La principessa del vigneto

Cuore
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Vi riproponiamo sul blog una delle storie vere più apprezzate del n. 44 di Confidenze: La principessa sul vigneto 

 

Sono nata in campagna, e ho voluto andarmene. La vita mi ha ripagato con il successo nella metropoli, dove ho trovato l’indipendenza. Ma mi hanno inseguito le parole di mio padre: alla terra si torna sempre. Quando l’ho fatto, dentro di me si è svegliato qualcosa di profondo. Che ha sconvolto i miei piani

Storia vera di Ludovica M. raccolta da Giovanna Brunitto

 

Ogni famiglia ha un suo ritmo, cadenze che regolano avvenimenti e cose da fare, una sorta di orologio domestico particolare e unico che segna periodi e momenti. Per la mia, da sempre, il tempo gira intorno al mondo del vino. In inverno si proteggono le vigne dal freddo, in primavera si ricima e si curano le piante per prepararle alla fioritura, in estate si lavora per far crescere grappoli succosi e in autunno, la stagione più intensa dell’anno, si vendemmia. 

Siamo produttori di vino da generazioni, i miei trisavoli trasformarono un’attività locale in una vera azienda moderna che ancora oggi esporta in tutto il mondo. Da bambina mi piaceva tantissimo vivere in una tenuta in piena campagna e far parte di quel mondo. Ero libera di scorrazzare dove volevo e potevo correre a perdifiato tra file lunghissime di viti. Ad alcune piante avevo anche dato un nome. C’era Torcina, una vite che cresceva avviluppandosi su se stessa, e poi Ventoso, un tiglio frondoso che svettava sul poggio della collina ed era sempre in movimento. Passavo ore sotto le sue foglie che oscillavano sussurranti e i miei capelli accompagnavano quella danza. Ai miei piedi la distesa a perdita d’occhio dei filari di viti verdi e rigogliose. Ancora oggi quando ho bisogno di riflettere, di raccogliere i pensieri, vado con la mente all’ombra di Ventoso e ritrovo la calma. Ho avuto un’infanzia bellissima, sono figlia unica e non ho mai sentito la mancanza di fratelli e sorelle. Avevo tutto quello che volevo e i miei genitori mi adoravano. Mio papà mi chiamava la principessa del vigneto e io pensavo davvero di esserlo.

Poi è arrivata l’adolescenza e qualcosa è iniziato a cambiare. Da un giorno all’altro mi sembrava che la nostra tenuta non fosse poi così grande e sentire parlare di vino  da mattina a sera  ha iniziato a darmi fastidio. Con l’età è cresciuto in me un forte senso di ribellione. L’idea di raccogliere il testimone della gestione dell’azienda, senza che neanche mi fosse stato chiesto se volevo, mi creava disagio.

Non riuscivo a immaginare il mio futuro nella stessa casa dov’ero nata. Volevo andare fuori, volevo vedere altro, sentivo il bisogno di vivere in città. La campagna mi si stringeva addosso e mi toglieva il fiato. Il problema più grande è stato affrontare i miei genitori. Che io proseguissi l’attività di famiglia per loro era fuori discussione. Quando scelsi gli studi economici per l’università, ci restarono molto male ma mi lasciarono fare. Mio padre diceva che avrei presto cambiato idea e sarei ritornata alla terra, l’unica ricchezza che contasse davvero. Approdai a Milano per frequentare l’università e sapevo che non sarei tornata indietro. Sono caparbia e piuttosto che sentirgli dire “te l’avevo detto” mi sarei tagliata un braccio. I miei se ne sarebbero dovuti fare una ragione, la mia scelta era vivere lontano dal Friuli. Milano mi conquistò subito. Locali aperti a tutte le ore, cinema e teatri a disposizione, monumenti e mostre, negozi di ogni genere. Terminai l’università con un semestre d’anticipo e trovai lavoro presso un’azienda di marketing. Mio padre non mi parlò per mesi e mia madre, armata di pazienza sovrumana, lasciò passare la buriana e riuscì a farci riavvicinare, ma sentivo che qualcosa si era incrinato tra di noi.

 

 

 

Poi la vita lavorativa prese il sopravvento e in pochi anni arrivarono una serie di successi che mi portarono a diventare direttore dell’azienda. Lavoravo sodo e soprattutto tante ore, volevo dare il meglio di me, volevo che i miei genitori fossero fieri anche se avevo deciso di non continuare l’attività d famiglia. E ci riuscii. Il prezzo da pagare però è stato alto e me ne rendo conto solo a posteriori.

Essere sempre presente sul lavoro toglieva spazio alla mia vita privata. I colleghi mi apprezzavano e mi  temevano allo stesso tempo e nessuno voleva avere a che fare con me oltre l’orario di lavoro. Avevo amiche che vedevo poco, anche loro a corto di tempo, e non ero riuscita a far durare una relazione amorosa per più di qualche mese. Ero molto sola.

Nel frattempo, a casa, mio padre cercava qualcuno che potesse aiutarlo nelle attività di famiglia. Ogni anno arrivava una persona nuova che non era confermata l’anno successivo. C’era sempre qualche difetto che i miei giudicavano inaccettabile. Chi era orientato solo al business, chi non voleva sporcarsi le mani con la terra, chi trattava il vino come una merce qualsiasi.

Fino all’arrivo di Giuliano a gennaio dell’anno scorso. Compresi che qualcosa era cambiato quando le lamentele telefoniche dei miei cessarono e furono sostituite dagli elogi per il nuovo arrivato. Avrei dovuto sentirmi sollevata, finalmente avrei potuto vivere la mia vita senza il peso di aver lasciato l’azienda di casa senza guida e i miei in balia dell’età che avanzava, ma non lo ero affatto. Adesso posso ammetterlo, ero gelosa che qualcuno mi avesse sostituito in azienda e forse anche nell’affetto dei miei, ma l’anno scorso non riuscivo a dare voce a questo pensiero. Non ancora. Se avessi letto con umiltà le mie tristezze e le mie malinconie, sempre più frequenti, avrei capito che la mia avventura cittadina era conclusa, ma non ero ancora pronta per dare ragione a mio padre.

Ah l’orgoglio! Come canta Vasco Rossi in un suo bellissimo pezzo “ne ha uccisi più lui che il petrolio” e io non faccio eccezione. I mesi si rincorsero e l’estate arrivò di gran carriera cogliendomi impreparata per le vacanze. Non avevo prenotato da nessuna parte, non trovavo niente che andasse bene. A un certo punto mi fermai a riflettere e ammisi che non avevo voglia di muovermi. Avevo compiuto da poco 35 anni e forse era arrivato il momento di fermarmi.

Non sapevo come però.

 

 

 

La soluzione me la diede mio padre qualche giorno dopo quando al telefono attaccò con uno dei suoi proverbi in dialetto friulano: «Come che al è il timp a Sant Bartolomio, cussì al sarà di vendemis» (il tempo che fa il giorno di San Bartolomeo, sarà il tempo che farà alla vendemmia) e continuò tessendo le lodi di Giuliano dicendo che, in ogni modo, lui sarebbe stato capace di vendemmiare anche con la pioggia, che era proprio una manna dal cielo averlo incontrato e così via. Stizzita, risposi d’impulso che avrei preso un lungo periodo di ferie e sarei stata lì a fine agosto per seguire la vendemmia. Mio padre si staccò dalla cornetta, urlò a mia madre che finalmente tornavo e rimise giù senza aggiungere altro.

Restai ferma, in sospeso per diversi minuti, stupita della mia stessa scelta. Cosa avrei detto al lavoro? Due mesi di ferie erano un’eternità. Mio padre, poi, cosa aveva capito? Non stavo tornando a casa, volevo solo rivivere un’altra vendemmia. Anzi più precisamente volevo vedere da vicino Giuliano e capire perché i miei lo consideravano così speciale. Sistemai le cose al lavoro, non mi soffermai a riflettere sul fatto che stare via due mesi significava quasi certamente perdere la leadership che avevo conquistato così duramente in dieci anni, presi le chiavi dell’auto e percorsi i 500 chilometri che mi separavano da casa cantando tutto il tempo a squarciagola. Mi sentivo leggera come non capitava più da anni, la bambina che correva nei filari a perdifiato libera e felice faceva capolino dal mio cuore.

Arrivai a casa di sera e andai direttamente a letto. La mattina mi svegliai presto e corsi fuori. Percorsi il viottolo e mi infilai tra i filari. I vitigni di Ribolla gialla avrebbero dato un raccolto eccezionale. I grappoli erano compatti e spessi, il profumo fruttato. Era evidente che in primavera era stato fatto un ottimo lavoro. Davanti a me intravidi un signore di una certa età che verificava la base delle piante alla ricerca di erbe infestanti. Mi avvicinai e mi presentai. Feci i complimenti per come erano tenute le coltivazioni e andai avanti a parlare per un bel po’. Mio padre aveva ragione, Giuliano era davvero in gamba. Il risultato era incontrovertibile. Rientrai a casa e cercai mio padre, era in ufficio con un ragazzo di una trentina d’anni circa e discutevano sul giorno giusto per iniziare la raccolta.

Mi intromisi e consigliai di attendere ancora una settimana. Mio padre voleva procedere subito, ma siccome in due eravamo di altro avviso, disse che si sarebbe rimesso alla nostra decisione. Poi mi presentò Giuliano. La mia faccia tradì lo stupore per la sua giovane età e, per far sì che non se ne accorgessero, sviai la loro attenzione chiedendo chi era l’uomo fuori in vigna che avevo riempito di complimenti. Giuliano e mio padre scoppiarono a ridere. Avevo parlato con Ezra, un aiutante sloveno che capiva poco la nostra lingua e la parlava ancora meno. Vedere la complicità tra loro due mi fece sentire esclusa, ma sentire mio padre ridere di gusto mi fece anche piacere. Giuliano invece mi colpì in modo singolare. Non lo sentii estraneo o, come mi era parso da Milano, un rivale. Mi sembrò di ritrovare una persona conosciuta anni prima con la quale ero stata benissimo. Gli chiesi persino se ci fossimo incrociati in precedenza, ma rispose che se così fosse stato se ne sarebbe ricordato. Non era un complimento, almeno non sembrava, ma mi fece piacere. Mi immersi nel lavoro, la campagna non permette ozio, e nonostante non avessi un briciolo di tempo libero, stavo bene. La presenza di Giuliano, mitigava le asprezze del carattere di mio padre e lo rendeva più aperto alle novità. Le mie idee, che prima sarebbero state contestate vivamente, con l’aiuto di Giuliano si realizzavano. Per la prima volta nella mia vita ero ascoltata e accettata a casa mia, anche se proponevo variazioni che cambiavano le tradizioni consolidate.

 

 

 

E poi dappertutto c’era lui, Giuliano. Di giorno, non c’era angolo della tenuta nel quale non incontrassi il suo sguardo. Non capivo se mi controllava o se mi cercava, ma mi piaceva sorridergli. Lui allora spariva per poi apparire da un’altra parte. In serata, terminata la cena, ci sedevamo sotto il portico e restavamo lì, da soli, fino a tardi. Fu una di quelle sere che l’idea di non tornare in città mi attraversò i pensieri, ma non ebbi il coraggio di parlargliene. Dalle mie parti, in campagna in particolare, c’è una sorta di pudore che mal si accorda con la confusione creata da tante parole. Si parla poco, i gesti e i comportamenti urlano silenziosamente le intenzioni. E Giuliano con il suo sguardo mi diceva tutto quello che c’era da sapere. La decisione di restare era mia. Lui c’era. I due mesi passarono così, tra grappoli di vino raccolti, pigiati e fermentati. Gli sguardi di Giuliano mi sfioravano e mi riscaldavano. E io nel pallone. In alcuni momenti ero certa di quello che volevo. Lui mi piaceva ogni minuto di più, quella era casa mia e l’azienda con al mio fianco Giuliano era destinata a essere ancora più florida.

Ma se Giuliano si fosse dimostrato un incontro passeggero come gli altri? E se poi fatto il primo passo per avvicinarci non gli fossi piaciuta? E se mi fossi di nuovo sentita soffocare in campagna? Mio padre aveva forse ragione quando diceva che si torna sempre alla terra? E la mia carriera milanese era da buttare via? La confusione mi avvolgeva e, non sapendo cosa fare, preparai le valigie per rientrare in città. I miei genitori, che avevano intuito le affinità tra me e Giuliano e avevano intravisto per me la possibilità di restare, non dissero una parola. Lui dai filari seguiva i miei movimenti per caricare l’auto. Il suo volto era una maschera. Nessuno mi fermò e io da sola non ne ero capace perciò misi in moto e partii. Stavolta in silenzio. La strada scorreva veloce e a ogni metro percorso avevo la sensazione che mi si strappassero lembi di pelle.

In autostrada dovetti fermarmi in una piazzola di sosta perché non ero in grado di guidare. Piansi per tutte le scelte che non avevo fatto e per quelle che avevo fatto e delle quali non sapevo più come liberarmi. Piansi perché avevo la presunzione di stare nel giusto quando invece tutto ciò che mi rendeva felice, semplicemente felice, lo tenevo fuori dalla mia vita. Piansi perché un uomo che mi guardava in quel modo non lo avrei più trovato. Piansi per la delusione profonda che avevo dato ai miei genitori. E quando le lacrime erano quasi terminate, mi si affiancò un’auto sulla piazzola.

Giuliano era lì fuori. Mi chiese di scendere e mi abbracciò così forte da farmi male. Mi prese il viso e mi disse che di parole d’amore ne conosceva poche ma era certo che senza di me non poteva stare. Quando mi aveva visto andar via, aveva capito che doveva venirmi a prendere. Se io ero talmente testarda da non capire che la mia vita era il vino, ci avrebbe pensato lui a farmelo entrare bene in testa. E poi mi ha baciato. Attraverso le sue labbra ho sentito davvero un soffio vitale che mi animava. Lui e il vino era il posto dove volevo stare. Finalmente avevo capito.

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