storia vera di Patrizia Li Vecchi raccolta da Alessandra Mazzara
Un pomodoro.
Il suo regalo per me.
Ricordo che lo presi con le mani che tremavano. Che colpa aveva, papà, se la vita non era stata benevola con lui?
Mamma era diversa. Fredda e distante, ricordo di non aver mai ricevuto da lei un bacio né un abbraccio. Come molte donne siciliane dell’epoca, viveva la sua vita attraverso gli occhi degli estranei. “Cosa deve pensare, la gente?” era la sua più grande ossessione. Per questo, obbligava noi figlie femmine a una vita in bianco e nero, rigida, senza colore né sapore. Non potevamo uscire, non potevamo parlare al telefono, non potevamo vestire scollate, non potevamo truccarci, non potevamo chiacchierare in piazza con le amiche, non potevamo studiare. Ma se le mie due sorelle sembravano vivere bene quelle regole insensate perché simili a mamma per indole e aspirazioni, io smaniavo, trovavo tutto questo assurdo, volevo conoscere cosa si nascondeva al di là del mare, al di là del Monte Pellegrino, al di là dei confini monrealesi. Non potendolo fare, non potendolo vedere, quel mondo là fuori, iniziai allora io, di nascosto, a crearne uno tutto mio, riempiendo pagine e pagine di un diario di pensieri, racconti, immagini, storie che inventavano e che mi facevano compagnia in quelle giornate insapore e solitarie. E quando non scrivevo, leggevo. Un’amica comprava per me la mia rivista preferita e io la leggevo la sera, quando già tutti dormivano, alla luce di un abat jour. Anche la lettura era cosa proibita. Quelle pagine, le divoravo non solo con gli occhi, ma anche con l’anima. Che soffriva per quell’assurdo isolamento, per quelle regole bigotte, ma che tuttavia non si scoraggiava. Poi, quando la stanchezza prendeva il sopravvento, chiudevo fogli, rivista, diario in una scatola e la nascondevo sotto il letto. Era il mio segreto.
La mia via di fuga.
La mia scialuppa.
Dovetti attendere i 18 anni per poter finalmente intravedere uno squarcio di libertà. Con in tasca un diploma professionale, perché il liceo, mamma, non volle che lo frequentassi, nonostante le mie suppliche, iniziai a lavorare a Palermo come rappresentante di enciclopedie per una nota casa editrice.
Come mai mamma, rigida e bigotta com’era, mi permise di vivere da pendolare, resta ancora oggi un mistero per me.
Arrivai a Palermo e quasi mi mancò il fiato per quanto ne rimasi affascinata. Le strade enormi, tutti quei palazzoni, la folla di gente che andava e veniva senza nemmeno curarsi di te, i rumori, era tutto nuovo per me. Me ne innamorai. Di quel caos, della vita frenetica, dell’anonimato che finalmente mi circondava, del poter camminare per strada senza sentire addosso gli occhi delle comari del paese, pronte a sentenziare sull’orlo troppo corto della gonna o sui capelli, acconciati troppo vistosamente.
Ma Palermo non fu solo questo. Fu anche l’amore. Al lavoro, infatti, conobbi Giorgio, un collega. Avevo 19 anni, lui uno di più. Ci innamorammo. Giorgio arrivò nella mia storia e all’improvviso iniziai a vedere la vita a colori. Fu l’inizio del paradiso, di un amore bello e vero e passionale. A Monreale, a casa di mia madre, però, la vita continuava a essere in bianco e nero. Quando dissi ai miei genitori del fidanzamento, fu l’inizio dell’inferno, per come mia madre reagì a quella storia. Se prima di allora era stata severa, con l’entrata di Giorgio in famiglia le cose si fecero così soffocanti da non sopportarlo più. Era una dura, mamma. Lei metteva le regole, io dovevo rispettarle. Niente uscite in due, niente telefonate, in casa si stava lontani perché non era permesso che ci sfiorassimo o che ci tenessimo per mano.
Io stringevo i denti. Per amore di Giorgio, perché avevo paura di perderlo. Per amore di papà, che assisteva silenzioso a quella follia. Quando, però, anche mio fratello si fidanzò e vidi che a lui, in quanto maschio, era permesso tutto quel che a me veniva ingiustamente negato, iniziai a ribellarmi. A far sentire la mia voce. A litigare. A dire a mamma che le sue regole non mi andavano giù. Quel che ottenni, fu vedere la mia stanza a soqquadro, un giorno di ritorno dal lavoro, la scatola segreta sul letto, le mie riviste strappate in mille pezzi, il mio diario, i miei racconti ridotti a coriandoli. Mamma e le mie sorelle avevano letto tutto. Volevo, forse, macchiare il buon nome di famiglia, con tutte quelle diavolerie?
Capii che il limite era stato oltrepassato. Piansi. Mi disperai.
Ma neanche questo servì a nulla. Allora, mi resi conto che l’unica via per la mia salvezza era la fuga.
Era l’agosto del 1989, ricordo che quel giorno su Monreale soffiava impietoso il grecale, ammorbando tutto con una cappa di umidità quasi insopportabile. Mamma era in cucina, le mie sorelle, come sempre accanto a lei, silenziose e obbedienti come sempre. Mi chiusi in bagno. La finestra era aperta. Casa dei miei era al piano rialzato, forse a neanche un metro da terra. Saltare giù, quindi, non fu né pericoloso né difficile. Nessuno se ne accorse. Corsi velocemente come una lepre inseguita da un branco di lupi affamati e più correvo, più mi allontanavo da casa, più mi sentivo leggera. Arrivai alla stazione e lì trovai Giorgio ad aspettarmi, in mano una valigia piena di niente. Salimmo sul treno. A Roma, dove arrivammo, ci ospitò una mia zia. Chissà che faccia fece, mia madre, quando si accorse che ero scappata dalla finestra del bagno. Chissà cosa dissero, le mie sorelle. Chissà come trasformarono le comari di paese quella mia fuga, quali particolari inventati aggiunsero per renderla più deprecabile. E chissà quanto dolore provò mio padre.
La fuitina, in Sicilia, a quei tempi non si perdonava a nessuno. Era un disonore. Una figlia che scappava col fidanzato era peggio di una figlia morta ammazzata. Io, tutto questo, lo sapevo bene, ma ero a un bivio: scegliere la mia vita o soccombere vivendo quella di mia madre. Scelsi la vita. L’ amore. I miei sogni. Scelsi di essere libera, anche se il costo da pagare fu altissimo. Infatti, tornata a Monreale poco tempo dopo in occasione della festa del Crocifisso di maggio, non mi fu permesso di avvicinarmi a casa. Per mia madre e le mie sorelle ero un’infame, una sgualdrina, una traditrice. Per papà, invece, ero e continuavo ancora a essere Patrizia, la sua Patty, la sua bambina. Allora, di nascosto da mamma e con la complicità di mio fratello, ogni volta che tornavo in paese papà saliva in macchina e mi raggiungeva in un punto lontano da occhi indiscreti e pettegoli. Ci abbracciavamo, ci stringevamo e io, da quelle braccia forti ma stanche, prendevo tutto l’amore che contenevano, ne facevo scorta e me lo portavo a Torino, dove mi ero trasferita. L’amore del mio papà mi cullava la sera, mi confortava la notte.
Il tempo passò. Dopo tre anni di convivenza, io e Giorgio decidemmo di sposarci a Torino, ormai la nostra città. Inviai gli inviti a Monreale, certa che sarebbero stati strappati, invece, questa volta mi sbagliavo. Alla notizia del mio matrimonio, papà sfidò mamma e salì su un treno. Zoppo, vecchio, stanco, attraversò la Sicilia, lo stretto, il paese, fino a Torino.
Il suo primo viaggio. Non era mai salito su un treno, non aveva mai visto la città. I suoi occhi, in realtà, non avevano mai visto nulla oltre i confini di Monreale. Papà arrivò con i vestiti stropicciati, un paio di scarpe vecchie ai piedi.
«Non ho nulla con me, Patty» mi disse con lo sguardo mortificato. «Prima di salire sul treno, tua madre e le tue sorelle hanno buttato via il vestito buono e le scarpe che avevo comprato per l’occasione. Non volevano che io venissi da te. Come faccio ad accompagnarti all’altare, conciato così?».
Lo abbracciai. «Ci penso io, papà» gli dissi.
«E il bastone? Sono un vecchio zoppo, è una vergogna per me accompagnare mia figlia dinanzi a Dio appoggiato a un bastone» disse mortificato.
Gli presi la testa tra le mani, guardandolo dritto negli occhi. «Per me, invece, sarà un onore».
Mi accompagnò all’altare. E io, in quel giorno di festa, mi sentii una figlia molto amata.
La vita continuò. Nacque mia figlia. Cambiai più lavori.
Nel frattempo, a ogni festa del Crocifisso di maggio, tornavo in paese, sempre alle stesse condizioni: io, donna adulta e madre, a elemosinare amore da una madre anaffettiva e offesa da un torto mai davvero subito, costretta a vedere il povero vecchio padre di nascosto.
Era il febbraio del 2012 quando mio fratello mi chiamò per dirmi che papà aveva avuto un ictus. Non ci pensai neanche due volte, presi il primo aereo e tornai in Sicilia. Papà era a letto, in uno stato di semi incoscienza. Mi inginocchiai accanto a lui, gli strinsi una mano, gliela baciai, mentre le mie sorelle e mia madre mi lanciavano sguardi carichi di indignazione. Le lasciai fare. Il loro odio faceva ancora male, ma non mi toccava più. «Grazie di tutto, papà caro» gli sussurrai.
La notte del 12 febbraio, mio padre chiuse gli occhi per sempre. Aveva 89 anni. Con lui se ne andarono anche le mie radici, il dolore era così grande che faticavo a riprendermi. Poi, tre anni dopo, la vita mi tirò un altro colpo basso. Una diagnosi di cancro, nel dicembre del 2015, rimise tutto in discussione. Rischiavo di morire, ma non volevo farlo senza aver prima fatto pace con mia madre. Perché, nonostante tutto, le volevo ancora bene. Tornai a Monreale. Le diss del tumore. E mamma, improvvisamente, cambiò. Forse, l’idea di perdermi davvero le fece capire che era arrivato il tempo, per lei, di dimenticare. Di certo, per me, era arrivato quello di perdonare.
In quest’album che continuo a sfogliare ho una foto, solo una, di me e mia madre insieme, abbracciate. La custodisco come fosse una reliquia, ciò che rimane di un amore mai dimostrato, mai ricevuto. Da quel momento, vedendola più morbida nei miei confronti, mi assalì il rimorso.
E se fossi stata con lei più paziente? E se avessi cercato di riavvicinarla in altri modi? Ormai, però, per noi il tempo era scaduto. E proprio quando il mio tumore stava per guarire, mia madre morì. Era un mattino d’estate. Volevo dirle addio, ripresi l’aereo, tornai ancora una volta in Sicilia. Ma non avevo fatto i conti con l’astio delle mie sorelle, che mi sbarrarono la strada, impedendomi di entrare in casa, tanto da richiedere l’intervento delle forze dell’ordine. La morte di mamma, chiuse un’epoca. Ormai niente e nessuno mi legava più alla Sicilia.
Tornai a Torino col cuore a pezzi. Dal finestrino dell’aereo vedevo la mia terra allontanarsi e farsi sempre più piccola. A casa, mi sentivo inquieta, depressa, triste, insoddisfatta. Fu allora che riscoprii la lettura e, con essa, la scrittura. Ricominciai a comprare la rivista che leggevo di nascosto da ragazza e a scrivere storie, racconti, favole. Nacque così Nello la rana e le sue avventure, una serie di libri per bambini autopubblicati. La scrittura mi confortava, la lettura mi consolava. Entrambe, senza neanche accorgermene, mi hanno salvato.
Oggi sono una donna serena. Ho il mio lavoro, i miei libri, Torino è la mia casa. Giorgio è ancora al mio fianco, siamo nonni di due splendidi nipotini che riempiono i nostri spazi di voci allegre. I miei sogni, li ho realizzati tutti con le mie forze. Il ricordo di mamma e papà è custodito nel mio cuore. Il rancore non mi avrebbe portata da nessuna parte, ho capito presto che il perdono è l’unica via per la pace dell’anima. Chiudo l’album di famiglia e lo rimetto al suo posto. Fuori, il temporale si fa sentire, picchiando forte contro i vetri. Dal tavolino prendo una copia della mia rivista preferita. Confidenze. La rivista che leggevo di nascosto, che nascondevo sotto il letto. Quella che mamma e le mie sorelle, un giorno, hanno strappato in mille pezzi. Alle sue pagine, oggi affido la mia storia. E questa, è la mia più grande rivincita.●
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articolo pubblicato su Confidenze n. 42 2025
















