La speranza ha il colore dei tuoi occhi

Cuore
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Vi riproponiamo sul blog la storia più apprezzata della settimana sulla pagina Facebook: La speranza ha il colore dei tuoi occhi, pubblicata sul n. 4 di Confidenze

 

Sono nata due volte, una in Italia, la seconda in un’aula di tribunale in un Paese lontano quando un giudice ha decretato, in russo, che Michele e Melania sarebbero stati i nostri figli. E la gioia mi è scoppiata nel cuore

Storia vera di Mimma Avati raccolta da Irene Zavaglia

 

La speranza è quella forza straordinaria che nasce dal cuore e che non ti abbandona neanche quando un sogno sembra essersi infranto per sempre.

Sono nata in un piccolo paese della Calabria da genitori che, con molti sacrifici, hanno insegnato a me e ai miei quattro fratelli l’immenso amore per la famiglia e per il valore che essa incarna. Non desideravo altro dalla vita se non poter seguire l’esempio di mia mamma e di mio papà. Sognavo di incontrare l’uomo che mi avrebbe amata e rispettata sopra ogni cosa e con il quale avrei potuto creare a mia volta una famiglia e tramandare ai nostri figli la gioia per le piccole cose e la gratitudine di essere al mondo.

Così, quando, poco più che ventenne, conobbi Giovanni, ebbi la certezza che il mio sogno stava per realizzarsi. Fu un colpo di fulmine, un amore scaturito da un’immediata e reciproca affinità che, sin da subito, ci regalò la magia di progettare e costruire una vita insieme. Comprammo una casa tutta nostra e decidemmo di sposarci. Eravamo felici, nulla lasciava presagire quello che sarebbe accaduto negli anni a venire.

Qualche tempo prima del matrimonio feci uno strano sogno. Sognai di trovarmi in un aeroporto: ero confusa, non sapevo districarmi tra la folla, dovevo accompagnare un bambino di colore alle partenze, ma il bimbo era in lacrime e non voleva lasciare la mia mano. Mi svegliai turbata. Nella vita reale non avevo mai preso un aereo per viaggiare e, soprattutto, mi sfuggiva il collegamento con il bimbo. Accantonai il sogno e ripresi con entusiasmo a organizzare le mie nozze.

La vita da sposata si rivelò la favola che avevo immaginato. Giovanni era un uomo dolce, divertente, dedito al lavoro e marito esemplare. Trascorremmo i primi anni immersi in una felicità di cui ancora non mi capacitavo. Mancava solo una cosa a consacrare il lieto fine, un bambino. Ma per quanto ci provassimo, quel figlio non arrivava.

Iniziai a rattristarmi. Un dolore sordo mi si conficcò al centro del petto e il mio sorriso perse lucentezza. Solo mia madre riusciva a consolarmi e a restituirmi fiducia. «I figli che devono arrivare, arrivano e non è detto che la strada sia sempre quella che noi crediamo» mi ripeteva.

Ci affidammo a dei bravi medici. Ci misero a nudo, dati scientifici alla mano, valori e parametri di riferimento, immagini di ecografie; l’infinito amore che legava me e Giovanni contava poco.

«Dal punto di vista medico non c’è nulla che non va, eppure può succedere che i figli non arrivino lo stesso» ci disse alla fine un dottore.

Ripensai al sogno che avevo fatto prima che io e Giovanni ci sposassimo. Non ebbi più dubbi. «Dobbiamo adottare un bambino» dissi a mio marito.

Giovanni mi guardò titubante. «Non credo che sia ancora il momento. Siamo giovani, amore, possiamo ancora tentare. Poi, non so, un bambino non nostro…».

«Giovanni, non capisci, non è un ripiego, non voglio che lo sia. Sento che questa è la nostra strada, c’è un bambino che aspetta solo noi, che ha bisogno del nostro amore. Dobbiamo solo cercarlo».

Presentammo la domanda di adozione al Tribunale dei Minori. Cominciò il calvario delle certificazioni, degli uffici e della burocrazia pubblica. I nostri genitori sottoscrissero l’autorizzazione per l’asse ereditario. Io e Giovanni ci dividemmo tra i questionari e la mole di documentazione richiesta. Venne nuovamente valutato il nostro stato di salute, il reddito, la fedina penale e ci furono colloqui con psicologi e assistenti sociali. Al pari di una tribolata gravidanza extracorporea, l’idoneità arrivò solo dopo diversi mesi. Ci spiegarono che, da quel momento, dovevamo tenerci pronti perché ogni giorno avremmo potuto ricevere una chiamata per l’adozione di un bambino. Festeggiammo, era il 2008. Ignoravamo che la nostra attesa sarebbe stata vana: la chiamata non sarebbe mai arrivata.

All’inizio del 2013 venimmo a conoscenza dell’esistenza di alcune onlus che si occupavano dell’accoglienza in Italia di bambini provenienti da Paesi che hanno subito catastrofi naturali o causate dall’uomo. Lo scopo del progetto era garantire ai minori un periodo durante il quale aria e cibi sani avrebbero potuto rafforzare il loro sistema immunitario. Malgrado non fosse in alcun modo contemplata la possibilità di adozione, io e Giovanni decidemmo di aderire. Con il tempo avevamo maturato la consapevolezza di voler godere del nostro reciproco amore senza null’altro chiedere, senza farci travolgere dalla rabbia. Invece di chiuderci, avevamo promesso di aprirci, di regalare a chi più ne aveva bisogno quella scintilla di gioia e di profondo bene che non ci era stato concesso di donare a un figlio. A un mese dalle vacanze estive, ci avvisarono che avremmo ospitato un bambino di otto anni di nome Mikalai proveniente da un orfanotrofio di Minsk, in Bielorussia. Non ci fornirono altre indicazioni, non riuscimmo ad avere neppure una foto. Rimanemmo appesi a quel nome, Michele, emozionati e felici come mai eravamo stati.

 

I

l giorno previsto per l’arrivo giungemmo all’aeroporto di Lamezia Terme con circa due ore di anticipo. Non sapevamo cosa aspettarci, non eravamo nemmeno certi che il bimbo sarebbe stato felice di vederci. Numerose famiglie attendevano insieme a noi, coppie con figli, nuclei che avevano già esperienza in accoglienze simili. Ne fummo stupiti. Spesso ignoriamo la generosità di chi ci circonda.

Ai tornelli di uscita fecero il loro ingresso circa 40 bambini accuditi da tre accompagnatrici. I piccoli di età varia erano chiaramente provati dal viaggio: alcuni piangevano, altri si guardavano intorno spaventati, ma curiosi, stretti nei loro abitini modesti, con gli occhi sgranati quasi in attesa di quella felicità che era stata loro prospettata.

Mi chiesi chi fosse Michele in mezzo a quel giardino di teste variopinte. Vidi un piccolo ometto di spalle, l’età poteva essere quella giusta. Lo chiamai: «Mikalai, Michele…».

Si voltò, sorrise.

Io e Giovanni gli fummo subito accanto. Aveva un cartellino identificativo appeso al collo: era Michele. Ci inginocchiammo e lo abbracciamo forte, lui ci strinse. «Mamma, papa?» disse in un italiano stentato. Io e Giovanni ci guardammo frastornati. Mikalai ci aveva adottati ancora prima che l’accompagnatrice ce lo affidasse.

«Ho fame» fu la seconda frase che gli sentimmo pronunciare. Giovanni gli chiese cosa volesse mangiare. Non ci capiva, parlava solo russo. Mio marito tirò fuori il cellulare e gli fece vedere su internet ogni sorta di pietanza disponibile. Michele puntò il dito sulla foto di un hamburger. Non dimenticherò mai la prima volta che ho visto mio figlio divorare del cibo. «Ma da quanto tempo non mangia?» chiesi a Giovanni.

«Non ne ho idea» mormorò lui con apprensione. Lo guardai e mi accorsi che aveva gli occhi lucidi.

Michele rimase con noi tre mesi. Fu l’estate più bella da quando io e Giovanni c’eravamo sposati. Il bambino si adattò con una facilità che ci sorprese, circondato dal nostro affetto e da quello dei nostri familiari. In poco tempo acquisì una sufficiente dimestichezza della lingua italiana e si scoprì un amante della nostra cucina. Lo portammo al mare: gli chiesi se lo avesse già visto, mi fece capire che lo conosceva dai libri, ma che non immaginava fosse così grande e bello. Solo la sera era un problema. Michele non amava stare fuori casa quando diventava buio, soprattutto se si trattava di andare in posti affollati. Lo assecondammo. Trascorremmo serate sprofondati nel lettone, Michele in mezzo a noi a farsi coccolare e a raccontarci con un po’ di difficoltà quello che viveva laggiù, nell’orfanotrofio in Bielorussia. La partenza fu uno strappo indicibile. Il dolore che provai non era paragonabile a nessuna delle sofferenze che avevo attraversato sino ad allora. Giovanni iniziò a dormire con il pigiamino di Michele stretto tra le braccia. Stentavamo a crederci, ma avevamo appurato dai documenti fornitici che mio marito e il bambino condividevano la stessa data di nascita, il 18 maggio.

Presentammo la richiesta per ospitare nuovamente Michele a dicembre. Ci accordarono quella e il permesso di chiamarlo in istituto una volta a settimana. Vivevamo per quelle telefonate durante le quali il piccolo ci raccontava le sue giornate e ci ripeteva che gli mancavamo.

Un giorno ci contattò la referente della onlus e ci spiegò che nello stesso istituto di Michele era arrivata una bambina di un anno più piccola.

«La ospitiamo noi» disse Giovanni. «Ospiteremo Michele e questa nuova bimba».

A dicembre arrivarono entrambi. L’incontro con Melania fu diverso: era spaventata, piangeva, non sapevamo come consolarla. La portammo a casa, rifiutò di mangiare. Riuscimmo a farle mandare giù soltanto uno yogurt. Nella notte venne a cercarci, aveva paura. Le facemmo spazio nel lettone, lei sorrise e finalmente si lasciò abbracciare.

Quel Natale fu come se la nostra famiglia fosse sempre esistita: io, Giovanni, Michele e Melania, non avremmo potuto chiedere di più. Eravamo felici come se quella gioia non dovesse mai avere fine.

Invece i bambini ripartirono. Ancora una volta, il vuoto che lasciarono fu incolmabile.

«Ho parlato con un avvocato» mi annunciò una sera Giovanni. «Avviamo le procedure per l’adozione internazionale nominativa. Se ne occupa, l’Associazione Adozioni Alfabeto di Pesaro. Sarà lunga, forse impossibile. Te la senti?».

Gli buttai le braccia al collo. Non avevo parole per esprimere tutto l’amore che provavo per lui.

 

R

icominciammo con la trafila amministrativa fatta di scartoffie, visite mediche, controlli e accurate analisi della nostra vita. Ci sembrò un limbo da cui non saremmo mai potuti uscire.

Durante quell’anno andammo a trovare i bambini a Minsk. L’orfanotrofio si trovava nella zona periferica della città, era una struttura piuttosto vecchia e in grado di ospitare all’incirca un centinaio di bambini. Rimasi turbata dalle condizioni modeste e dai visini spauriti che ci fissavano con una muta richiesta di affetto. Se avessi potuto, li avrei portati tutti via con me.

Due anni dopo, nel 2016, mentre Michele e Melania erano da noi per il consueto periodo di accoglienza estiva, giunse la chiamata che tanto avevamo atteso: dovevamo partire e portare anche i bambini perché era stata fissata l’udienza definitiva per l’adozione.

Rimanemmo a Minsk per 26 giorni. Ci venne affidata un’interprete, ci ascoltarono a turno i giudici, gli avvocati, gli psicologi e gli assistenti sociali. Vennero ascoltati anche i bambini e la direttrice dell’istituto con cui avevamo intrattenuto buoni rapporti durante gli ultimi anni. Furono giorni concitati durante i quali pregai e tentai di non sentirmi estranea in quella terra straniera. La sentenza venne proclamata in russo e subito dopo tradotta in italiano: eravamo i genitori effettivi di Michele e Melania che da subito acquisivano il nostro cognome. Dovevamo trattenerci in Bielorussia il tempo necessario per il disbrigo della documentazione utile al nostro rientro in Italia.

Mi sforzai di non svenire per la gioia. Quel giorno, in quell’aula di tribunale, sono nata una seconda volta. E con me sono rinati Giovanni e i miei due figli. Quei bambini che tanto mi hanno atteso e ai quali un filo invisibile e di puro amore mi ha condotto.

Oggi la speranza ha il volto sereno dei miei figli che hanno 13 e 12 anni. Michele è aperto e gioviale, gioca a calcio, ha tanti amici, predilige la matematica e da grande vorrebbe diventare un bravo cuoco. Melania è dolce e più riservata, adora studiare, ha imparato a suonare il violino e ha sviluppato una passione smodata per la pasta e per le parrucchiere. Il suo compleanno cade il 2 settembre, lo stesso giorno in cui io e Giovanni festeggiamo l’anniversario di matrimonio.

«La speranza ha il colore dei loro occhi» ho detto a mio marito. Lui mi ha preso il volto tra le mani e mi ha accarezzato a lungo.

«No» ha mormorato, «la speranza ha il colore dei tuoi occhi che sono sempre rimasti aperti con coraggio e dedizione, e hanno saputo guardare oltre, lontano, dove in tanti hanno paura di guardare, ma dove tu non hai avuto timore di scorgere la felicità».

 

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