L’altra

Cuore
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Riproponiamo sul blog una delle storie più apprezzate del n. 5 di Confidenze

 

Da piccola ero quella che rubava il rossetto alle sorelle e da grande il fidanzato alle amiche. In realtà volevo solo dimostrare di valere qualcosa. Non è stato semplice capirlo, c’è voluto qualcuno che mi convincesse che ero meritevole di amore

STORIA VERA DI CARMEN T. RACCOLTA DA BENEDETTA DENARO

 

Io sono Carmen, e sono “l’altra”. Forse farei meglio a dire che lo sono stata a lungo, sin da bambina, ma che per fortuna la vita mi ha salvato da me stessa. Ultima di tre sorelle, sono arrivata per caso a dieci anni esatti di distanza dalla secondogenita, quando i miei non pensavano proprio ad avere un altro figlio, o figlia, in questo caso. Credo di essere stata accolta con una sorta di condiscendenza e un sospiro di rassegnazione. Ada e Gloria, le mie sorelle, sono molto vicine di età (hanno 22 mesi di differenza, per l’esattezza) e affini per carattere e temperamento, tanto da vivere e crescere quasi in simbiosi. Ci si potrebbe aspettare che due sorelle più grandi coccolino la piccola, che provino per lei un senso quasi materno di protezione e di affetto, ma nel mio caso non è stato così: ho avuto molto presto la percezione di essere un di più, un’intrusa, di costituire un elemento di disturbo in un ambiente familiare che aveva già trovato un suo assetto e un equilibrio che io, col mio arrivo inaspettato, avevo turbato. Mi trattavano con gentilezza, ma con una sorta di diffidenza, qualche volta con condiscendenza. Mi guardavano come si guarda un oggetto strano e anche delicato. Anche i miei genitori mi trattavano allo stesso modo: erano ormai quarantenni quando sono nata, e non pensavano certo di ritrovarsi alle prese con nottate in bianco, pannolini, ciucci e biberon. Più avanti, ho sentito mia madre lamentarsi più di una volta con le sue amiche dicendo di avere voluto due figli in un breve arco di tempo proprio per poterli allevare quasi insieme, e di sentirsi frustrata per questa nuova e tardiva maternità, che l’aveva costretta a rivoluzionare le sue giornate e accantonare ancora le sue aspettative professionali. Fin da piccola, mi sono sentita sola. Certo, credo di essere stata sempre una vera peste e ora, con il senno dei miei 35 anni, penso di averlo fatto per reazione, per ripicca, per un desiderio non troppo nascosto di attenzione e di accettazione. Se vedevo mia madre e le mie sorelle farsi belle, pettinarsi, truccarsi per andare da qualche parte, subito correvo a tirar loro i capelli e stropicciare i vestiti; mi chiudevo in bagno con i loro cosmetici e creavo grandi dipinti sullo specchio; qualche volta fingevo che mi cadesse la tazza del latte o il bicchiere del succo di frutta e facevo in modo che il liquido si spargesse sui jeans immacolati dell’una o dell’altra delle mie sorelle. Loro cominciavano a strillare e qualche volta a piangere, mia madre tratteneva a stento la rabbia e sbuffava, mio padre sospirava e si eclissava… non è facile avere a che fare con quattro donne tutte insieme. A volte i miei si lanciavano in tiritere infinite sul fatto che dovevo essere più buona e calma e carina. Ma io non volevo essere più buona, più calma e più carina, volevo che mi abbracciassero e ridessero e giocassero, e che lasciassero perdere le loro ridicole uscite per restare a casa con me a guardare un cartone, invece di lasciarmi con la baby sitter antipatica e con i baffi. Ma non avevo le parole per dirlo e allora di fronte ai miei ridevo, facevo le smorfie più assurde e irriverenti che conoscevo, scappavo via urlando, ma mi sentivo soltanto triste. Crescendo, ho provato a essere diversa, a compiacere di più gli adulti, e essere accomodante con i coetanei, ma non posso dire di esservi mai riuscita. Ero una bambina ribelle e solitaria, perché anche a scuola ripetevo gli stessi copioni di comportamento, e nessuno dei miei compagni mi sopportava a lungo.

Mi trasformai in un’adolescente inquieta, non riuscivo a capire me stessa e mi era impossibile confidarmi con qualcuno, perché non avrei saputo cosa dire, come esprimermi. Per partito preso, facevo sempre il contrario di quello che mi si diceva, e accumulavo frustrazione e rabbia.

Come da piccola rubavo alle mie sorelle il rossetto, così cominciai a rubare alle mie compagne i ragazzi. Appena una di loro usciva con qualcuno, facevo in modo di avvicinare il tizio, magari all’uscita di scuola, mentre aspettava la sua lei. Fingevo di inciampare o facevo cadere lo zaino o chiedevo qualche indicazione sull’ora. Ero molto carina, alta e magra, con folti capelli scuri e occhi profondi, e non mi era difficile attirare l’attenzione. Il risultato fu una serie di corteggiatori e una sfilza di nemiche acerrime, che ancora una volta si alleavano contro di me. Ma io imperterrita continuavo, per me era una sfida riuscire a portare via alle altre il loro ragazzo. Se un tizio era libero praticamente non mi interessava: per me contava l’ebbrezza, la sfida. Far sì che tradisse la sua ragazza significava avere una prova del mio valore e della mia forza.

Collezionavo conquiste come trofei, che esibivo senza troppo esitare. Poi fu la volta degli uomini sposati: più si proclamavano innamorati e fedeli alle mogli, più io mi intestardivo, godendo infine quando capitolavano. Salvo poi restituirli alle loro vite familiari, contriti e pieni di rimorsi.

Il ritratto che sto tracciando di me è impietoso, ma sincero: non mento se dico che probabilmente mai nessuno di questi uomini mi è mai interessato davvero. Quelle che in fondo volevo colpire erano le loro donne, così serene e sicure di sé e del fatto di essere amate. Ero invidiosa delle loro vite appagate e felici che turbavo e distruggevo con cieca determinazione, quasi per dimostrare a me stessa e a loro che non esiste un amore così forte da resistere alle tempeste e alle tentazioni. Forse volevo vendicarmi di mio padre e della mia famiglia, della loro ipocrisia nel far credere al mondo di amarmi quando in realtà ero solo tollerata. Forse volevo dimostrare a me stessa che valevo, che ero meritevole di amore. Forse, semplicemente, ero una bambina triste che cercava disperatamente attenzione. Non cerco scusanti, comunque. So di essere stata una persona odiosa, perfino infida, di avere meritato i peggiori epiteti. Eppure, nessun uomo, nessuna conquista bastavano a riempire il vuoto che sentivo dentro. Quanto poco pensavo di valere? L’esaltazione dell’avventura si affievoliva presto, lasciandomi un senso di vuoto, di desolazione, di fallimento. Proprio per non sentire, per non annegare in questa desolazione, mi buttavo a capofitto in un’altra storia, in un’altra avventura. Solo il mio lavoro mi dava pace. Ovviamente, nonostante al liceo fossi pure bravina, non mi ero iscritta all’università, come i miei avrebbero desiderato e come le mie sorelle avevano fatto. Ho scelto un lavoro che i miei disapprovavano, e dopo il liceo artistico ho cominciato a collaborare con un noto studio fotografico. La fotografia è stata il mio primo, vero amore. Ne ho amato il senso più vero e segreto: la possibilità di cogliere l’essenza attraverso l’apparenza. In ciò che appare c’è il seme di ciò che è, nell’esteriorità esiste sempre un indizio preciso della verità, per chi sa guardare e osservare con la mente, con il cuore. Il lavoro è sempre stato il compagno più fedele, l’amante a cui tornare, lo spazio in cui essere davvero me stessa. Col tempo, mi sono resa conto che la mia passione per il lavoro era diventato il metro con cui giudicavo gli uomini: se fossero riusciti a comprendere le mie opere, e dunque i miei sentimenti, allora avrebbero potuto valere per me qualcosa. Forse per questo Alessandro l’ho notato subito, ormai quasi tre anni fa: mi si avvicinò durante un matrimonio in cui mi era stato affidato il servizio fotografico, e cominciò a chiedermi perché facessi certe inquadrature, come cercassi di catturare la luce. Quando, qualche giorno dopo, lo vidi passare davanti al mio studio, capii subito che lo aveva fatto apposta per rivedermi. La prima volta ci limitammo a un cenno di saluto, la seconda a qualche convenevole, la terza lo invitai a entrare. Era la prova del nove: quell’uomo mi piaceva, mi attiravano il suo fisico prestante, i capelli scuri, lo sguardo attento, quel modo di guardarti fisso negli occhi mentre ti parlava. Ma avevo bisogno di metterlo alla prova, di vedere se avrebbe saputo cogliere le tracce di me che disseminavo qua e là negli scatti che esponevo, e che a tanti sembravano solo astrusi. Come mi conquistò? Si fermò a osservare una foto di molti anni prima: un lungomare che si snoda contro un cielo grigio, con nuvole scure all’orizzonte, e in primo piano una bambina che fa una piroetta, incurante della tempesta che potrebbe scatenarsi da un momento all’altro. «Forse questa è l’essenza della felicità, no? Sapere godere dell’attimo senza pensare a ciò che potrebbe avvenire poco dopo» mi disse. «O ancora, sapere assaporare il proprio modo interiore, senza permettere al resto di avvelenarlo» risposi. E subito pensai che avrei tanto voluto far entrare quell’uomo nel mio cerchio magico e segreto. Darsi appuntamento per un caffè fu naturale, e poi per un cinema, e poi per una cena.

Alessandro era impegnato, certo che lo era: faceva l’avvocato, aveva una moglie e una figlia di cui conoscevo benissimo l’esistenza. Ma, come la bambina della foto, io vivevo l’istante, incurante della tempesta che avrebbe potuto scatenarsi. Quando gli proposi, dopo una serata allegra in trattoria, di venire nel mio bilocale non esitò. Capivo che mi voleva, con la stessa intensità con cui io volevo lui. Cominciò così la nostra storia, mesi di appuntamenti e di pomeriggi appassionati, di abbracci senza fine, di litigate furiose per un appuntamento saltato, per uno sguardo di troppo a una cameriera, rappacificazioni ancora più furiose ed esaltanti, lunghe confidenze davanti a un bicchiere di vino.

Se all’inizio avevo creduto, o mi ero illusa, che Alessandro fosse solo l’ennesima avventura, mi ero ben presto ricreduta: forse per la prima volta in vita mia non mi interessava avere sconfitto un’ipotetica rivale, non mi importava avere la meglio su un’altra donna, ma mi interessava lui, il suo mondo, il suo sguardo gentile sulle cose e sulle persone, così in contrasto con il lavoro duro che faceva, con l’aggressività e la scaltrezza che pensavo fossero insiti nel mestiere di avvocato. Alessandro sapeva smontare le mie difese senza farmi sentire sconfitta, sapeva leggere i miei silenzi e la mia rabbia, sapeva colmare distanze e fare affiorare sentimenti. Sapeva andare oltre, riusciva a smantellare la corazza che mi ero costruita e arrivare al mio intimo.

Cominciai a fantasticare sulla nostra vita a due, a sognare che lasciasse la moglie per me. E in certi momenti sembrava che davvero anche lui lo desiderasse. Poi sua moglie scoprì tutto… Quando me lo raccontò provai un senso di sollievo, pensai che finalmente avrebbe deciso, che potessimo uscire allo scoperto e dare una svolta alla nostra storia. Con improvvisa, serena consapevolezza, mi resi conto di essere pronta ad abbandonare i vecchi copioni ed essere una donna nuova. Ma lo guardai negli occhi, e in quello sguardo non lessi ciò che mi sarei aspettata e che avrei sperato: in quello sguardo c’erano dolore e paura, c’era la desolazione di chi pensa di avere sbagliato, c’era la luce del pentimento. Istintivamente mi ritrassi da lui, mentre un dolore sordo si faceva strada in me, una dolorosa consapevolezza mi faceva sentire freddo.

Qualche giorno dopo, Alessandro venne al mio studio, e con fare sommesso ma fermo mi disse che aveva deciso di allontanarsi per fare chiarezza, e che sarebbe andato per un po’ ad abitare fuori città. Non riuscii neanche a rispondere, lo guardai andare via con la morte nel cuore, con un’amarezza infinita che era più del dolore: era la netta coscienza della fine. Sono fatta così, non posso farci nulla: per me non esiste il grigio.

Qualcosa in me si rompeva, andava in frantumi, e capivo con dolorosa lucidità che non si sarebbe mai ricomposto. Poi è arrivato il lockdown…

Sono precipitata in una specie di buco nero, giorni che seguivano giorni senza che io sapessi neanche a che punto della settimana eravamo. Per fortuna potevo tenere lo studio aperto, ogni tanto entrava qualche raro cliente che aveva bisogno di una fototessera, annullati tutti gli altri impegni, azzerati eventi e mostre. Giornate scandite dal silenzio che improvvisamente aveva invaso le strade, pesante come la cappa di dolore che mi gravava sull’anima. Quando le restrizioni si allentarono, mi sentii come se stessi uscendo da una lunga febbre, in cui tutte le mie percezioni erano state alterate, ottenebrate. Era la fine del tunnel, il primo spiraglio di luce. Al dolore, alla delusione cocente, si era sostituita una malinconia più dolce, che non lasciava ancora spazio alla voglia di vivere, ma quanto meno mi lasciava respirare, senza l’oppressione e l’angoscia che a lungo mi avevano attanagliato. Un giorno, mentre ero nel mio studio, il telefono squillò. Era Alessandro, immaginavo che fosse rientrato in città. Non risposi, non ne avevo voglia. Era come se d’improvviso non mi importasse più ciò che avrebbe potuto dirmi, come se di tutto l’amore che avevo nutrito per lui restasse solo un’ombra, una traccia flebile, come la scia di un profumo perduto per sempre. Continuò a chiamare nei giorni seguenti, ma continuai a non rispondere. Alla fine, mi mandò un messaggio: “Vorrei vederti, parlarti. Ti prego, rispondimi”. Digitai la risposta senza neanche riflettere: “Preferisco non vederti, non c’è nulla da spiegare”. Fine.

Fine del primo, vero amore che avessi mai nutrito nella mia vita. Fine di un sogno. Eppure, stranamente, mi sentii in qualche modo consolata, libera, leggera.
Ho compreso in quel momento che le vecchie ferite si erano cicatrizzate, e che finalmente potevo smettere di sentirmi “l’altra” per diventare in pieno me stessa, una donna vera, capace di amare e meritevole di amore. Ricordo che chiusi in fretta la porta dello studio, mi rifugiai nell’ufficio sul retro. Non ebbi la forza di sedermi, mi rannicchiai in un angolo, e lì, finalmente, riuscii a piangere. ●

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