Storia vera di Daniela Z. raccolta da Silvia Tessa
Anche oggi un mal di testa fortissimo non mi dà pace, ma chiudo ancora un ultimo ordine, passo a prendere le bambine in piscina e poi finalmente a casa. Invece no, l’ordine non lo chiudo e non porto a termine neanche tutte le altre buone intenzioni della sera. Non sono in grado di costruire una frase di senso compiuto verso mio padre che è passato a trovarmi: nulla di intelligibile, rispondo solo ai suoi comandi. Comprende immediatamente che qualcosa non va e con il suo tono calmo e perentorio mi convince a lasciar perdere il lavoro e andare al Pronto soccorso a salvarmi la vita. Le bambine? Ci penserà nonna Margherita.
Era il 30 aprile 2018: un’emorragia cerebrale mi sorprendeva lasciandomi in un sonno profondo che mi avrebbe accompagnata per mesi. Il solo fatto di essere qui adesso a raccontarla mi fa urlare al miracolo. La mia era quella che si può definire una vita felice. Vedevo crescere ogni giorno le mie due piccolette e avevo al mio fianco un marito imperfetto come lo sono tutti, ma adorabile come lo sono pochi. Da qualche anno con passione e dedizione, dirigevo l’azienda di famiglia: i miei genitori avevano raggiunto quell’età degna di un po’ di riposo e lasciato le redini alla nuova generazione, anche se mio padre veniva “a salutare” spesso. Per fortuna.
La sera del 30 aprile tutto si è fermato, ma solo per me. Infatti mentre io, come la bella addormentata, me ne stavo incosciente su un letto, tutti intorno a me si sono visti costretti a rivoluzionare la loro vita e le loro abitudini.
Margherita, mia mamma, si è slacciata il comodo grembiule da nonna e ha indossato nuovamente il serio tailleur da madre, di due ragazzine adolescenti per giunta. Una sfida difficile in generale per ogni donna, quasi impossibile se la donna in questione ha superato i 70. Forse non era questo il caso: quanto all’età, la bellissima Margherita pur ammettendo di avere già compiuto 39 anni, non precisava mai da quanto tempo. Mi ritrovo ancora adesso a sorridere tra me e me della sua sensibilità verso la situazione anagrafica. Grazie mamma. Nello stesso tempo mio marito cercava di portare avanti il suo lavoro e di salvare il salvabile del mio. Dei primi mesi al Centro traumatologico ortopedico non ricordo nulla, so solo quello che la mia famiglia ha raccontato a me. Per proteggere il mio cervello mentre loro e i loro geniali marchingegni controllavano il drenaggio dei liquidi all’interno del mio cranio, i medici mi hanno indotto il coma farmacologico in attesa del momento giusto per intervenire chirurgicamente. Il coma si è comportato da amico: mi ha tenuto compagnia, infondendo al mio fisico la calma necessaria. Solo che non sono bastati 10 minuti o 24 ore, sono servite settimane.
Tutti, tranne le bambine, ogni giorno, venivano a trovarmi. Mi parlavano, mi dichiaravano il loro affetto o almeno così dicono, io non ricordo nulla. La storia che dal coma si capisca cosa ci viene detto a me non torna: io non capivo, magari non sentivo, o forse ascoltavo ma poi dimenticavo? Chissà…
Dopo più di un mese di comodo sonno farmacologico, il mio corpo era finalmente in condizioni di essere operato. Le precise mani di un neurochirurgo hanno fatto spazio nella mia testa per una valvola che con l’aiuto di un tubicino drena i liquidi in eccesso verso un’altra parte del mio corpo, dove c’è più spazio. Mi fa sorridere l’idea che la stessa espressione “drenare i liquidi in eccesso” si usi anche quando si parla degli inestetismi della cellulite: qui però serve a salvare la vita, non il girovita.
Ancora adesso se passo le dita tra i capelli, sottopelle la sento, la mia amica valvola: chi altri può dire di avere ancora la fontanella, superati i 39? Dopo l’intervento, i medici hanno cessato la somministrazione dei farmaci di modo che mi potessi svegliare, ma la mia memoria non si è svegliata con me. Ci ho messo un po’ a riconoscere mia madre, mio padre e mio marito, quanto alle figlie, me le hanno dovute presentare. Forse ho solo incarnato il desiderio di molti genitori di teenager che vorrebbero non riconoscerli sul momento e “tornare più tardi”?
Qualche mese dopo il risveglio sono stata trasferita. Ero sempre sotto osservazione, neurologi, psicologi, logopedisti, fisioterapisti e chi più ne ha più ne metta. E questo finalmente lo dico perché me lo ricordo, non perché me l’hanno detto.
Ora potevano farmi visita anche gli amici: nuovo giro, nuova corsa! Quando arrivava qualcuno che non riconoscevo neanche dopo avermi riferito nome, cognome e ruolo ricoperto nella mia vita, facevo finta di capire chi fosse, parlavo, sorridevo e nessuno si accorgeva di niente. O almeno questo credevo io: mamma se ne accorgeva eccome, ma di solito non mi diceva nulla.
Anche le vecchie compagne di scuola, nonostante fossero decine di anni che non ci si sedeva più ai banchi insieme, venivano a trovarmi. A due a due, come se da sole avessero paura. Avevo perso la memoria sì, ma non il senno, eppure si presentavano tutte in coppia: Manuela con Lucia, Anna con Francesca. Le chiacchiere arrivavano facili, dei tempi del liceo mi ricordavo tutto, anche i cognomi, anche i prof… Però poi, a chi me lo chiedeva il giorno dopo esclamavo nostalgica: «Manuela e Lucia? Una vita che non le vedo!».
Mia madre era sempre presente negli orari di visita: accoglieva gli amici, li istruiva a non correggermi quando sostenevo affermazioni che non stavano né in cielo né in terra, a non contraddirmi, come da indicazione dei medici. Voleva proteggermi, ero di nuovo la sua bambina e nessuno doveva spaventarmi. Quando gli ospiti se ne andavano, abbracciavano più lei che me: io ero in carne, sorridevo e sparavo battute, lei sempre più magra, esalava fatica, paura e sofferenza. Con le mie amiche si confidava, si sfogava con le lacrime agli occhi: «Quello che mi terrorizza è che non mi chiede mai delle bambine, non gliene importa più. È contro natura, è una madre…».
Chi ha avuto più paura e più a lungo è stato mio padre. Aveva ben chiaro sin dal primissimo momento che le possibilità che io mi svegliassi erano buone, ma quelle che coservassi le mie capacità e la memoria, molto meno. Sapeva che il fatto che l’intervento fosse andato bene era sì un buon segno, ma non sufficiente: bisognava aspettare l’ultimo giorno di riabilitazione per scongiurare il rischio di danni seri e permanenti, per poter finalmente sospirare di sollievo. Ha saputo gestire, con forza e autonomia la pesante miscela composta dall’ansia di un padre e dalla competenza di un professionista sanitario. Grazie, papà.
Finalmente, un passo alla volta, sono riuscita a recuperare sia fisicamente che cognitivamente: camminavo senza girello, mi ricordavo chi mi aveva fatto visita il giorno prima.
Quindi? Si torna a casa!
Ero entrata in ospedale con i capelli stirati, i vestiti alla moda, truccata e ingioiellata, ne sono uscita mesi dopo del tutto diversa. Se prima davo tanta importanza all’aspetto fisico, ora non me ne importava più nulla. Se prima davanti a un vassoio di dolci sceglievo il più piccolo e assaggiavo solo quello, adesso mi divoravo il vassoio nel tempo di un: «Ciao, Daniela».
Sebbene fossi stata dimessa, non ero comunque ancora in grado di accudire la mia famiglia, tantomeno di riprendere il lavoro. Siamo andati ad abitare vicino ai miei e io sono tornata “a scuola”: frequentavo tutti i giorni a tempo pieno un centro specializzato per la riabilitazione. Qui sono stata seguita da professionisti che mi hanno concesso di rinascere: sedute con psicologi e logopedisti, insieme a lezioni di educazione fisica, come a scuola appunto!
La riabilitazione è stata lunga e impegnativa. Dapprima andavo al centro tutti i giorni, a tempo pieno, poi mezza giornata, come i ragazzini che passano dalle elementari alle medie anche se per fortuna parliamo di mesi e non di anni. Finché è arrivata quella telefonata, il 26 marzo 2020 in cui la direttrice del centro mi comunicava che per le nuove normative legate all’emergenza Covid la mia rieducazione veniva sospesa fino a data da destinarsi.
«E io cosa faccio?» le ho chiesto, spaventata.
«Vivi la vita» mi ha consigliato lei. E così è stato. Nonna Margherita ci ha lasciati qualche anno fa, a San Valentino. Ci manca tantissimo e non finiremo mai di ringraziarla.
Mio marito in quei lunghi mesi aveva preso in mano l’azienda, certo non bene come la sottoscritta, ma tutto sommato se l’era cavata.
Aveva trovato tempo e energia per prendersi cura di me, delle bambine e dell’azienda: è cosa rara per un uomo, mi dice un’amica meno fortunata di me. Adesso è bellissimo lavorare insieme a lui. Grazie, amore mio! Infatti da poco ho ripreso a lavorare, a cercare di crescere le mie figlie, a coccolarmi mio marito e a tenere un occhio su mio padre. Le cose non saranno più come prima, ma che problema c’è?
Ho qualche strascico del trauma, per esempio adesso dico sempre quello che penso: come effetto collaterale, non ho più freni inibitori, parlo in libertà. Quanti mi invidiano per questo? Se ti devo mandare a quel paese lo faccio, ma con il sorriso, tanto ho la mia scusante, “con tutto quello che ho avuto”.
Ho recuperato tutti i ricordi vecchi e tengo botta. Molto prima che Facebook fosse anche solo immaginato, io già ero una mitragliatrice con gli auguri: non mancavo un compleanno. Infatti, la prima a capire che ero stata male è stata una mia amica che compie gli anni il primo maggio e non avendo ricevuto la mia regolare telefonata, insospettita mi ha cercata. Adesso ho ripreso le buone abitudini: sono la prima a fare gli auguri di buon compleanno in qualunque chat o con qualunque mezzo, non importa se ci conosciamo da una vita o da un mese. Per il resto, ho la memoria di un canarino stanco, ma a una certa età, so che è un problema comune.
Ho da poco compiuto il mezzo secolo e ho voluto festeggiare alla grande: chissenefrega delle rughe, chissenefrega degli acciacchi, io voglio festeggiare il semplice fatto di esserci, ancora!
Se sono qui a raccontare la mia storia, significa che nella nostra sanità pubblica esistono medici che sanno come salvare una vita ed educatori che con passione e attenzione seguono i casi più difficili: voglio ringraziare di cuore tutti loro.
Il risultato che abbiamo ottenuto, non sarebbe però stato possibile senza le persone che mi hanno sostenuta e mi sono sempre state accanto: auguro a tutti una famiglia come la mia! ●
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Testo pubblicato su Confidenze n 31/2025
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