La nipote della sposa

Cuore
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Un racconto leggero e divertente che ci invita a credere che c'è speranza per tutti. È la storia più votata dalle lettrici per il n. 21 di Confidenze

A 33 anni, avevo una vita solitaria fatta di dialoghi surreali con un pappagallo, una convivenza finita alle spalle e una nonna affascinante pronta a dire sì per la seconda volta. Per tutti ero una single impenitente. Ma io non avevo rinunciato a sognare…

Storia vera di Virna s. Raccolta da Alessandra Maria Mazzara

Mia madre ha un talento innato naturale: chiama sempre nei momenti meno opportuni. Come un segugio fiuta l’attimo più impegnato, l’istante più imbarazzante, ed ecco che puntuale arriva con la sua chiamata. Ma non finisce qui. Sì, perché, una volta iniziata la conversazione, mia madre tiene il suo interlocutore in ostaggio con preamboli dalla durata infinita e con narrazioni piene di subordinate e di particolari inutili che alla fine si scoprono essere assolutamente estranei al motivo principale della telefonata, che qualsiasi persona sana di mente farebbe durare pochi minuti, ma che lei dilata in tempi biblici.Ecco.Era un venerdì pomeriggio di fine aprile quando mi arrivò una di quelle chiamate. Come ogni venerdì, ero immersa nelle pulizie di casa e in un riordino confuso e polveroso. Lavoro come maestra in una scuola primaria, spesso con rientri pomeridiani che si protraggono a lungo, quindi ho solo il fine settimana per fare certe cose. Adoro il mio lavoro, è quello che ho sempre sognato, per il quale ho studiato sodo e ho lasciato la mia città natale per trasferirmi in un paesino di provincia, dove di recente ho anche comprato casa, un delizioso bilocale in un palazzo storico con le travi in legno sul soffitto e le maioliche originali. Lo condivido con Aristotele, un pappagallo Cacatua parlante dalle piume rosa e bianche.

Sì, Aristotele parla. Eccome, se parla! L’ho comprato che aveva poco più di un anno in un negozio di animali esotici. Tra tutti, era senza dubbio il più bello, con quel colore così delicato e gli occhietti furbi.

«un esemplare molto intelligente, una razza addomesticabile e predisposta all’apprendimento di parole e anche lunghe frasi» mi disse il commesso.Non me lo feci ripetere due volte. Appena portato a casa, trasportata da un’inarrestabile deformazione professionale, mi misi di impegno e cominciai a insegnare ad Aristotele prima poche parole, per poi passare a intere frasi.Un anno dopo il mio dolce Cacatua era già in grado di avvisarmi in caso di incendio o di perdita d’acqua, di segnalarmi se avevo lasciato la luce accesa e di chiamarmi in caso di bisogno. In più, giusto per il gusto di divertirci insieme, gli insegnai anche qualche ritornello dei Beatles e delle Spice Girls che lui non solo canticchia ancora oggi con la sua vocina stridula, ma che in più balla picchiettando la zampina sul poggiatoio e tenendo il ritmo muovendo la testolina. Vive libero e non ha mai tentato la fuga, nonostante io spesso tenga le finestre aperte. Evidentemente, Aristotele sta bene con me, come io con lui. Sarebbe un pappagallo perfetto, se non fosse per tutte le parolacce che gli ha insegnato Claudio, il mio ex nonché prima e unica convivenza della mia vita, che mi ha lasciata per una collega più giovane perché gli stavo andando a noia.

«Virna, stare con te è come vivere in una casa di riposo» mi disse raccogliendo le sue cose. È vero, sono molto silenziosa, timida, anche goffa e impacciata, ma credevo mi amasse nonostante tutto. Invece, a quanto pareva, no. Quando Claudio si chiuse per sempre la porta di casa mia alle spalle, Aristotele gli lanciò una lunghissima serie di improperi, ultima traccia della veloce presenza di Claudio nelle nostre vite. Quella fu l’unica volta in cui mi sentii orgogliosa della maledizione del mio tesoruccio. Dopo Claudio, si profilò per me il deserto sentimentale. Nessun altro uomo all’orizzonte, neanche l’ombra. Restammo soli, io e Aristotele, i sabato sera passati a guardare insieme la tivù e pomeriggi fatti di giochini… ma forse ho perso il filo del racconto. Santo cielo, sono come mia madre, mi perdo anch’io in preamboli! Purtroppo, da certi vincoli cromosomici e genetici nessuno può scappare. Allora, dicevo… quella telefonata!

Al sentir squillare il cellulare, Aristotele, che fino a quel momento sonnecchiava sul divano, alzò di scatto la testolina e prese a gracchiare: «Rispondi! Rispondi! Rispondi!».

 

 

Quando lessi il nome “mamma” sul display mi arresi. Poggiai scopa e paletta contro il muro e mi sedetti sul divano, pronta ad ascoltare ore e ore di chiacchiere inutili. Infatti, 37 minuti di preambolo dopo, durante il quale mamma mi parlò di un’imperdibile offerta di carta igienica, della nuova segretaria del medico, del gatto moribondo della zia e dell’influenza dei figli di mia sorella, della cataratta della signora di sopra, dell’ultima puntata di Beautiful e delle analisi del babbo, finalmente andò dritta al motivo della sua chiamata.

«Virna, devo darti una bella notizia: nonna Peppa si sposa. E tra ben due settimane».

Il mio cuore mancò un colpo. Soffro d’ansia e le extrasistole sono per me ormai da anni la colonna sonora dei miei battiti cardiaci. Aristotele, forse intuendo il mio stato d’animo, lasciò il poggiatoio e svolazzò fino al divano, atterrando sulla mia spalla.

«Come sarebbe a dire che si sposa? Ma con chi?» balbettai.

«Conchi? Conchi? Conchi?» gracchiò di rimando il Cacatua.

«Con Ignazio, un signore conosciuto al corso di tango argentino. È una brava persona, vedovo da qualche decennio, un ex capitano dei Carabinieri di tre anni più giovane davvero distinto. Piacerà anche a te, ne sono certa».

Non potevo credere alle mie orecchie.

Avevo 33 anni, una quindicina di chili in più che nessuna dieta o allenamento erano riusciti a togliere, una vita sociale solitaria fatta di poche uscite e dialoghi surreali con un pappagallo, una vita sentimentale praticamente inesistente. E una nonna che si sposava.

E non una nonna qualunque, con lo sciallino sulle spalle e le schiena curva. Nonna Peppa, classe 1944, era ancora bellissima, con quel fisico asciutto, i capelli tra il biondo e il bianco, una Jane Fonda affascinante e dalla vita movimentata, che non solo frequentava un corso di tango, cosa per me già straordinari, in più si sposava. Per la seconda volta. Con uno più giovane di lei.

Volevo morire.

«Quindi, tesoro, per favore, puntuale domani alle 16, hai capito?».

Persa in una disperata e tristissima autocommiserazione, avevo perso il filo del discorso di mamma che nel frattempo aveva continuato a parlare con me, senza che l’ascoltassi.

«Domani?» chiesi come svegliatami da un incubo. «Cos’è che c’è domani?».

Mamma sbuffò. «Sempre distratta, da quando eri piccola. Dicevo, quando nonna si sposò, suo padre, il nonno Tino, non poteva permettersi…».

«Mamma» la interruppi, «ti prego, vai al sodo. Cosa dovrei fare domani?».

«Accompagnare nonna alla scelta dell’abito alla boutique di Margherita».

No. Questo era troppo, perfino per me, abituata a dire sempre a tutti sì.

«Non possono andare Viola e Vera?».

Mia madre fu acida come un limone a dicembre. «Le tue sorelle hanno una famiglia e dei bambini piccoli, tra l’altro tutti influenzati per ora. Tu sei libera, non hai niente da fare» sottolineò caustica, sempre pronta a dimostrare la mia inutilità in questo mondo.

«E tu non puoi?».

«Ho la visita dall’osteopata. Virna, resti solo tu».

Non mi restò altro da fare se non accettare, seppur con un nodo allo stomaco. Quando riattaccai, Aristotele salì sulla mia spalla, sfregò la testolina piumata contro la mia guancia e prese a mordicchiarmi le orecchie, come fa sempre quando è in vena di coccole.

«Ari, mia nonna si sposa, ti rendi conto?» gli dissi. «E vuole perfino che io l’aiuti a scegliere l’abito».

Aristotele mi guardò roteando gli occhietti scuri. «Manda tutti a…».

Gli tappai il becco, prima che fosse troppo tardi.

 

 

La boutique di Margherita è nel pieno centro storico della mia città natale. Non notarla, con tutti quei pizzi e merletti e nastri e luccichii in vetrina, è impossibile. Il paradiso per le ragazze che sognano un matrimonio da favola. Per le ragazze, appunto. Che nonna Peppa avesse scelto di andare proprio lì per il suo abito, mi lasciò perplessa. Ma va be’.

Quel pomeriggio faceva un caldo anomalo e insopportabile. Rivoli di sudore mi appiccicavano la maglietta alla schiena, per non parlare degli aloni sotto le ascelle, ormai troppo estesi per nasconderli. In più, ero in fase premestruale. Insomma, mi sntivo un disastro.

Posteggiai nel parcheggio riservato alla clientela e scesi dalla macchina, poi, impacciata e nervosa, con una mano presi la gabbietta con dentro Aristotele, che avevo deciso di portare con me, e con l’altra cercai nevroticamente di tenere su gli occhiali da miope che, per il troppo caldo, scivolavano sul naso, dandomi i nervi. Così trafelata, entrai. Nonna Peppa, impeccabile nei suoi jeans, mi venne subito incontro.

«Tesoro, che bello rivederti!» mi abbracciò. Odorava di lacca per capelli e sigaretta. «Non vedo l’ora di farti conoscere Ignazio, sono certa che vi adorerete», poi lanciò un’occhiata disgustata ad Aristotele. «Era proprio necessario?».

«L’idea era di lasciarlo da babbo prima di venire qui» farfugliai, «ma non avevo messo in conto il traffico e se avessi fatto così sarei venuta da te in ritardo e…».

Nonna mi zittì con un veloce e indifferente gesto della mano. «A patto che resti in gabbia. Ora andiamo, Margherita ci aspetta di là».

Seguii nonna fino a una delle camere prova dell’atelier in cui le mie sorelle e tutte le donne della famiglia, tutte, eccetto me, è chiaro, hanno comprato il loro abito da sposa. Margherita, la proprietaria, mi accolse con un caldo e sincero sorriso.

«Marghy» disse nonna andandosi a sedere su un divano rosa. «Spero non sia un problema per te la presenza del pappagallo. Sai, mia nipote gli è così affezionata. Del resto, è l’unico uccello con cui Virna ha a che fare».

«Nonna, ma cosa dici?».

«È la verità, cara. Alla tua età avresti già dovuto sistemarti».

«Lavoro, ho una casa tutta mia, sono indipendente. Se non è sistemarsi, questo, nonna, allora dimmi tu come si chiama»

«Intendevo sen-ti-men-tal-men-te» scandì nonna.

Mi arresi. Come sempre, del resto, quando in famiglia esce fuori l’argomento “Virna-è-ancora-single”. Così, sconfitta mi sedetti accanto a lei, che nel frattempo aveva iniziato a sfogliare un album dimostrativo di abiti bellissimi. Ma decisamente poco adatti all’età di nonna.

«Non credi che sia meglio un bel tailleur, nonna?» osai chiedere.

Lei mi guardò come se avessi detto un’oscenità. «L’unico tailleur che ho avuto il coraggio di indossare è stato quello per il funerale di nonno», poi si girò verso Margherita. «Tesoro, vorrei provare questo qui».

“Oh, no” pensai. Quello che aveva indicato nonna era un modello a sirena, in pizzo e pieno di paillettes. Decisamente fuori luogo. Preferii non dire nulla. Che facesse di testa sua, come sempre.

Quando, però, nonna Peppa uscì dal camerino, trattenni a stento le lacrime. Era bellissima.

«Allora, Virna, come sto?».

Raffinata, con quel suo sorriso buono e gli occhi lucidi, era un incanto. La sua non era stata per niente una vita facile. Cresciuta in una famiglia poverissima, si era fatta da sé lavorando come donna di servizio fino a che non aveva incontrato nonno Tino, direttore di banca, che l’aveva tirata fuori dalla miseria. Quanto si erano amati, quei due, la loro era stata una storia bellissima. La morte di nonno, 20 anni fa, fu per lei un duro colpo, superato grazie al suo carattere tosto, alle amiche di burraco e alla sua passione per le passeggiate all’aria aperta.

Ora, tutto quel luccichio e quei merletti e quella felicità e quell’amore ritrovato, nonna se li meritava tutti.

«Sei uno schianto, bambola» gracchiò dalla gabbia Aristotele, togliendomi le parole di bocca.

 

 

Il giorno della cerimonia nonna Peppa era radiosa. Alla fine, non aveva optato per l‘abito da sirena, ma per un sofisticato vestito color burro in stile anni Sessanta lungo fino al ginocchio. Ma anch’io ero molto elegante. Per l’occasione, infatti, nonna aveva insistito affinché comprassi un tubino simile a quello di Audrey Hepburn in Colazione da Tiffany, con tanto di chignon basso e decolleté gioiello.

In più, aveva insistito affinché togliessi gli occhiali e usassi le lenti a contatto.

«Hai due occhi bellissimi, Virna. Non temere di mostrarli» insistette.

Mi guardai allo specchio. Per una come me, abituata alle tute, con i capelli sempre in disordine e senza mai un filo di trucco, quella era proprio una trasformazione.

Il ricevimento si svolse in una location all’aperto, all’aria fresca, dolciastra e profumata di maggio, resa ancora più piacevole dal legame tra nonna Peppa e Ignazio, che non smisero un attimo di mangiarsi d’amore con gli occhi.

«E chi lo ferma più, adesso, quello?»

Una voce maschile sconosciuta mi distrasse dal taglio della torta. Mi girai e poco mancò che non lasciassi cadere il calice colmo di champagne. Davanti a me, l’uomo più bello che avessi mai visto.

«Nonno Ignazio è proprio cotto, non l’ho mai visto così felice. È come rinato, da quando ha conosciuto la signora Giuseppa» disse quell’apparizione.

Gli sorrisi, incapace di formulare frasi di senso compiuto davanti a quegli occhi così intensi da fare male.

«Mi chiamo Stefano», continuò dandomi la mano. «E sono il nipote dello sposo».

Gliela strinsi. «Virna. La nipote della sposa».

Stefano sorrise. «Ottimo. Abbiamo già una cosa in comune, direi».

Poi, la festa continuò.

Ci furono il brindisi.

Le bomboniere.

La torta.

I fuochi d’artificio.

E, mentre tutto questo accadeva, sotto il cielo prima azzurro, poi lilla, poi blu puntellato di stelle, io e Stefano parlammo, ci raccontammo, ci stuzzicammo, circondati dal suono dei violini, dagli invitati che salutavano e a poco a poco andavano via, dal vento che muoveva i fiori e ne sprigionava l’odore intenso nell’aria che sapeva già d’amore.

Quattro mesi dopo, quando Stefano venne da me per il nostro primo fine settimana insieme, finalmente gli presentai Aristotele.

Il Cacatua lasciò il suo poggiatoio e volò fino alla spalla di Stefano. Lo guardò, lo esaminò, lo scrutò come avrebbe fatto un vecchio padre geloso, poi lo lasciò per svolazzare su di me. Mi sfiorò la guancia. «È uno schianto, bambola» gracchiò allegro, sollevando le piume rosa della testolina.

E, senza che neanche ce ne accorgessimo, una nuova vita a tre era appena cominciata.

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