La bicicletta

Cuore
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“La bicicletta” di Giovanna Brunitto, pubblicata sul n. 45 di Confidenze, è una delle storie vere più apprezzate della settimana. Ve la riproponiamo sul blog

 

Per me è stata molto di più di un UMILE mezzo di trasporto: è stata il SIMBOLO di tutto il bello della mia vita. E amo pedalare, in MEMORIA del mio Egidio

Storia vera di Saba G. Raccolta da Giovanna Brunitto

Si dice che una volta che si impara ad andare in bicicletta non lo si dimentica più, poi ci sai andare per sempre. E forse è vero, ma è anche vero che si prendono abitudini diverse, che con l’andare avanti dell’età subentrano paure e cautele che da giovani non si avevano e ci si può dimenticare di come si guida una bicicletta. A me è capitato così, nonostante da bambina la bici di mio padre  mi avesse praticamente salvato la vita e, poi, da ragazza sempre in bici io abbia fatto il viaggio più bello che mi ricordi. A un certo punto, con il boom economico, le nostre condizioni economiche sono nettamente migliorate e in casa è arrivata la prima auto di famiglia. Con l’arrivo dei bambini, poi, la bicicletta è stata riposta in un angolo della cantina e non l’ho più presa. Per anni. Fino a ottobre passato, mese in cui ho riprovato la libertà di pedalare su due ruote, sensazione che pensavo perduta per sempre. Ma vorrei andare con ordine a raccontare. Ad agosto dell’anno scorso, all’improvviso, è venuto a mancare Egidio, mio marito. Ci siamo sempre detti che se uno di noi se ne andava per sempre, l’altro avrebbe dovuto reagire e continuare a vivere, perché non c’è niente di più bello della vita. Ma una cosa è dirle certe cose, un’altra è provarle sulla propria pelle. Quando Egidio se n’è andato mi è mancata la terra sotto i piedi. Camminavo e mi sembrava di cadere a ogni passo. Era tremendo vedere la casa vuota, non sentire più i suoi borbottii, non avere più nessuno per cui preparare da mangiare. Dopo quasi sessant’anni di matrimonio, rimanere da sola era soffocante. Ecco sì, mi sentivo mancare l’aria. Mi svegliavo e facevo fatica a respirare, andavo avanti boccheggiando per tutta la giornata. I figli e i nipoti mi chiamavano più volte al giorno, ma un paio di telefonate non possono riempire un vuoto così grande. Andavo a letto con la stessa dolente sensazione di assenza con la quale mi ero svegliata. Poi a ottobre sono iniziate le mattine di nebbia. Egidio ha sempre amato la nebbia, diceva che la pianura si tramutava in un mondo fatato dove a ogni metro poteva accadere una magia, bastava camminarci attraverso e il mondo che conoscevamo si trasformava. Presi coraggio e una mattina andai a camminare fino al canale. La sensazione di essere avvolta mi tenne compagnia e, seppur per pochi minuti, non mi sentii sola. La mattina dopo rifeci lo stesso pezzo di  strada e di nuovo accadde. Tornò quel sollievo e insieme anche i ricordi che credevo di aver perso per sempre nei meandri della memoria. Ricordai un episodio particolare di quando ero piccola. Avevo dieci anni circa ed era inverno. Di quelli piovosi e umidi che colpiscono talvolta la campagna padana e sembrano non voler finire mai. Tutta la mia famiglia si alzava col buio pesto per dare da mangiare agli animali e accudirli. Una mattina mi svegliai con un forte dolore alla gola e facevo fatica a deglutire. Mia madre, donna pragmatica, abituata ai piccoli malanni dei bambini, mi blandì e disse che sarebbe passato presto, ma purtroppo non passò. Il giorno dopo arrivò la febbre. Il medico del paese mi visitò e diagnosticò il Croup. Quella malattia, se non curata in tempo con farmaci adeguati, poteva essere mortale.

Nel mio paese gli antibiotici non c’erano, l’unico modo per averli era arrivare in ospedale in città. Mio padre non perse tempo, mi avvolse in un enorme suo cappotto di lana, mi caricò sulla canna della bicicletta e contro il parere di tutti, mi portò a Lodi. Di quel viaggio ricordo il freddo intenso e la voce di mio padre che mi teneva sveglia. In ospedale mi curarono e tornai a casa più vivace di prima. Quando mio papà tornava dal paese o dall’osteria gli correvo incontro e lui mi diceva sempre che dovevo ringraziare la bicicletta che mi aveva salvato la vita. Era l’unico mezzo di trasporto della mia famiglia e aveva un posto speciale in casa: di sera mio papà la metteva in un angolo tra il camino e la cucina e rimaneva lì fino al mattino quando accompagnava papà in campagna.

A diciott’anni mi sposai con Egidio, erano altri tempi e ci si sposava giovani allora. La guerra era finita da poco e di soldi ce n’erano pochissimi, ma Egidio voleva per forza portarmi in viaggio di nozze. Tanto implorò mio padre che alla fine riuscì a farsi prestare la bicicletta. Con quella partimmo alla volta di Milano. Impiegammo due giorni per arrivarci, continuavamo a fermarci in qualche campo che con la vegetazione alta copriva la nostra esuberanza di amarci ogni minuto e che, soprattutto, nascondeva la bicicletta di papà dai malintenzionati. Ancora oggi mi chiedo come io abbia fatto a stare seduta per due giorni sulla canna di una bicicletta, ma non ho alcun ricordo di dolori o indolenzimenti. Ricordo solamente tante risate, tanto amore e una perenne sensazione di libertà legata a una vera comunione con le cose che ci circondavano. Solamente la bici dà questa sensazione unica, è l’unico mezzo di trasporto che non invade gli spazi intorno, ma li percorre, anzi, meglio, li accarezza. E il mio viaggio di nozze è stato quello, una meravigliosa carezza che ci ha accompagnato per gli anni a venire, anche quando la vita si è mostrata dura con noi.

Al ritorno dal nostro viaggio di nozze nella grande città di Milano, abbiamo dovuto restituire a mio papà la bicicletta, ma come dicevo l’arrivo dei figli e del benessere ha cambiato le cose e avere un’auto era diventata un’opportunità realizzabile. Poi sia io sia Egidio abbiamo trovato lavoro fuori paese e, con i nuovi ritmi di vita, abbiamo abbandonato le bici al loro destino. Qualche volta di domenica facevamo un picnic fuori porta, ma niente di più. Poi l’età ha fatto il resto e la bicicletta non l’abbiamo più presa. Fino a ottobre scorso, appunto, quando mi ritrovai a pensare che tutti i ricordi miei più belli, quelli risvegliati dalla nebbia del mattino, erano in qualche modo legati alla bicicletta. E, dopo anni, mi venne voglia di pedalare.

È stato difficile, devo essere sincera, convincere mia figlia a prestarmi la sua, ho dovuto subire diverse prediche condite con altrettante ramanzine sul fatto che ero anziana, che non sapevo più guidarla, che il traffico era pericoloso e cose di questo tipo, ma alla fine ce l’ho fatta. Quando mia figlia me l’ha portata però non l’ho presa subito. L’ho sistemata nel box e tenuta là qualche giorno. Volevo essere sicura di non fare sciocchezze. Poi mi sono ricordata di Egidio, delle risate, del vento che attraversa i capelli e si infila sotto la gonna, della nebbia che si taglia netta puntando la ruota in avanti e sono andata. Traballante all’inizio, ma sono andata.
Non so se il mio Egidio approverebbe la mia scelta di tornare a pedalare, ma di una cosa sono assolutamente sicura: andare su e giù per i campi, costeggiando i canali, passando attraverso la nebbia del mattino è l’unico modo che ho trovato per continuare a vivere. Perché davvero non c’è niente di più bello della vita. ​

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