La casa dalle mille luci

Cuore
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“La casa dalle mille luci” di Orsolina Guerri, pubblicata sul n. 3 di Confidenze, è una delle storie vere apprezzate questa settimana sulla pagina Facebook. Ve la riproponiamo sul blog

 

La passione di Lina per le luminarie era stata molto criticata in paese. Eppure, l’anno in cui la sua pasticceria restò buia, tutti si sentirono di dare una mano. In una commovente gara di solidarietà

Storia vera di Frida L. raccolta da Orsolina Guerri

 

L’arrivo di Lina e Fabio aveva suscitato viva curiosità e qualche critica pungente nel nostro piccolo centro di provincia, accoccolato tra il fiume e il monte, cullato dolcemente dallo scorrere monotono del tempo, assopito tra neve e ghiaccio per diversi mesi all’anno.

Si trattava di una coppia brillante che amava i divertimenti e le feste: ci chiedevamo cosa li avesse spinti ad arenarsi in aperta campagna.

Erano arrivati improvvisamente: come un raggio di sole che illumina di colpo una giornata buia, secondo i più benevoli. Come un fulmine a ciel sereno, stando all’opinione dei più malevoli.

Giovani, belli, eleganti, generosi e pieni di progetti, ricchi di entusiasmo, Fabio e Lina avevano aperto una stupenda pasticceria, traboccante delle innumerevoli, raffinate ghiottonerie che sapevano confezionare e proporre con cura: un’autentica novità nei paraggi. Poi avevano acquistato Villa Anita, abbandonata da decenni, ridestandola in breve a nuovo splendore. Sia in negozio che in casa avevano bisogno di manodopera. Erano dei pagatori puntuali e dei datori di lavoro comprensivi.

Io avevo concluso gli studi da poco: non me la sentivo di trasferirmi all’estero come avevano fatto i miei fratelli, lasciando soli papà e mamma. Né volevo abbandonare Mimmo, il mio innamorato, che lavorava come falegname nella ditta di famiglia. Così non mi sembrò vero di ritrovarmi assunta come aiutante presso la pasticceria “Dolci di fata” e di aiutare ogni tanto Lina nelle faccende domestiche. Tra le pareti di Villa Anita scoprivo elettrodomestici e comodità di cui ignoravo l’esistenza.

I miei datori di lavoro avevano due adorabili figli adottivi: Leo e Ruth, meravigliosi adolescenti, giunti da terre lontanissime. Venivano biasimati anche per questo. E furono criticatissimi quando accolsero parecchi cani e gatti abbandonati, scalcagnati e acciaccati.

Ben presto scoprii che Lina nutriva una passione irrefrenabile: era una moglie innamorata, una mamma premurosa, una professionista zelante, animata da un’attrazione invincibile per le luci colorate. Le luminarie festive le restituivano evidentemente gli echi di un’infanzia lontana che forse non aveva assaporato abbastanza e che sembrava voler rivivere all’infinito. In qualunque occasione, la villa e la pasticceria venivano animate da luminarie sfavillanti, rassicuranti, sfolgoranti, mentre figure magiche che sembravano uscite da una fiaba popolavano la scena.

Poteva trattarsi di zucche fatate accanto a simpatici fantasmi in occasione di Halloween; di gnomi mattacchioni se era Carnevale; di teneri angeli quando si approssimava il Natale o di conigli birbanti accanto a melodiose campane e a soffici agnellini se Pasqua era dietro l’angolo.

Per ogni circostanza, veniva studiata in largo anticipo una coreografia adeguata, con relative musiche di accompagnamento. Ogni volta c’erano novità, mentre le decorazioni precedenti venivano donate all’oratorio o agli amici. Luminarie e personaggi giungevano sovente da Paesi stranieri tramite internet. Dopo una giornata di scuola o di lavoro, familiari e dipendenti venivano coinvolti dall’instancabile Lina e dal devoto consorte nella preparazione di fantasiosi addobbi, che occorreva piazzare e sincronizzare.

Se c’era di mezzo una festività nazionale, civile o religiosa, il parroco e il sindaco guardavano di sguincio perché gli scenari evocati da Fabio, Lina e relativa tribù superavano regolarmente di gran lunga i loro modesti ritrovati locali, le consuete luminarie sempre uguali e un tantino datate.

Lina, che aveva viaggiato parecchio in tutto il mondo, parlava delle pittoresche gare che, in occasione delle festività natalizie, coinvolgevano intere cittadine americane, dove i vari quartieri rivaleggiavano benevolmente tra loro.

I compaesani scuotevano la testa. Parecchi consideravano uno spreco sia l’ostentazione gioiosa delle luminarie decorative, che si rinnovava più volte nell’arco di dodici mesi, che il commercio quotidiano di dolciumi, che etichettavano come eccessivo.

Io invece ero felice di imparare a fare i dolci e di specializzarmi nelle coreografie festaiole.

Mimmo, a sua volta, era mobilitato ogni volta come artigiano e metteva con gioia a disposizione la sua spiccata, creativa manualità.

Eravamo diventati praticamente amici di Fabio e Lina.

Poi arrivò un anno diverso da qualsiasi altro: Natale era alle porte, ma sia Villa Anita che la pasticceria “Dolci di fata” risultavano stranamente silenziose. Non si vedevano ghirlande scintillanti in giro. Non vibravano, nell’aria profumata dalla fragranza di specialità appena sfornate, le belle canzoni festose in varie lingue.

La triste notizia si diffuse rapidamente: Leo, ormai quindicenne, era stato colpito da una rara forma di leucemia. Sembrava che un donatore di midollo compatibile fosse introvabile. L’intera famiglia andava e veniva dall’ospedale cittadino con la faccia scura.

Noi collaboratori ci adoperavamo per mandare avanti l’attività il meglio possibile, ma la nostra mente e il nostro cuore erano altrove.

Grazie a Dio, il donatore giusto arrivò all’ultimissimo momento. Le nostre preghiere collettive vennero esaudite e la vita di Leo fu salva.

Natale incalzava imperioso dietro l’angolo, ma Fabio e Lina proprio non avevano pensato ad addobbare come al solito casa e bottega.

Fu allora che Mimmo e io entrammo in azione, decidendo di preparare una sorpresa. In fondo, anche i più brontoloni tra i concittadini sentivano la mancanza di quello sfavillio festoso. E avevano dimenticato all’unanimità che la pelle di Leo aveva un colore diverso dalla loro.

Sapevo come faceva Lina a rifornirsi di risorse sempre diverse in rete: riunii un gruppo di amici affiatati e ci demmo un gran daffare. Acquistammo gli ornamenti e preparammo le scene più belle che riuscimmo a scovare: una gigantesca cometa fu piazzata in giardino; un bell’angelo faceva bella mostra di sé con le ali spiegate davanti alla pasticceria; una renna luminosa troneggiava burrosa nel viale. Lavorammo davvero tanto. Riuscimmo persino a convincere l’intera comunità ad addobbare le case in occasione della festa. Ciascuno lo avrebbe fatto a modo suo, come preferiva: ma ogni dimora nel villaggio, anche la più spartana, avrebbe salutato con uno scintillio trionfante la salvezza del giovane che avevamo imparato ad amare. Il sindaco e il parroco furono dei nostri.

All’improvviso, balenò nella memoria di ciascuno il ricordo di tanti gesti carichi di altruismo che il pasticciere e sua moglie avevano compiuto con assoluta discrezione.

Quando l’automobile che riportava a casa Leo imboccò la strada provinciale, al segnale convenuto centinaia di addobbi originali si accesero all’unisono mentre musiche indimenticabili si diffondevano ovunque accompagnando il volteggiare dei primi fiocchi di neve. Era il nostro modo di abbracciare quella famiglia speciale e coraggiosa, che aveva arricchito il nostro borgo con tante novità, garantendo contemporaneamente benessere, buonumore e stipendi sicuri.

Vedere la gioia dipinta sui volti stanchi di Fabio, Lina, Leo e Ruth, mentre i cani correvano loro incontro scodinzolando a distesa e le luci scintillavano nella notte, fu un’esperienza indimenticabile.

E l’angelo dalle immense ali candide davanti a “Dolci di fata” sembrava ancora più imponente. Come se per un momento fosse diventato vero.

 

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