storia vera di Marcello G. raccolta da Alessandra Mazzara
Mamma era così. Era libera, era sfrontata, era tenera, era senza regole, senza pregiudizi.
Diciottenne sessantottina, aveva lasciato gli agi di una famiglia veneziana e girato le spalle a convenzioni alto borghesi che la nauseavano, senza più tornare indietro. In autostop aveva raggiunto Bologna e là si era unita alla comune di un gruppo di amici, ragazzi e ragazze come lei, fiori tra i capelli, abiti colorati, foglie secche di erba nelle tasche, svincolati dall’ordinario modo di vivere.
Libertà, pace e amore libero con tutti, svincolato dall’impegno convenzionale del matrimonio, istituzione che mamma aborriva: erano questi gli unici ideali del gruppo, le sole coordinate da seguire. Nacqui in mezzo a tutta quella gente in una fredda sera di dicembre, ciccione, urlante e pieno di coliche, con gli stessi capelli scuri e gli occhi viola di mia madre.
Chi fosse mio padre, non lo seppi mai. Né lo seppe mai Veronica, mia madre. Uno dei tanti della comune, che importanza avrebbe avuto saperlo?
Fui introdotto alla vita degli adulti fin da subito. Camminavamo a piedi nudi, ci si abbracciava anche senza motivo, condividevamo tutto, spazi, cibo, letti, vestiti.
E l’erba che li stordiva e imbambolava era la compagna di tutte le sere estive stellate e di quelle uggiose invernali, i loro nasi all’insù a osservare il cielo e a chiedersi cosa avesse di malato questo folle mondo, mentre io facevo solo una cosa, guardavo il volto splendido e luminoso di mia madre, fino a farmi male gli occhi.
Ieri, oggi e domani.
8 e ½.
I compagni.
Matrimonio all’italiana.
Divorzio all’italiana.
E poi sempre, La dolce vita, il suo preferito.
Sotto le coperte abbracciato a lei imparavo a memoria le battute solo per farla felice, perché in realtà io, di quelle storie bianche e nere non ci capivo proprio niente. Ma a Veronica brillavano gli occhi ogni volta che infilava la cassetta in quel mangia film. E io, per quegli occhi viola così uguali a miei, morivo. Anita si muoveva sinuosa nella Fontana di Trevi e Veronica la guardava imitandone le movenze, anche se lei il fisico della Ekberg proprio non ce l’aveva. Era magrissima, le si potevano contare le ossa attraverso le canotte strettissime che indossava. Ma a lei non importava.
Si alzava dal letto scoprendomi e cominciava a muoversi come fosse anche lei in quella fontana, muovendo la sua lunga gonna a fiori gialli e rossi e neri.
«Marcello, come here!».
Quanto l’ho amata, la voce di mia madre.
Poi, arrivò Pierre. Alto, occhi azzurri e capelli castani. E francese, molto francese. Si unì alla comune che io avevo appena compiuto sette anni. Era il dicembre del 1977. Veronica aveva 27 anni, anche se continuava a dire in giro di averne 22.
Ebbe 22 anni per così tanto, tanto tempo…
Io crescevo, ma lei no. C’era in lei e nel suo sguardo una scintilla infantile dolce e viziata che la faceva sembrare una ragazzina. E quando rideva, era ancora più bella. Di tutto questo Pierre se ne accorse subito, la prese per mano e la fece ballare intorno al falò. L’aria era gelida, io me ne stavo stretto alla mia coperta e li guardavo danzare, guardavo gli occhi di Pierre e quelli di mia madre che si incontravano e non si staccavano mai e nel mio stomaco sentii per la prima volta dolore e il bruciore di quella cosa che poi seppi chiamarsi gelosia. Ma non dissi nulla, non feci scenate, non urlai “Come here!”, perché gli occhi viola di Veronica brillavano e io vivevo per quelle due stelle.
Partimmo sulla roulotte di Pierre un mese dopo, io, Veronica e il francese, verso la Provenza. Tutti i vhs e le foto appiccicate al muro di Mastroianni, e le scene dei film ai piedi del letto e “Marcello, come here”, tutto questo restò alla comune. Lontano da noi.
Ad Avignone, città natia di Pierre, mamma s’innamorò della lavanda. La raccoglieva lungo i sentieri, poi la faceva essiccare e la raccoglieva in sacchettini di garza viola, tenuti fermi da mazzolini di fiori secchi, e li vendeva ai mercatini rionali. Io la raggiungevo dopo la scuola, le sedevo accanto e la osservavo mentre riempiva i sacchetti, gesti lenti, studiati, perfetti.
«Senti un po’ che bel profumo, Marcello» mi diceva arrotondando le erre, perché Veronica ancora non sapeva il francese ma si sforzava per non sentirsi troppo diversa.
Quando imparò a fare anche l’olio essenziale la sua bancarella attirò più persone e io vedevo i suoi occhi viola illuminarsi sempre di più. L’abbracciavo da dietro mentre lei trasformava quei fiori in profumo.
Veronica si voltava e mi baciava le guance, lasciava per un attimo la lavanda e mi stringeva a sé. E io, figlio devoto, mi innamoravo sempre di più.
Poi, una notte d’estate, Veronica mi svegliò. Mettendosi un dito sulle labbra, mi fece cenno di alzarmi e prepararmi. Mi vestii senza fare domande. Alle prime luci dell’alba salimmo su un pullman e tornammo a Bologna, una sola borsa con dentro chili di lavanda.
«E Pierre?» chiesi.
Lei mi scompigliò i capelli e non disse nulla. Non era fatta per l’amore, Veronica. Era un animale selvaggio, io l’unico a far parte del suo branco. Non mi importava. Finché stavamo insieme, che sparissero pure tutti i Pierre del mondo. Alla comune, mamma continuò il suo lavoro con la lavanda, altre bancarelle, altri mercatini. E di nuovo, la sera, mamma inseriva nel mangia film le videocassette e trasformava ancora una volta il nostro letto a una piazza nella Fontana di Trevi.
Anni dopo, quando la comune si sciolse, Veronica mi prese per mano e con una sudicia valigia piena di lavanda e di ideali, ci trasferimmo in un monolocale umido e pieno di ragni, con i mobili presi dai cassonetti e le tende cucite con le gonne che non le stavano più. Ma era la nostra casa, mia e della meravigliosa donna con gli occhi viola, che poteva importarmene di tutto il resto?
Iniziò per noi una nuova fase della nostra vita: io continuavo con la scuola, mamma con le sue bancarelle. Non ci mancava nulla. Io con lei e lei con me, avevamo tutto.
Avevo 17 anni quando conobbi don Attilio. Un compagno di scuola mi aveva invitato quel pomeriggio al campetto di calcio della parrocchia per una partita. Il curato ci aveva raggiunti alla fine del primo tempo, perdevamo, eravamo un po’ giù. Lui, stretto nello scuro e lungo abito talare, ci aveva incoraggiati con pacche sulle spalle e sorrisi gentili. «Come ti chiami?» aveva chiesto poi, rivolgendosi a me.
«Marcello».
«Ti aspetto in parrocchia, Marcello, alla messa di domenica alle dieci».
Feci di sì con la testa. La messa. Ma cos’era esattamente? Non avevo mai messo piede in una chiesa. Mamma detestava apertamente il clero, vedeva nelle chiese luoghi oscuri pieni di male.
Era molto semplice, la parrocchia di don Attilio, con un grande crocifisso appeso in fondo alla navata.
Mi sedetti in fondo e seguii la funzione dall’inizio alla fine. Per la prima volta qualcosa, o meglio qualcuno, che non fosse mia madre mi ipnotizzava fino a togliermi il respiro.
«Sono felice tu sia venuto, Marcello. Se ti va, ogni martedì pomeriggio tengo qui un corso biblico per ragazzi».
Non dissi nulla. E non andai. Veronica mi avrebbe tagliato la testa, se solo lo avesse saputo. Eppure. Eppure la sera solo nel mio letto sentivo battere il cuore e una voce nelle mie orecchie farsi sempre più insistente. Tornai nelle settimane che seguirono ogni domenica. A mamma dicevo che andavo in giro con gli amici. Là, seduto sul banco di legno, ogni tumulto del mio cuore si placava. E quella voce, quel richiamo, quel volermi tutto per sé, che sentivo si faceva così forte da stordirmi.
«Voglio entrare in seminario» dissi a don Attilio sputando le parole come fossero spilli conficcati in gola di cui liberarmi.
Don Attilio mi guardò serio. «È un percorso lungo, Marcello. E anche doloroso, che comporta rinunce e sacrifici».
«È a Dio che voglio unirmi, non alle cose di questo mondo». Da dove uscivano fuori quelle frasi? Poteva un ragazzino cresciuto circondato dall’hashish e senza regole, essere chiamato da Dio e a Lui rispondere di sì? «Ma non sono stato battezzato» ammisi poi chinando il capo pieno di vergogna.
Mi battezzai. Mi comunicai. Mi cresimai. Tutto questo nel giro di un anno e senza che Veronica sapesse nulla. Amavo ancora mia madre così tanto da sentirmi uno schifo al solo pensiero di darle un dolore. Perché per Veronica, quello, sarebbe stato davvero un grande, immenso dolore. Continuai a nasconderle la vocazione, fino a che una sera di agosto arrivò e mi mise in mano uno scatolino.
«Sei grande, Marcello. Così bello, con quegli occhi stupendi che hai, chissà quante te ne andranno dietro. E quante te ne sarai già fatte… Sii prudente, amore mio». Guardai la scatola. Mamma mi aveva comprato un pacco di preservativi. «Su, Marci, non arrossire. Lo sai che a me puoi dire tutto e che mai ti giudicherò. Perciò, dimmi: com’è che si chiama la tipa? Perché io, alla storia del campetto di calcio ogni giorno e ora pure la domenica mattina, mica ci credo».
Sorrise. Sorrise con quel sorriso che da bambino mi faceva tremare le gambe dal troppo amore. Ma ce n’era un altro, adesso, di amore, che si faceva sempre più forte e che non potevo più nascondere. Le presi una mano e nel suo palmo poggiai i preservativi. Veronica mi guardò stupita.
«Non c’è nessuna ragazza, mamma» dissi guardandola negli occhi. «È in chiesa che vado ogni giorno. Voglio entrare in seminario. Voglio farmi prete, mamma».
Vidi il volto di mia madre farsi prima rosso, poi impallidire. E i suoi occhi, quelle due meravigliose stelle che tanto avevo amato e venerato, spegnersi per colpa mia.
«Stai scherzando?» mi chiese.
Feci di no con la testa. Veronica mi guardò e capì che quello che le avevo appena detto non solo non era uno scherzo, ma addirittura che quelle parole nascondevano una volontà incrollabile. Urlò, imprecò, bestemmiò, gettò in aria il suo tavolo pieno di fiori di lavanda e sacchettini, si strappò i capelli, si maledisse.
«È davvero quello che vuoi, Marcello?» chiese con un filo di voce.
«Sì».
Allungò il braccio destro indicando con il dito indice la porta. «Allora, vattene. Non voglio vederti mai più. Meglio un figlio morto, che prete».
Mi uccise. Trafisse il mio cuore con mille pugnali. Lei, Veronica, la donna che aveva fatto della libertà personale il suo unico Dio, adesso malediceva me, il suo unico figlio, per aver scelto in libertà un sentiero di vita diverso dal suo. Chinai il capo e dinanzi a tanta ostilità mi avvicinai alla porta.
«Non voglio più vederti, Marcello. Torna da me solo se avrai cambiato idea».
Me ne andai, le lacrime che mi bagnavano il viso per quell’amore per lei che ancora scoppiava nel mio cuore, ma che Veronica aveva rifiutato.
Non tornai. Mi diplomai, entrai in seminario, studiai. Alla mia ordinazione, prima di gettarmi a faccia in giù per terra, guardai alla ricerca di mia madre. Non c’era. Diventai prete e venni traferito in un paesino di campagna. Negli anni che seguirono scrissi così tante lettere a Veronica da perderne il conto. La chiamai al telefono, bussai alla sua porta, ma mai che ricevessi una risposta.
Mi dedicai al prossimo, ai miei parrocchiani, alle esigenze dei più poveri con abnegazione assoluta. Era quella la mia vocazione, era a Dio che avevo scelto e deciso di dare il mio tempo, le mie energie. Ma nella mia vita mancava Veronica. I suoi occhi viola, la sua risata, i suoi sacchettini alla lavanda. Gli anni passarono, il silenzio tra me e lei divenne un abisso. Smisi di scriverle, di cercarla. Dovevo rispettare la sua volontà, anche se per me significava soffrire. Quando quattro giorni fa è squillato il telefono della parrocchia, ho pensato ai soliti vecchietti che chiamano per sapere gli orari delle messe.
Era, invece, il mio passato a chiamarmi, dopo 36 lunghi anni.
Qualcuno mi ha detto che Veronica stava morendo e che con un filo di voce aveva chiesto di Marcello, di me, del suo unico figlio. Ho lasciato tutto là com’era, sono partito in macchina correndo come un folle. Veronica stava distesa sul suo letto, sempre lo stesso, quello che per anni avevamo condiviso insieme.
Era vecchia, magra, pallida. Malata. «Mamma» ho gridato, con la voce spezzata dal pianto.
Lei ha girato il volto verso di me. I miei occhi viola hanno incontrato di nuovo i suoi, uguali ai miei.
«Marcello, come here!» ha sussurrato.
Inginocchiato al suo capezzale, le ho stretto la mano.
«Perdonami, figlio mio…» ha iniziato con un filo di voce.
«Non parlare» le ho detto poggiando delicatamente un dito sulle sue labbra secche e bianche.
«Dimmi che mi perdoni, Marcello» ha continuato affannata e stringendomi tra le mani rinsecchite. «Ho bisogno di sapere che mi perdoni».
Mi sono avvicinato a lei. Il suo odore adesso, era di disinfettante e malattia. Ho avvicinato la mia guancia alla sua. «Ti ho perdonata subito, mamma, quando mi cacciasti di casa. Ti ho tenuta stretta nel mio cuore, giorno dopo giorno».
«Marcello» ha sussurrato lei, «mio figlio, il mio unico grande amore. Perdonami. Perdonami. Perdonami».
Le ho somministrato l’estrema unzione.
«Ti perdono, mamma cara, ti perdono. Vai in pace e di’ a Dio che non voglio un paradiso senza di te».
È morta con quella supplica tra le labbra, stringendomi la mano. Sono rimasto con lei finché non l’hanno chiusa nella sua bara di mogano, vestita di bianco e con un mazzolino di lavanda ai piedi. Le ho legato le mani giunte con un fazzoletto, secondo la tradizione cattolica per le madri dei sacerdoti, un nodo simbolico che io, quando sarà il mio momento, scioglierò in cielo. Poi l’ho riaccompagnata alla terra, pregando per la sua anima.
Sono passati quattro giorni dalla sua morte. Sono solo nelle sue stanze a raccogliere le sue cose, carabattole, stracci e suppellettili. In un cassetto trovo un gruppo di lettere legate da un nastro blu. Le riconosco subito, sono quelle che negli anni le ho inviato, senza mai una risposta.
Veronica le aveva raccolte e custodite tutte, una per una. Avrebbe potuto strapparle, gettarle nella stufa. Invece, le aveva lette e tenute con sé, conservate nel fondo buio di un cassetto. Le metto in una borsa, insieme ad alcuni sacchettini alla lavanda e ai vhs con i film di Mastroianni. Porto a casa solo queste cose, il resto lo donerò ai bisognosi.
Con quei ricordi tra le mani, lascio casa di mamma e mi incammino verso la chiesa più vicina. Entro, mi inginocchio e chiedo al mio Dio di accoglierla. Perché Veronica, nonostante tutto, è stata per me una buona madre. Perché era solo un essere umano, con le sue fragilità.
Perché nei suoi bellissimi occhi viola io ho visto sempre tanto amore ed è solo grazie a quello, all’amore, che ci salviamo. Perché nonostante tutto, con Veronica, ho vissuto una vita piena, fatta di caos e di tante cose strane, ma pur sempre bella, completa, divertente, strapiena di affetto. Una vita che ci ha uniti e poi divisi, per poi non lasciarci mai più.
La nostra vita.
La nostra dolce vita.●
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