta.
Era quasi Natale. Dopo le feste passate a letto con la scusa di una forma influenzale inesistente, Marco mi portò da una psicoterapeuta, le sedute settimanali sortirono un effetto benefico, non foss’altro per i pianti liberatori che a casa non riuscivo a fare. Ci vollero sei mesi per riemergere da quel buco nero, lo stesso tempo che Freud elencava per l’elaborazione di un lutto; Birba fu grandiosa nel seguire il mio percorso con attenzione, presenza, calore: un’autentica terapeuta del dolore.
«Perché non vai a Urbino da tua zia Dina?» propose mio marito preoccupato per una forma di anoressia apparsa dopo l’uscita dal periodo nero: «Se non riesce a farti mangiare lei dovremo affrontare il problema seriamente…».
Zia Dina è la sorella di mia madre, dodici anni fa rimase vedova, senza figli e con un sogno nel cassetto che realizzò all’alba dei suoi 65 anni: vivere in un casolare con animali e frutteto, lo scelse nel paese umbro, dove andava in ferie con zio Carlo, lasciò tutto senza rimpianti. La raggiunsi in un caldo pomeriggio di fine giugno, Birba al seguito, su richiesta esplicita della zia. Mi accolse con un abbraccio avvolgente. E prima di andare a cena mi fece vedere il pollaio dove raccolse tre uova fresche: ogni gallina aveva un nome come i tanti gatti e i tre cani che condividevano quell’angolo di paradiso. Ero preoccupata per la mia cagnolina di città ma dopo alcune rimostranze di Mirò (doverose visto il suo ruolo di capobranco lupoide) tutto si appianò.
«Voglio stare con te, qua, per sempre» le dissi il giorno prima del previsto ritorno a casa.
«Non dire scemenze» borbottò, accomodandosi sulla poltrona. «Devo raccontarti una storia che non ho mai raccontato a nessuno, neppure a tua madre: avevo 27 anni quando rimasi incinta per la prima e unica volta, tuo zio era pazzo di gioia, io ero in uno stato di totale beatitudine, diciamo che più che camminare, volavo. Era aprile, la pancia cominciava a vedersi bene, quattro mesi di crescita perfetta. Venerdì santo, Carlo arrivò con un uovo di Pasqua gigantesco, io ridevo tenendomi la pancia. E poi quella fitta, una pugnalata sui reni, di corsa in bagno, le cosce sporche di sangue. L’intervento si mostrò da subito complicato e tornai a casa senza più possibilità di avere figli. Basta. Non aggiungo altro ma puoi credermi quando ti dico che conosco il tuo dolore, ma non giustifico la tua resa».
Gran donna, mia zia. Al ritorno ho preso contatto con una onlus, che si occupa di adozioni a distanza. Ci sono bambini che potranno nutrirsi, studiare e sperare in un futuro migliore, anche grazie al nostro contributo. I miei bimbi sono loro.

Pubblicato su Confidenze 01/2016

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