Storia vera di Adriana B. raccolta da Fabiana Dantinelli
Sono una volontaria della Croce Verde e spesso mi capita di lavorare d’estate. Qualche anno fa mi hanno mandata a seguire il festival lirico all’Arena. Una parte di me era felice, avrei visto un mucchio di spettacoli con scenografie imponenti e artisti internazionali, fra l’altro in un punto assolutamente privilegiato, quasi dietro al palco, di fronte a 11.000 spettatori circa a sera. Ecco, loro inizialmente, gli 11.000 spettatori, non li avevo calcolati affatto.Quello che sulla carta si prospettava come uno stimolantissimo impiego estivo, ben presto si sarebbe rivelato un incubo. Già perché durante tutte e dico tutte le repliche, fra una marcia dell’Aida e un “Nessun dorma” della Turandot, un numero sproporzionato di persone aveva bisogno di soccorso. Iniziavano ad accasciarsi uno dietro l’altro, per lo più preda di colpi di calore, così io e i miei colleghi non facevamo altro che correre da una parte all’altra dell’Arena nel tentativo di assisterli tutti. Naturalmente cercando di non disturbare quella gigantesca macchina d’intrattenimento. Non si era rivelato un compito facile. Condividevo tuttavia quella strana sorte stressante con un nutrito gruppo di ragazzi e ragazze che, come me, lavoravano a vario titolo in quella splendida cornice, circa un migliaio di persone dello staff. Si era creato un bel clima tra noi, nonostante i turni fiume che spesso terminavano a notte inoltrata. Ma fra veneti si sa, perfino dopo serate del genere c’era spazio per qualche spritz in allegria. Alla fine avevo preso il ritmo, di giorno dormivo e la sera lavoravo.
Mi ero trasferita da poco in zona San Zeno in Monte, acciuffando al volo l’offerta davvero imperdibile di un affitto in una stupenda palazzina d’epoca, tutta abitata da giovani più o meno tutti della mia generazione. L’unico problema era il fatto che fosse posizionata proprio in cima a quella che giudicherei la peggiore salita della vita, specie se devi percorrerla in bici di notte dopo il lavoro. Alla fine, rinunciavo sempre, tirandola su a fatica a piedi dal manubrio fino alla cima.
Tutto sommato però, a parte il caldo e lo stress, stava andando tutto bene. Questo finché non ho conosciuto Vico.
Lo avevo incontrato la prima volta nel grande cortile interno della palazzina. Si era subito immobilizzato fissandomi schivo. Era chiaro che fosse un veterano del luogo e che stavo invadendo in qualche modo il suo territorio. Avevo cercato di avvicinarmi per fare amicizia, ma lui era scappato via improvvisamente. Era solo l’inizio. Non molti giorni dopo avrei scoperto di non potermi liberare di lui, mai più proprio. Vico era un gatto depresso del quartiere. O meglio il depresso gatto di Francesco, il tizio del secondo piano che abitava nella mia bella palazzina in cima alla salita a San Zeno in Monte. Era depresso da quando la fidanzata di Francesco lo aveva lasciato. Perché il gatto in realtà apparteneva alla sua ex. Credo che nessuno dei due avesse superato la cosa. Soprattutto Vico.
Tutto questo me lo aveva raccontato Cristina, la mia vicina di pianerottolo, a cui piaceva un po’ Francesco, ma dopo aver conosciuto Vico aveva cambiato idea. Vico infatti non voleva essere accarezzato né consolato con del cibo, o giochi per gatti. Semplicemente lui voleva che qualcuno fosse testimone della sua tristezza. O meglio voleva che io fossi testimone immobile e assertiva del suo stato di depressione. Non so perché abbia scelto me, ma da quell’incontro nel cortile, aveva stabilito che ogni giorno fra le 12 e le 17 doveva venire a miagolare davanti alla finestra del mio balconcino. E quella era l’esatta fascia oraria prima del mio turno di lavoro, che avrei dovuto tecnicamente spendere nel riposarmi, specie quando rincasavo alle prime luci del mattino dall’Arena.
Ma questo a Vico evidentemente non interessava. Attraversava il ballatoio comune e si piazzava oltre il vetro. Talvolta, quando gli aprivo la finestra, entrava in casa e sceglieva un punto abbastanza ben illuminato dove sistemarsi teatralmente e continuare a piangere in santa pace. Un miagolio strascicante e penoso che accompagnava ormai da settimane i miei pomeriggi casalinghi e che terminava solo intorno alle 17, quando dovevo iniziare a prepararmi per andare al lavoro.
Avevo provato a dargli da mangiare, nella speranza di placarlo, ma non era servito. Non necessitava altro che condividere con me il suo dolore di gatto abbandonato. Secondo Cristina, che stava studiando psicologia felina, io gli ricordavo esteticamente la ex di Francesco, che era poi la vera proprietaria del micio lasciato in eredità al fidanzato che, da par suo, aveva semplicemente smesso di prendersene cura, limitandosi a lasciargli qualche scatoletta di tonno e dell’acqua nel cortile. Ecco il cibo è un punto importante di questa storia. Vico si era fatto conoscere e disprezzare da tutto il circondario perché il pianto di un gatto è oggettivamente fastidioso e oltretutto Vico rifuggiva ogni forma di affetto umano. Probabilmente anche felino. La sua unica gioia era proprio il cibo. Il suo “padrone” si limitava a sfamarlo, così come avevo fatto anch’io e facevano anche altri inquilini del mio stabile, nella disperata speranza di distrarlo per brevi istanti da quel piagnucolio continuo. Vico, quindi, era un gatto grasso, castrato e depresso.
Quando un gatto sessualmente attivo lo attaccava, finiva sempre male per lui. Tornava tutto graffiato e sanguinante. E ovviamente piangeva. Piangeva pure per il suo orgoglio vilipeso di maschio felino. Povero Vico. Non riuscivo a non provare pena per lui, per quel duplice abbandono che lo aveva evidentemente costretto in un tunnel di sopravvivenza mangereccia e spregio dell’umanità.
Il fatto è che lo sentivo inspiegabilmente vicino in quelle manifestazioni così esplicite di malinconia cronica. Poi non lo percepivo e tuttora non lo percepisco come gatto. Per me Vico è un essere umano reincarnato.
Alla fine gli avevo comprato in farmacia un disinfettante per gatti. Carissimo, tra l’altro. Vico doveva saperlo che avevo speso dei sudatissimi soldi per lui, tanti soldi, proprio per l’unico esserino che mi deprivava della cosa che più desideravo fare fra le 12 e le 17: dormire.
Forse per questo lasciava che gli pulissi le croste. L’unico momento in cui sarebbe stato lecito che piangesse e cioè mentre gli passavo il carissimo cicatrizzante felino, Vico però non piangeva. Aspettava silenzioso per tutta la medicazione, fissandomi muto fra la gratitudine e il disprezzo, poi, una volta finito il rituale medico, si schiacciava sul mio comodino, incurante di qualsiasi oggetto vi fosse poggiato sopra e allora e solo allora attaccava il piagnisteo miagolante. Naturalmente questa mia opera pia di intervento salvifico verso le sue disastrose battaglie con altri maschi della specie non mi esonerava in alcun modo dall’ascolto del pianto. Sempre fra le 12 e le 17, con piccoli intervalli quando mangiava, poi Vico riattaccava a piangere. Io non avevo mai avuto un animale domestico ed ero sempre stata sola, non avevo mai avuto una vera e propria storia, solo qualche avventura, spesso proprio d’estate, ma non in quella precisa estate in cui non avevo nemmeno l’energia per allacciarmi le scarpe.
Da qualche tempo, tuttavia, e in modo un po’ inaspettato per il carattere duro e solitario che avevo sempre dimostrato, avevo iniziato a sentirmi sola e per paradosso il pianto di Vico mi teneva compagnia. Non riuscivo ad ammetterlo, ma avevo inaspettatamente bisogno di avere qualcuno a fianco.
Dire a voce alta che si sta cercando l’amore, mi era sempre suonato ridicolo. Forse perché in buona sintesi l’amore a me non è mai mancato, non quello di famiglia e amici quantomeno.
L’altro, quello fisico, non l’avevo mai cercato, al più ci ero solo inciampata, con tutte le conseguenze del caso.
Non avevo mai saputo veramente niente dell’amore. Ero solo una che voleva diventare Adriana-stella-della-ginnastica-artistica, ma con il nastro era agile come un paguro, una che aveva imparato l’inutilità di camminare con le scarpe al contrario e contare le mattonelle dei bagni, una che non aveva mai vinto una partita di Risiko o Monopoli e che aveva piuttosto ucciso un numero imprecisato di malati immaginari con l’Allegro chirurgo. Ero una pasticciona, senza speranza?
Alla fine l’avevo detto ad alta voce. A Vico. Lui era stato in silenzio per brevissimi istanti, poi aveva riattaccato a piangere.
Non so bene di preciso cosa fosse scattato a un certo punto, se mi fossi offesa per la reazione di Vico, o se fossi solo esasperata dal non riuscire più a dormire, sta di fatto che proprio quel giorno, il giorno della mia confessione inconfessabile a voce alta sull’amore che mi mancava a Vico il gatto piagnone, una molla era scattata dentro di me.
Ero saltata dal letto e come una furia ero andata al secondo piano, piantando l’indice destro così forte sul campanello di Francesco che a momenti me lo spezzavo.
Lui mi aveva aperto con una faccia da funerale e io come una furia avevo iniziato semplicemente a investirlo di tutta la mia frustrazione:
«Senti, ma non ti vergogni?».
«Ma chi sei scusa?».
«Adriana. Abito al primo piano».
«Vergognarmi di cosa?».
«Lo stai facendo morire!».
«Chi?».
«Ma Vico no? Non lo senti che piange tutto il giorno? Sei così inutile per lui che manco ci viene a piangere da te, ti schifa. Perché non lo porti dallo psicologo per gatti? Cristina, per esempio è specializzata in patologie depressive feline».
«Chi è Cristina?».
«La mia dirimpettaia. Avresti potuto avere una storia d’amore con lei, invece che ignorare il tuo gatto».
«Non è il mio gatto».
Quella risposta mi aveva fatto esplodere la bile, stavo già per insultarlo malamente, quando mi aveva sbattuto la porta in faccia. Per un nanosecondo avevo avuto il desiderio di prenderla a calci e urlare farsi impronunciabili. Invece non lo avevo fatto, avevo calato il pugno e come d’improvviso mi erano piombate addosso tutta la tristezza e la malcelata indifferenza di Francesco.
Anche lui era stato abbandonato in un certo senso. Cristina, che oltre a interessarsi della felicità dei gatti, era pure piuttosto pettegola, mi aveva detto che la ex di Francesco lo aveva lasciato per un altro.
Forse allora pure lui come Vico, si sentiva confuso e arrabbiato e non aveva voglia di guarire, perché avrebbe dovuto farlo il suo gatto dopotutto? O quello della ex, insomma Vico.
Ecco Vico, non mi ero accorta che durante tutta quella scena era rimasto incollato al pianerottolo a fissarci, poi era scappato via.
Poco più tardi mi avrebbe fatto per dispetto la cacca sul balconcino, quasi a ricordarmi ulteriormente il fallimento appena subito.
Nei giorni a seguire io avevo ripreso il mio ritmo quotidiano, puntualmente disturbata dal piagnisteo di Vico, avevo tentato di riavvicinarmi a lui in qualche occasione, ma non era servito a niente.
Mi faceva anche un po’ ridere in realtà la situazione di tre anime sole come me, Francesco e Vico, che annegavano consapevoli dentro tutto quel mare di solitudine che ci stava intorno, un mare strano, muto, asciutto di lacrime forse mai piante e incastrate in gola.
Credevo che avremmo continuato così, lentamente, ogni giorno, lasciando sbriciolare un pezzo d’anima per volta, fino a ritrovarci lo sterno vuoto, assalito dal buio dei nostri stessi pensieri. Invece una tarda mattinata di agosto cambiò tutto.
Come sempre ero distesa nel letto, cercando di rubare ancora qualche minuto di sonno prima che Vico attaccasse la sua litania, quando improvvisamente lo avevo sentito miagolare. Intendo in modo normale, come quando un gatto vuole comunicare con un umano.
Mi ero subito affacciata alla finestra del balconcino e avevo visto Francesco rannicchiato a terra, con una scatoletta di tonno in mano e Vico a nemmeno un metro da lui.
«Se non ti avvicini non te lo do».
Vico non si muoveva e rispondeva con un verso che aveva tutta l’aria di un “no”.
«Allora lo mangio io, non te lo do più…». Francesco aveva infilzato una forchetta nella scatoletta e iniziato a mangiare il tonno con plateali gesti di gradimento.
Vico lo aveva fissato con un’aria a dir poco alterata, continuando a miagolargli contro, ma Francesco non s’era mosso, continuando a masticare i trancetti di tonno. «Adesso dico a tutti di non darti da mangiare. Sei il mio gatto giusto? E allora se non mangi quello che ti do io, non mangi niente».
Ecco adesso Vico dimentica di essere un gatto grasso e depresso e gli si fionda addosso per riempirlo di graffi. Lo avevo sperato. Invece no. Si era inaspettatamente avvicinato a lui.
Francesco aveva sorriso, non lo avevo mai visto sorridere da quando mi ero trasferita lì nella palazzina a San Zeno in Monte. Aveva appoggiato la scatoletta a terra e lasciato che Vico la mangiasse, mentre lui lo accarezzava sul dorso.
Poco dopo aveva alzato la testa e i nostri sguardi si erano incrociati per un istante, mentre io mi nascondevo di scatto dietro la tenda.
Mi sarei sotterrata dall’imbarazzo, ma ero stranamente contenta.
Non so se per quel bel sorriso rubato, o per tutto il sonno che avrei recuperato.
Da quella mattina, incredibilmente, sono cambiate molte cose. Cristina che avevo creduto la candidata migliore a elaborare il lutto di Francesco per l’abbandono dell’ex, alla fine si è fidanzata con un tenore e ha aperto un ambulatorio per animali domestici problematici.
Io e Francesco abbiamo iniziato a prendere il caffè, a parlare, a conoscerci. Eravamo due belle teste complicate e due anime confuse, ma forse quello che alla fine ci ha fatto innamorare, è stato quel piccolo e divertente cortocircuito sotto forma di gatto, entrato da principio fastidiosamente nelle nostre esistenze, ma che poi, a differenza di altre noiose e difficili incombenze della vita, non aveva aggiunto ruggine al meccanismo ossidato di due cuori solitari, lo aveva anzi aiutato a tornare a funzionare. Anche meglio.
Insomma è andata così, quell’estate io ho trovato l’amore e Vico il gatto depresso di San Zeno in Monte ha smesso di piangere. ●
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