Dietro la mascherina

Cuore
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“Dietro la mascherina” perché ci racconta le difficoltà che viviamo quotidianamente e ci lascia un lieto fine a cui molti non credono più, scrive Stefania sulla pagina Facebook. Vi riproponiamo la storia vera più apprezzata del n. 9 di Confidenze

 

La convivenza forzata durante la pandemia ha svelato il vero volto di Simone, o almeno un aspetto del suo carattere che non conoscevo. Per fortuna potevo sfogarmi con qualcuno che mi capiva e che sentivo vicino

STORIA VERA DI MARTA L. RACCOLTA DA BARBARA BUSINARO

 

Che questo fosse un anno particolare lo sapevo, anzi ci speravo, perché doveva essere quello del mio matrimonio. Con tre anni di convivenza dopo quattro di relazione, il rapporto con Simone era abbastanza stabile e solido per costruire una famiglia nostra. Durante le feste natalizie, genitori, zii e cugini si erano avvicendati a chiederci cosa stessimo aspettando ancora, così la sera di Capodanno, complice un calice di troppo di spumante, me l’aveva sussurrato all’orecchio.

«Sposiamoci» mi aveva detto Simone con uno sguardo luccicante di passione.
Avevamo già visitato un paio di ristoranti rinomati per i pranzi di nozze e stavamo considerando alcune date. Impresa non facile, visto che dovevamo mettere insieme i nostri impegni lavorativi con le date disponibili per la chiesa e per il banchetto, senza dimenticare il viaggio in luna di miele. Ma poi è arrivata la chiusura di tutta la nazione e un virus giunto da lontano ha interrotto i nostri progetti.

Di più, ha sconvolto le nostre vite.
Dalla sera alla mattina ci siamo ritrovati asserragliati in casa, a lavorare e rilassarci negli stessi 80 metri quadrati che prima ci sembravano perfetti per noi due e all’improvviso erano diventati strettissimi, quasi claustrofobici. Per fortuna il lavoro non ci mancava: sono impiegata presso un corriere internazionale e le richieste erano decuplicate; tutto quello che non si poteva acquistare nei negozi chiusi veniva comprato su Internet chiedendo la spedizione a domicilio.

Anche noi ordinavamo la spesa a casa dal vicino supermercato, una comodità che garantiva maggior sicurezza a tutti. Simone si era attrezzato in sala da pranzo e seguiva il suo reparto commerciale attraverso videoconferenze che avevano sostituito le riunioni in presenza con i clienti. Io avevo organizzato una postazione utilizzando un minuscolo tavolo nella stanza utilizzata come lavanderia e sgabuzzino. Il davanzale luminoso della cucina, dove tenevamo la macchinetta espresso, era diventato l’angolo per la pausa caffè e per fare due chiacchiere.

Per fortuna i nostri genitori stavano bene: con quelli di Simone viveva il fratello minore, ancora studente universitario, praticamente il cocco di casa. Mio padre invece aveva imparato a usare le videochiamate meglio di me e si contendeva lo schermo con mia madre.

Era tutto difficile, ma eravamo speranzosi di uscirne rafforzati. Simone e io potevamo stare più tempo insieme, goderci serate tranquille sorseggiando un bicchiere di vino o godendoci la visione di un film rimandata da mesi. L’avevamo presa come una sospensione temporanea dalla frenesia di tutti i giorni, consapevoli di essere fortunati perché alcuni nostri amici se la dovevano vedere con le serrande abbassate, se avevano un’attività commerciale, o erano in cassa integrazione, e per loro la situazione era davvero pesante.

Ma l’idillio è durato poco, proprio come l’illusione che saremmo tornati alle nostre abitudini in poche settimane.
Simone era diventato scontroso e litigavamo spesso, anche per cose futili. Il disordine del nostro appartamento, che all’inizio sembrava quasi un atto creativo, era diventato solo caos fastidioso dovuto alla mia negligenza nelle pulizie e nell’organizzazione domestica. «Non si riesce a trovare mai niente in questa casa!» ripeteva Simone rovistando tra i suoi documenti dove peraltro non mettevo mai il naso. Piuttosto era lui a fare confusione tra le mie cose di lavoro pensando di trovarci il suo prezioso materiale.Tutte le volte che la connessione di rete saltava, interrompendo le sue videoconferenze, si precipitava a controllare il mio computer accusandomi di boicottargli la carriera. D’altra parte, io non riuscivo a sentire i miei fornitori al telefono perché la sua voce tonante attraversava senza sforzi la porta chiusa.

Era abituato a mangiare a pranzo al ristorante con colleghi e clienti, e qualche volta anche la sera con gli amici dopo le partite di calcetto, e si lamentava della qualità dei miei pranzi. Ma io non avevo tempo per giocare a “Masterchef”. Però non mi aiutava in nulla e anche svuotare la lavastoviglie diventava un affare di stato. Nemmeno a cena si parlava più, si presentava a tavola leggendo sul tablet e, se cercavo di chiacchierare, mi zittiva infastidito. «Speriamo che finisca presto, ho davvero bisogno del mio ufficio» dichiarava mesto.

In realtà era teso perché gli affari languivano: i clienti avevano bloccato ordini già sottoscritti, o ritardavano a pagare le consegne, o non erano disponibili a impegnarsi con nuovi acquisti in un momento così incerto per i consumi. E visto che non poteva nemmeno sfogare la sua frustrazione in palestra, divenni io il suo punching ball, ma gli volevo troppo bene per difendermi e restituirgli i colpi. In mezzo a tutto questo, stranamente, ricevevo un po’ di sollievo e allegria dalle quotidiane conversazioni di lavoro. In azienda la mia scrivania guardava quella di Davide: ufficialmente era il mio diretto superiore, ma era più vecchio di me solo di sei mesi, aveva un modo di fare da ragazzino e ci trattavamo da colleghi alla pari. Lavoravamo insieme da circa otto anni e mi piaceva come rimaneva calmo e positivo in mezzo alla tempesta.

La nostra confidenza era cresciuta qualche settimana prima di Natale quando Davide era stato lasciato dalla fidanzata storica, apparentemente senza un motivo valido. L’aveva anche incrociata un sabato pomeriggio in centro: lei era in compagnia di un altro ed erano abbracciati stretti mentre camminavano nelle vie illuminate per le feste. Messi alle strette, gli amici gli avevano rivelato che lo sapevano da un po’.

A quel punto Davide era crollato.
Era arrivato il lunedì mattina in ufficio con gli occhi arrossati e lucidi. «Sono proprio uno stupido, non mi sono accorto di niente. Eppure i segnali c’erano, erano evidenti sotto il mio naso. Ho creduto alla sua stanchezza, ai continui impegni, ho creduto che avesse bisogno dei suoi spazi, e invece si incontrava con lui».

I nostri ruoli così si erano invertiti: lui era diventato triste e taciturno, mentre io lo spronavo a guardare avanti, a sorridere alle cameriere del bar dove pranzavamo insieme, a uscire per l’aperitivo con le impiegate del marketing in cerca di svago e nuova compagnia. Mi sentivo in colpa perché con Simone avevo un rapporto solido, mentre lui aveva visto il suo infrangersi all’improvviso. Gli avevo annunciato il mio matrimonio e Davide aveva recuperato parte del suo ottimismo, ma nel suo sguardo avevo colto un velo di malinconia quando pensava di non essere osservato.

Doveva essere davvero tremendo per lui ritrovarsi chiuso in casa da solo dopo una separazione così dolorosa, ma non lo diede mai a vedere. Anzi, le nostre videochiamate lavorative durante il lockdown erano intervallate da bizzarre confessioni personali.

«Allora, come sta andando con la tua nuova fiamma? Elisa, giusto?» gli chiedevo per punzecchiarlo.
«No, con Elisa niente da fare, non c’è proprio feeling, qualsiasi cosa dica o faccia non le sta mai bene. Non ti ho raccontato di Samantha, mi ha chiamato l’altra sera e voleva fare sesso online al nostro primo appuntamento virtuale. Mah… Non so se ho ancora pazienza per le donne!» mi rispondeva divertito, ancor di più vedendo la mia espressione attonita dall’altra parte.

Un mattino che era iniziato con una litigata furiosa con Simone a colazione, mi chiusi nella mia stanzetta che faceva da ufficio e sfogai tutte le mie lacrime di frustrazione. Al telefono, Davide si accorse subito che qualcosa non andava dal tono rauco della mia voce. Mi obbligò a passare alla videochiamata e così non potei più nascondere il mio viso congestionato. Gli spiegai ogni cosa, ogni parola, ogni preoccupazione. «Non è più la stessa persona, non lo riconosco, sembra un animale in gabbia». Cercò di tranquillizzarmi dicendomi che tutto sarebbe tornato a posto in breve tempo, occorreva solo pazienza. Mi confessò che anche per lui era un momento di profonda riflessione, la situazione straordinaria metteva in dubbio le sue scelte passate. «Non so, forse ho sbagliato tutto. Magari dovrei finalmente accettare quella promozione. Ho sempre rimandato per amore di lei: non le piaceva l’idea che tornassi tardi ogni sera, o che addirittura qualche notte dormissi fuori».

Per consolarmi mi fece notare che lui era rimasto da solo mentre Simone viveva ancora con me, pronto a sposarsi nonostante le ansie per il futuro. Al solito fu molto convincente e riuscì persino a farmi ridere raccontandomi malissimo una barzelletta.

Quella stessa sera poi Simone aveva ordinato un’intera cena gourmet con consegna a domicilio per farsi perdonare: le nuvole così sembravano essersi dissolte, lasciando spazio a un cielo stellato.

Eppure quando era terminato il primo lockdown e avevano riaperto molte attività, la ripartenza si era trasformata per me in qualcosa di ben diverso. Simone aveva preparato le valigie: credevo fosse per una trasferta lavorativa, visto che i clienti reclamavano nuovi acquisti, invece all’ultimo momento mi disse che mi stava lasciando. Andava a stare da un amico in attesa di trovare un appartamento tutto suo: sarebbe venuto a prendere il resto delle sue cose più avanti.

Rimasi senza parole, choccata di fronte a un film che non capivo. Continuò spiegandomi che la convivenza forzata, sommata al pericolo di perdere il posto e magari anche la vita a causa del virus, lo aveva fatto riflettere su quello che voleva davvero per se stesso. Nella sua nuova visione io non ero più compresa. Mentre altre coppie intorno a noi si erano rinsaldate riscoprendosi innamorate in un momento difficile, la nostra si era sfasciata. Così toccò a me arrivare in ufficio con gli occhi arrossati e lucidi.

Fu stranissimo rientrare nel mondo civile cambiato totalmente da come lo ricordavo. Si doveva fare la misurazione della temperatura all’ingresso, la mascherina sempre addosso, il gel disinfettante per le mani a ogni porta, la distanza sociale di almeno un metro, e tutto il resto. Salutai i colleghi nell’atrio dell’azienda, non li vedevo da mesi ed eravamo tutti emozionati di ritrovarci: alcuni di loro avevano perduto un familiare o un amico stretto e il lutto segnava le loro facce stanche.

All’entrata del nostro ufficio incrociai Davide che mi attendeva con il suo sguardo entusiasta. Ero sicura che dietro la mascherina chirurgica ci fosse il suo sorriso sincero di sempre.

«Sai di cosa avrei bisogno adesso? Di un abbraccio». La mascherina gli scivolava mentre parlava.
«Anch’io. Ma non si può» gli risposi triste. «Già».

Passò un mese e l’estate si aprì in tutta la sua bellezza, come se il virus non fosse mai esistito, a parte il fatto che indossavamo ancora le mascherine. Simone era passato da casa nelle mie ore di lavoro per prendere i vestiti rimasti e qualche oggetto, ma niente di più. Le rispettive famiglie avevano preso malissimo la sua decisione. I suoi genitori avevano tentato di fargli cambiare idea e mi chiamavano per confortarmi dicendomi che il suo malessere era temporaneo, dovuto soprattutto al momento critico che stavamo attraversando tutti quanti. Io non sapevo cosa aspettarmi dal futuro: se sperare in una rappacificazione, o considerare chiusa definitivamente la nostra storia e trovare una nuova sistemazione, ricominciando da capo in una casa diversa.

Una mattina Simone mi inviò una mail: aveva trovato un mini appartamento in affitto e allegava una lista di quello che avrebbe portato via nel fine settimana dal nostro vecchio nido d’amore. Nell’elenco era compresa anche la poltrona che mi aveva regalato per il compleanno. Fu atroce, come uno schiaffo in pieno viso.

Avevo voglia di tornare a vivere e a sorridere, ma ritrovarmi single alla mia età dopo una lunga relazione era un brusco risveglio. In più c’era il dramma della pandemia: la distanza sociale non favoriva le nuove conoscenze e le restrizioni ancora in vigore limitavano i viaggi e le occasioni di spensieratezza.

Davide stava già sperimentando questa sensazione di impotenza da qualche mese. Adesso eravamo tutti e due soli circondati da amici accoppiati, qualcuno anche con figli piccoli o in dolce attesa, e ci sentivamo abbandonati, con il morale sotto i tacchi.

Un venerdì sera, mentre stavamo spegnendo i computer in ufficio e raccogliendo le nostre cose, Davide sbuffò all’improvviso. «Ho voglia di mangiare fuori, di un po’ di normalità, mascherina a parte s’intende. Mi piacerebbe una bottiglia di buon vino e chiacchierare in compagnia. Lo so che sei stanca di vedermi» aggiunse sorridendo, «ma non so a chi altro chiedere…».
Quando si accorse della mia titubanza, specificò subito: «Un’uscita tra amici, si intende. Vecchi amici».
Fu una serata magnifica, a cui ne seguì un’altra, e un’altra ancora. Uscivamo quasi tutti i fine settimana per una cena o un aperitivo lungo.

Finché una sera, brilli un po’ più del solito, arrivati davanti al mio portone Davide si è sfilato la mascherina, si è avvicinato ben più della distanza concessa, ha abbassato la mia mascherina e mi ha baciata.

Sembrava un’altra persona, come se avesse tenuto segreta una parte di sé fino a quel momento. E anch’io rimasi sorpresa della mia reazione e dovetti farmi forza per staccarmi da lui, dal suo abbraccio caldo e sicuro. Mi diede un secondo bacio lieve dandomi la buonanotte per poi andarsene velocemente, lasciandomi lì attonita.

Non riuscii a chiudere occhio quella notte. Il giorno successivo, presa dal panico di un eventuale contagio, gli mandai un messaggio vocale nel quale gli chiedevo di smettere di uscire, almeno per un po’ di tempo, per chiarirci le idee. Dopo nemmeno mezz’ora,
Davide si presentò davanti alla mia porta «ORA di casa, lo sguardo assonnato, la barba sfatta e i capelli arruffati. Gli spiegai che
dovevamo troncare subito perché eravamo entrambi reduci da lunghe relazioni e lui era anche il mio superiore.

«Vuoi dire che è questo il problema?» mi chiese severo.
«Sì, direi di sì» ammisi a denti stretti. Avevo paura di perdere anche lui. Uscì senza dire altro, sbattendo la porta.
Il lunedì successivo, quando entrai nel nostro ufficio vidi Davide riempire uno scatolone per liberare la sua scrivania. Il mio cuore perse colpi e mi sentii mancare. «Te ne vai? Ti sei licenziato?».

Sorrise. «Non proprio, ho accettato la promozione e mi trasferisco di ufficio. Sarò nel padiglione a fianco».
Per me significava comunque che aveva scelto di allontanarsi da me e perdevo un amico. «Ora non siamo nemmeno più colleghi» mi disse avvicinandosi. «Ma potremmo diventare congiunti». Si tolse la mascherina, lentamente sfilò anche la mia e mi baciò di nuovo. Mi mancò il terreno sotto i piedi. Il mio cuore stava volando.

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