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Cuore
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Felice Tagliaferri, artista non vedente di fama mondiale, per la Giornata della Disabilità (il 3 dicembre) realizza a Roma un'opera collettiva dedicata all'Europa. Qui la sua storia

Storia vera di Felice Tagliaferi raccolta da Mariella Loi

La mia è una storia che viene da lontano, che odora di campi arati e distese sterminate in quella fertile terra di Puglia dove sono nato. Pascoli come soffici tappeti d’erba sui quali mio nonno pascolava le pecore. È stata un’infanzia spensierata la mia, fatta di corse a perdifiato. Ero un bambino felice in una famiglia modesta nella quale la fatica era parte della quotidianità. Papà era il camionista, un lavoro duro che non faceva sconti. Mamma era casalinga e si occupava di noi figli, quattro in tutto, due maschi e due femmine. Poi, quando avevo otto anni, siamo andati a vivere a Bologna.
Oggi si direbbe che ci siamo trasferiti, ma a quei tempi la realtà era diversa e chi si spostava lo faceva per emigrare in cerca di fortuna, o quantomeno di un futuro migliore per sé e per la propria famiglia. A questo doveva aver pensato mio padre quando ci aveva portati lungo l’autostrada del Sole. A ripensare a quello che è accaduto dopo, è una fortuna che all’epoca stessimo già al nord perché rimanendo ancora al paese non credo avrei avuto le stesse opportunità. Bologna la grassa, la ricca. Forse nell’immaginario di chi l’ha sempre vissuta guardando il mondo dalle colline di San Luca. Ma noi siamo andati a vivere al Marco Polo, un quartiere periferico e non il primo posto che pensi di visitare quando vai a Bologna. Io comunque ero un bambino felice, a quell’età si amano i cambiamenti. Una città nuova voleva dire nuovi amici, spazi immensi da esplorare. In sella alla mia bicicletta, correvo all’impazzata e quegli spazi, uno per volta, li ho perlustrati tutti.

Poi ci sono gli angoli più nascosti dell’anima, quelli dove si accende il primo amore che ti leva il fiato. Già, perché se il cuore non batte forte a 12 anni con la prima ragazzina che stringi tra le braccia, quando mai può accaderti una simile rivoluzione? E chissà cosa ne sarebbe stato delle nostre vite se quella storia fosse continuata: è una domanda che ti poni ogni tanto e alla quale non esiste risposta. Poi è arrivata la malattia, il buio: è così che lo immaginano gli altri, ma non è mica vero che diventa tutto buio. In ogni caso, l’oscurità non mi ha mai fatto paura, neanche da bambino.
Perdere la vista nell’età in cui sbocci alla vita è un dolore enorme, fisico, mentale, uno strappo dell’anima, un lutto da vivere. Perché il lutto non è solo quando ti muore qualcuno: la perdita di una parte di te, di una tua abilità non è da meno. Ci devi fare i conti tutti i giorni e, all’inizio, la rabbia è la risposta più facile perché ti esenta dal dover gestire i cambiamenti importanti, quelli che non hai voluto. Io di rabbia ne ho avuta tanta e sono stati lunghi i due anni trascorsi chiuso in casa con quella compagna ingrata a farmi da spalla. Ma poi il lutto va elaborato. Certo, richiede il suo tempo e nessuno sa quanto ce ne vuole. Però arriva il momento di reagire perché chi si ferma è perduto. E se non puoi cambiare quello che è stato, puoi costruire quello che viene dopo. Io di stare in casa mi ero stancato, avevo voglia di vivere, di lavorare e di essere autonomo. Allora ho studiato e ho trovato un lavoro come centralinista alla provincia: questo impiego mi ha consentito già a 18 anni di andare a vivere da solo. Non che fosse facile, ma per fortuna il carattere non mi è mai mancato; se non fosse stato così mi sarei perduto. Poi nella vita ci sono gli incontri che il destino ti riserva per metterti alla prova, per vedere se hai capito che le cose belle sono ancora possibili. Per me il destino vestiva i panni di Nicola Zamboni, uno scultore bolognese allora docente all’Accademia di Brera: voleva capire se la cecità fosse un ostacolo per chi desiderava cimentarsi con la scultura, così chiamò tre persone non vedenti nel suo laboratorio per un tirocinio. Quell’esperienza fu una rivelazione: scoprire che la disabilità non era di impedimento nell’esercizio dell’arte  ma, al contrario, poteva essere una risorsa, è stata la chiave di volta che ha rivoluzionato la mia vita. Non avevo mai pensato di fare l‘artista: l’arte non era contemplata nei miei percorsi e non sarebbe mai entrata a farne parte se non avessi scoperto che era il mezzo per portare alla luce il mio mondo interiore. Un mondo popolato di immagini: le pecore di mio nonno, o il salvadanaio di quando ero bambino che, non a caso, è stato il mio primo lavoro.
Ma il ricordo spesso inganna perché non si mantiene uguale nel tempo. Me ne sono reso conto quando, qualche mese fa, mi hanno chiesto di realizzare la scultura di una mucca. Io ero convinto di ricordarmi bene come era fatta perché mi era rimasta impressa l’immagine stampata su una confezione del latte. Invece non era così e ho dovuto toccarne una dal vero per due giorni per poter realizzare il lavoro.
Spesso in molti mi chiedono come sia possibile rappresentare cose non viste, se non nella mente. Ma l’arte è proprio la rappresentazione di un’immagine che nasce nella mente e che, con l’uso sapiente delle mani, diventa oggetto.

Io scolpisco le mie opere esattamente come fanno tutti gli scultori, con le mani e con l’attrezzatura del mestiere. La differenza tra me e uno scultore normovedente sta nel modo in cui utilizzo gli attrezzi: ma nella mia professione, gli strumenti più importanti sono il tatto e le mani.
Negli anni ho imparato a lavorare tutti i materiali: la creta, il marmo, il legno, la pietra. Ognuno ha le sue peculiarità e per questo richiede di essere plasmato con tecniche diverse: il marmo vuole forza, la creta esige gentilezza. Un po’ come le persone: ciascuna va presa a suo modo e lo stesso succede con gli animali.
Prendi per esempio Tobia, il mio cane. Ci siamo conosciuti in un canile dove lo tenevano in isolamento per comportamento aggressivo. Invece noi due ci siamo piaciuti immediatamente, tanto che è stato il mio compagno di vita per 12 anni e quando è mancato ha lasciato un vuoto incolmabile.
Sempre in tema di incontri, il più importante è stato quello con Gabriella, che è la mia compagna da 14 anni e la madre di mio figlio Alberto che di anni ne ha soltanto otto, ma è già un ometto. A pensarci bene, anche l’incontro con Gabriella lo devo un po’ a Tobia: se lei e io ci siamo conosciuti è stato anche grazie a lui perché è del mio cane che lei si è innamorata prima ancora che di me.
Non so quando è accaduto che la mia arte è diventata popolare: è successo tutto talmente in fretta che neanche me ne sono accorto. Ancora oggi sorrido quando mi dicono che sono diventato famoso perché io sono una persona semplice che si prende sempre la libertà di dire la sua.
Come quella volta che, in vacanza a Napoli nel 2008, volli andare a visitare il Cristo Velato di Giuseppe Sanmartino, ma non mi fu permesso di toccarlo e quindi di “vederlo”. Protestai vivamente in quell’occasione: non poter prendere contatto con un’opera d’arte è discriminante per i non vedenti perché non consente loro di coglierne la bellezza.
Questo rifiuto mi colpì così tanto che, per reazione, decisi di realizzare un’opera con lo stesso soggetto proprio perché fosse “visibile al tatto” e che ho intitolata Cristo Rivelato: dal 2010 a oggi è stata “vista” e toccata da più di 500.000 visitatori. Un’esperienza unica, che trasmette un messaggio anche a chi è normovedente: l’arte è un linguaggio universale e unisce tutti, ciascuno con i sensi che ha a disposizione.
C’è ancora molto da fare riguardo l’accessibilità all’arte, ma grazie anche a realtà come il Museo Tattile Statale Omero di Ancona, che da 25 anni diffonde questo modello di accessibilità, oggi anche grosse realtà museali come il Louvre e i Musei Vaticani hanno una sezione tattile riservata ai non vedenti.
Un altro tema che mi sta molto a cuore è la trasmissione della propria esperienza agli altri. Non a caso qualcuno ha definito il mio vissuto artistico “arte solidale”. Perché io non mi limito a creare e sono convinto che l’arte debba essere insegnata, non solo ai ragazzi non vedenti, ma a tutti, senza distinzione di età, tanto che non è raro incontrare tra i miei allievi qualche arzillo ottantenne.
E con la finalità di creare un laboratorio artistico per ragazzi non vedenti nasce la mia collaborazione con CBM (“Christian Blind Mission”) una ong da molti anni in prima linea nella lotta contro la cecità e le disabilità nelle aree del sud del mondo. Il film documentario Un albero indiano del quale sono protagonista nasce nel 2014 ed è stato girato interamente in India presso la Bethany School, una scuola inclusiva sostenuta da CBM.
Il film (prodotto da Silvio Soldini e Giorgio Garini) documenta come abbiamo contribuito ad avviare un corso di lavorazione della creta in una classe di bambini con disabilità gravi (ciechi e sordo-ciechi) e altri normodotati.

Nel corso di questo viaggio, ho avuto modo di incontrare persone straordinarie, come la direttrice scolastica della Bethany: divenuta cieca giovanissima e forte della sua esperienza, è riuscita a creare un modello educativo inclusivo. Una scuola senza barriere, dove ciascuno con le proprie doti artistiche è messo nelle condizioni di insegnare qualcosa agli altri.
Ma per me i progetti si susseguono uno dopo l’altro e da poco, dopo aver potuto toccare la riproduzione della Pietà vaticana di Michelangelo, ne ho avviato uno molto significativo.
L’opera che sto realizzando da qualche mese sarà una Pietà ribaltata dove, contrariamente al modello originale, è il Figlio a sorreggere il corpo della Madre. L’intento simbolico dell’opera è duplice: richiamare l’attenzione sulla cura che i figli devono prestare ai propri genitori e su quella che l’uomo, spesso autore di violenze contro il mondo femminile, deve avere nei confronti della donna. Per questo, l’opera sarà presentata in una mostra al Castello di Ferrara in occasione della celebrazione dell’8 marzo.
Perché l’arte, da sempre portatrice di bellezza, deve essere anche veicolo di giustizia e di impegno sociale.
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Nella foto: Felice Tagliaferri in India, dove ha insegnato a bambini disabili a lavorare la creta

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