Il regalo più bello

Cuore
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“Il regalo più bello” di Maurizio Riboldi, pubblicata sul n. 28 di Confidenze, è una delle storie più apprezzata della settimana sulla pagina Facebook. Ve la riproponiamo sul blog

 

Qualche volta basta sfiorare la vita di una persona per sentire quanto vale. A me è successo, con un breve incontro, in ambulatorio: ho capito che ci sono momenti che danno un senso al mio lavoro di medico

Storia vera di Luigi T. raccolta da Maurizio Riboldi

 

La intravedo tra la gente in coda allo sportello dei pazienti a pagamento, quel viso ha qualcosa di familiare, credo di averla già incontrata ma potrei sbagliarmi, il mio lavoro mi porta a contatto di tante persone.

Lei si volta e mi vede, sorride, mi raggiunge e improvvisamente ricordo: era la badante straniera di una mia paziente anziana che visitavo ogni tanto a domicilio, anni fa.

«Dottore, che fortuna, stavo cercando proprio lei». Il suo italiano un po’ stentato, la cadenza tipica di chi viene dall’Est. «Tania, quanto tempo!».

La prima volta che l’ho incontrata ero rimasto molto colpito: di corporatura abbastanza robusta, aveva però un modo aggraziato di muoversi e maniere gentili. Mi ero sentito persino a disagio per l’accoglienza troppo ossequiosa, come se io, per la mia posizione, fossi qualcosa in più e lei qualcosa in meno.

Ancora giovane e carina, aveva un’aria malinconica: i suoi occhi, azzurri con un’ombra di grigio, non brillavano, e sembrava non l’avessero mai fatto. Mi aveva preceduto verso la camera della mia paziente dicendo: «Dottore venga, la porto dalla mia nonnina».

La mia nonnina. Detto con un tono affettuoso, detto con amore. Lo stesso amore con cui, una volta dentro, le aveva sorriso, accarezzato la testa e sistemati i capelli. «Nonna, ecco il dottore, ora ti visita».

Ero rimasto a guardarla mentre, con grande delicatezza, le slacciava i bottoni della camicetta e, sostenendola con una mano dietro la nuca, l’aiutava a coricarsi. La mia paziente aveva un unico figlio che abitava in un’altra città. Tania da sola l’assisteva, non solo per le necessità di tutti i giorni, ma anche come infermiera, controllandole polso e pressione e somministrando le medicine ai precisi orari in cui erano state prescritte. Così, alla fine della visita, si era annotata le mie osservazioni, per riferirle al medico di base.

Ora che la rivedo, ci stringiamo la mano tra la gente in sala in attesa: «Tania, perché cercava proprio me? A pagamento, oltretutto».

«Ho passato una brutta influenza, dottore, e mi hanno detto di fare una visita cardiologica in fretta» risponde timida, quasi imbarazzata: «E lei è il più bravo».

Non è vero, naturalmente, però so che avere fiducia nel medico è importante. «Ma perché una visita a pagamento?» insisto. In effetti, la mia prima data libera per una visita con il Sistema Sanitario è fra tre mesi e mi sento in colpa, anche se non dipende da me. Ma una visita a pagamento è un impegno troppo oneroso per lei che ha un lavoro impegnativo e malretribuito e, come mi ha raccontato in occasione di una delle mie visite, manda i soldi a casa alle due figlie. Cercando di non farmi troppo notare, la tolgo dalla fila invitandola a seguirmi. «Venga, facciamo intanto la visita, andrà dopo a pagare».

Prima di fare stendere il paziente sul lettino, è mia abitudine ascoltare la sua storia: credo ancora nell’importanza di una buona anamnesi. È anche un modo per farlo sentire a suo agio.

Così, seduti uno di fronte all’altra, la invito a spiegarmi il motivo della visita.

Lei, con voce tranquilla e tentando palesemente di minimizzare, mi racconta della sua influenza e delle complicanze polmonari nonostante le quali non si è potuta concedere il lusso di mettersi a letto. «Perché non potevo lasciare sola la nonna». Il figlio, infatti, non era mai passato, per evitare di contagiarsi, e qualcuno doveva pur occuparsi di tutto.

La sua preoccupazione maggiore non è la malattia («Dottore, ne ho passate di peggiori, nella mia vita»), ma il fatto di non essere più in condizione di poter lavorare, di compiere gli sforzi fisici che il suo incarico richiede. Se non sarà più in grado di badare alla signora, perderà il lavoro.

«La nonna mi vuole bene e non vorrebbe mai, ma chi paga una badante che non può fare ciò che deve?». E la sua famiglia ha bisogno di quei soldi.

La sua famiglia. O ciò che ne è rimasto. Ricordo il giorno in cui, finita la mia visita alla nonna, si era lasciata andare: forse per sentire una risposta che, per una volta, non fosse soltanto l’eco delle sue parole riflessa dalle pareti di una stanza. Forse, per ricevere un po’ di conforto, lei abituata a darne.

 

C

ome tante altre, Tania, per poter crescere i figli, ha dovuto lasciare la casa, il Paese e gli affetti per trovare altrove un lavoro che nessuno ha più voglia di fare. Rimasta incinta prima dei 20 anni, aveva avuto due gemelle e si era sposata. Pochi anni in cui lei, sola, sgobbando da mattina a sera, aveva consentito a tutti di tirare avanti: il marito, infatti, un ubriacone violento, se n’era poi andato. Così, per guadagnare qualcosa in più, lei era venuta in Italia lasciando le figlie a una sorella. Ricordo le sue parole: «… perché voglio che a loro non manchi nulla, che abbiano tutto ciò che gli altri hanno, o dovrebbero avere».

E ora la guardo, mentre racconta e gli occhi le si inumidiscono. «Mi scusi tanto, dottore».

Poi prende un fazzoletto e li asciuga. «Le mie ragazze studiano e vorrei che andassero all’università» sorride, chiude gli occhi e tace, io penso che, forse, sta accarezzando un sogno. Poi li riapre e fa cenno di no con il capo: «Davvero, dottore, io non posso ammalarmi, mi dica che non ho niente».

La faccio stendere sul lettino per l’elettrocardiogramma. Non ha niente, per fortuna: la brutta influenza con broncopolmonite passata in piedi senza il minimo riguardo per se stessa le ha lasciato una profonda spossatezza e il fiato corto, ma nulla di preoccupante.

«Con il tempo e un po’ di riposo si ristabilirà, stia tranquilla».

C’è gioia, nei suoi occhi, mentre si riveste e mi ringrazia, prende la mia mano tra le sue e la sfiora con un bacio, e io mi sento in imbarazzo. «Signora, io non ho fatto nulla». La invito a sedere e scelgo, dall’armadietto dei medicinali, integratori, vitamine e altri preparati che possono aiutarla, ciò che mi lasciano gli informatori farmaceutici; riempio un sacchetto. «Provi con questi». Ancora mi prende la mano e mi ringrazia, non vuole accettarli. «Signora, sono campioni gratuiti, li prenda».

Scrivo il referto della visita, glielo consegno, abbiamo finito. Scambiamo ancora due parole poi lei si alza e allunga la mano verso il tagliando che le hanno rilasciato all’atto della prenotazione della visita. La precedo, afferro il documento e lo cestino. Mi guarda, stupita. Le sorrido. «Siamo a posto così, signora».

«Assolutamente no, dottore, io voglio andare a pagare». Lo dice con tono deciso, tanto che mi chiedo se io, in questo modo, non l’abbia in realtà umiliata.

«No! Mi creda, va bene così, mi faccia sapere più avanti come sta».

Protesta ancora, prende il portafoglio dalla borsetta. «Allora do i soldi a lei».

Fa per estrarre un biglietto da 50 euro ma la fermo. «Signora, non li voglio».

Insiste: «Dottore, li prenda, per favore».

Ma sono irremovibile.

Ciò che accade nell’attimo successivo è la migliore parcella che un medico possa ricevere, e dà un senso a questo mestiere; scoppia a piangere e mi abbraccia, singhiozza: «Nella mia vita non ho mai ricevuto un regalo così». Si stacca, mi guarda con un lampo di felicità negli occhi che, improvvisamente, la rendono bellissima, le restituiscono tutta la sua giovinezza per come avrebbe dovuto essere e non è stata.

Io le sorrido e sono convinto che la sua reazione non dipenda soltanto dagli euro risparmiati.

È uscita, mi siedo e sto pensando. Non sono abituato agli abbracci, siamo tutti troppo contenuti, ormai, la spontaneità l’abbiamo repressa, e nessuno sentirebbe più l’impulso di abbracciare il suo medico.

Guardo la porta chiusa e mi chiedo quale vita sia stata la sua, se il regalo più bello che ha ricevuto è stato questo piccolissimo gesto di solidarietà.

Aspetto un po’, prima di uscire.

Non ho voglia di tuffarmi in mezzo alle lamentele della gente sui minuscoli intoppi della vita.

 

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