Fate piano è Natale

Cuore
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“Fate piano è Natale”, selezionata da ConfyLab e pubblicata sul n. 52 di Confidenze, è una delle storie vere votate sulla pagina Facebook questa settimana. Ve la riproponiamo sul blog

 

Quest’anno ho fatto ai miei figli il dono più prezioso che ho: il tempo. È bastato vedermi attraverso i loro occhi per capire che la mia corsa continua a fare meglio e più in fretta, alla fine è solo una perdita. Di emozioni preziose

Storia vera di Sabrina De Bastiani

 

L’anno era stato difficile, la stanchezza  tanta. Il mio lavoro di impiegata in una ditta di componenti elettronici  aveva visto un massiccio incremento dell’attività da svolgere, a fronte di un’improvvisa crescita aziendale che aveva colto un po’ tutti impreparati, compresi i piani alti. La struttura si era rivelata inadeguata a gestire quella nuova fase esplosiva di aumenti degli ordini e di espansione sul mercato.

In pratica, eravamo pochi e facevamo i salti mortali, adeguandoci anche a mansioni per le quali non avevamo una preparazione specifica. Era dura per tutti, ma io sentivo il peso di ogni minuto sottratto alla mia famiglia, pur sapendo che sulla salute della mia ditta poggiavano il benessere e la sicurezza dei miei cari e delle famiglie dei colleghi.

Me lo ripetevo costantemente, osservando il mio volto segnato allo specchio ogni mattina, oppure spiando il cielo cambiare colore dalla finestra accanto alla mia scrivania, sempre più ingombra di carte.

Avevo imparato anche ad assemblare più azioni contemporaneamente, in un collage che sembrava invadere ogni aspetto della mia esistenza. La telefonata per informarmi sulla salute della zia anziana poteva incastrarsi perfettamente coi tempi del mio viaggio verso il lavoro, oppure durante il ritorno a casa. Magari con un orecchio rivolto anche alle news del giornale radio. Durante le mie brevissime pause pranzo, rispondevo ai messaggi degli amici, ogni minuto, insomma, veniva saccheggiato nella frenesia costante di spuntare voci da un ipotetico elenco di cose da fare. Con il risultato di sentirmi comunque sempre in ritardo, su tutto.

Una fila di giorni tutti uguali scandivano le settimane e i mesi, che si avviluppavano in una routine fatta di gesti e azioni ripetute, stile tappe a cronometro: sveglia – colazione – vestirsi – corri all’asilo – corri al lavoro – spesa – cena – dormire.

 

Dormire… piuttosto ore di pensieri e propositi per fare meglio, per fare di più, per ottimizzare il tempo.

Di soppiatto, in tutto questo affanno, dicembre era arrivato.

Era da subito dopo l’estate che i miei bimbi chiedevano ogni due per tre: «Mamma, ma quando è Natale?». Quella mattina nello svegliarli, oltre al consueto: «Su sbrigatevi che faremo tardi» aggiunsi, a incentivare la velocità di esecuzione delle incombenze, un allegro: «Forza che oggi è dicembre e potete iniziare a pensare ai preparativi per Natale».

Finalmente tutte quelle pigne raccolte nei boschi, quelle foglie – «Mamma, vedrai che belle quando ci spruzzeremo sopra la neve finta» – avrebbero avuto un senso e fornito un’occupazione nei pomeriggi a venire.

Da lì si susseguirono file di giornate che cominciavano con: «Sbrigatevi, presto, devo andare… ora no, semmai dopo». E questa frase era ripetuta a più riprese fino alla sera; anche più spesso dei «ti voglio bene», che pure non mancavano.

Finché un pomeriggio, dopo aver ritirato i bimbi all’asilo, mentre andavamo a fare la spesa, i piccini, ritenendo di non essere abbastanza lesti o comunque per un gioco tra loro, cominciarono a dirsi: «Come sei lento, sbrigati, fai più veloce» corredando queste parole di sbuffi, occhi alzati al cielo e gesti spazientiti.

Ero io. Stavano imitando me.

In un flash vidi i loro giochi, i loro gesti, le loro espressioni. Mi resi conto che persino la pubblicità alla tivù, che prima li catturava con jingle, colori e nuovi giocattoli – che diventavano immediatamente fondamentali da avere –  aveva preso a infastidirli, ma solo, e ancora, perché “fa venir tardi”.

L’immagine di me stessa che vedevo come in uno specchio attraverso i loro occhi, mi aggredì inaspettatamente di tristezza infinita.

Rientrati a casa, mentre cucinavo, non riuscivo a smettere di pensare a quanto stava accadendo sotto i miei occhi.

Era quella l’idea di famiglia che avevo cullato nei miei sogni di ragazza? Mentre sistemavo le posate in tavola sulle tovagliette all’americana, più rapide da pulire, e sceglievo distrattamente tra le confezioni incellofanate dei prodotti acquistati al supermercato che riempivano i ripiani del mio frigorifero, iniziai a tornare con la mente ai giorni più lontani della mia vita. Frugavo nella memoria e apparivano immagini sbiadite, imprecise, che mi regalavano però un calore che non sentivo più da tempo. Da troppo tempo.

Cosa c’era di diverso? Cos’ era cambiato?

È stupefacente come a volte le risposte ci si parino davanti all’improvviso. Come basti guardarsi attraverso gli occhi di altri perché tutto si faccia chiaro. Ciò che sembrava ovvio e logico appariva per quello che in realtà era: una perdita, non di tempo ma di vita.

 

Il giorno dopo nevicava. Tutto fermo, tutti a casa. Fu relativamente facile per me assecondare il ritmo lieve della neve che scendeva. Come se anche il cielo avesse voluto darmi una mano.

Ci mettemmo a decorare l’albero di Natale. Ogni pallina, ogni decoro da appendere, necessitava di uno studio approfondito, di più spostamenti in base alla forma, al colore, a chissà quale bambinesco criterio di osservazione del mondo. Cosa che io avevo disimparato a fare prima di ricominciare grazie a loro, osservandoli.

A un tratto era scuro, quel buio di metà pomeriggio d’inverno, e i bimbi guardandosi e guardandomi interrogativi e vagamente turbati chiesero: «È tardi mamma? Dobbiamo sbrigarci?».

Avevo in testa tutte le cose ancora da fare, lasciate indietro e avrei dovuto (voluto?) dire: «Sì, muoviamoci». Ma, mentre mi fissavano aspettando la mia risposta, ho pensato che avremmo potuto proseguire con lentezza, ancora per un po’, e dissi invece: «No, abbiamo tutto il tempo» a tre faccine che si accesero di gioia.

Rimanemmo lì ancora un paio d’ore a spostare palline e mettere luci, a ridere, raccontare storie, ma anche restando in silenzio ammirando il nostro albero; che non è mai stato così bello come quella volta che ci regalammo del tempo.

Ogni giorno da lì in poi abbiamo continuato a regalarcene un po’, senza fermarci, ma imparando a camminare, non solo a correre più veloce. Perché in fondo non è obbligatorio arrivare a tutto sempre. Ma è meraviglioso arrivare sempre al cuore, ascoltare il proprio e quello di chi amiamo. L’unica musica che rende la vita degna, davvero.

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