L’amore rimane

Cuore
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È iniziata con mia madre uscita di casa in reggiseno, ed è progredita in fretta. La sua malattia, Alzheimer, ha un brutto suono e un significato spaventoso. Eppure anche se oggi lei non sa più chi sono, un gesto mi fa capire che mi ha nel cuore. In una memoria che sorpassa le parole

storia vera di Viola D. raccolta da Alessandra Mazzara

Me lo ricordo ancora, acuto e improvviso, quello squillo al mio cellulare in una mattina di quattro anni fa. Sono insegnante di Lingua e letteratura inglese in un linguistico, di solito lo spengo prima di andare in classe. Eppure, quella mattina, forse per una mia disattenzione, o forse perché era così che le cose dovevano andare quel giorno, me ne dimenticai. Sentirlo squillare proprio durante un’interrogazione di grammatica alla lavagna non fu solo mortificante nei confronti dei miei studenti ai quali è severamente vietato, nelle mie ore, tenere qualsiasi dispositivo elettronico connesso, ma anche decisamente inaspettato, tanto da farmi sobbalzare. Imbarazzata, con la testa china sulla borsa alla ricerca del telefono, chiesi scusa alla classe, in particolare a Tania, l’alunna in quel momento sotto torchio alla lavagna, decisamente risollevata da quell’interruzione per lei caduta dal cielo e ancora indecisa su quale fosse la forma corretta del participio passato del verbo irregolare che le avevo chiesto prima che squillasse il mio telefono.Sul display, un numero sconosciuto. Stavo quasi per riattaccare, quando all’improvviso mi ricordai della mia raccolta di poesie inedite che avevo spedito poco meno di un anno prima a una piccola e poco nota casa editrice. Ci tenevo tantissimo, che fossero pubblicate.

Che fossero loro? Pensai. Che avessero, finalmente, dopo tanto impegno e lavoro e dedizione da parte mia, e porte sbattute in faccia, deciso di trasformare il mio sogno di vedere le mie poesie dentro un libro dalla copertina bellissima, esposto sugli scaffali di tutte le librerie?

Fu per questa ragione che non riattaccai. Mormorando un profluvio di scuse una sull’altra, risposi. Del resto, l’interrogazione poteva pure aspettare qualche minutino dinanzi alla possibilità di un vero contratto editoriale.

Quello che udii, però, all’altro capo del telefono, non fu quello che speravo di ascoltare, ma una cosa così preoccupante e incredibile, da lasciarmi letteralmente senza parole e costringermi a scappare da scuola con un permesso non previsto. Per la felicità di Tania che, sicuramente, tirò un sospiro di sollievo.

Sono nata in un piccolo paese della bassa bergamasca, in una famiglia eccentrica, rumorosa, straordinariamente fuori dagli schemi e coloratissima, già a partire dai nomi: mamma Rosa, io Viola, e le quattro gatte che hanno rallegrato la nostra casa durante la mia infanzia e l’adolescenza, Bianca, Rossana, Verdiana e Blu.

Avevo tre anni quando mamma e papà si separarono. Di lui, ho davvero pochi ricordi. Non si è mai voluto occupare di me e la distanza geografica che ci separava, unita a un mio totale disinteressamento nei suoi confronti, di certo non facilitarono un rapporto già precario.

Mi bastava mamma, mi bastavano le gatte. Eravamo come strisce di un arcobaleno un po’ insolito, sempre pronte a far baldoria, a scherzare, a ridere, ottimiste di natura e decisamente poco avvezze alle formalità. La mia, fu un’infanzia felice.

È di quel periodo che conservo i ricordi più belli, quando salivamo sul camper, mamma alla guida sempre con una sigaretta in bocca e un’altra già pronta per dopo, io seduta accanto a lei con la cartina stradale in mano a respirare a pieni polmoni tutto quel fumo passivo, le gatte di là a sonnecchiare pigre, e via, verso l’avventura di viaggi non programmati, col vento tra i capelli e il sole in faccia e le mani sporche di terra e sabbia e le sere sotto le stelle e i miagolii alla luna. Poi, il tempo passò. Del resto, è l’unica cosa che fa. Lento e silenzioso che neanche te ne accorgi, al suo passaggio si porta dietro le scorie di quel che abbiamo vissuto, fino a dimenticarcene, permettendoci, così, di andare avanti.

Quando mi laureai a pieni voti in Lingue e letterature straniere, mamma, che regali normali non ne faceva mai, mi regalò uno zaino con dentro l’impossibile. «Vai e scopri il mondo. Ritorna solo quando ne avrai avuto abbastanza».

Era così, mia madre. Una donna senza pregiudizi, libera dagli schemi e dalle convenzioni. Forte, coraggiosa, spiritosa, forse a volte un po’ troppo eccentrica. Meravigliosamente libera.

«Perdonami, Viola, so che a quest’ora del giorno sei al lavoro, ma appena ho visto tua mamma in queste condizioni, non ho aspettato un attimo e ti ho chiamata subito. Per fortuna Rosa aveva con sé il cellulare col tuo numero tra quelli in caso di emergenza, altrimenti non so come avrei potuto fare».

Franca, la vicina di casa di mia madre, tremava.

Come me, sconvolta. Le rivolsi un sorriso incoraggiante e pieno di gratitudine. «Tranquilla, Franca. Hai fatto benissimo» le dissi, mentre dentro di me un groviglio di paura, scandalo, imbarazzo e incredulità si mischiavano e confondevano.

Dal suo giardino confinante, Franca aveva intravisto mamma uscire di casa in gonna, ciabatte e reggiseno, attraversare la strada ed entrare dritta al supermercato. Giusto il tempo di vestirsi, uscire anche lei e raggiungerla, mi aveva poi chiamata, chiedendomi di arrivare subito.

«Mamma, posso sapere perché sei uscita di casa in queste condizioni?» chiesi poi a mia madre, che sembrava del tutto a suo agio.

«Tesoro» mi disse in un sospiro, «ora, forse, non posso più neanche uscire? Dovevo comprare qualcosa ma, appena sono arrivata qui, mi è passato subito di mente». Sfoggiò il suo sorriso più bello e disinvolto, come se fosse solo quello il problema maggiore e non la sua nudità.

Non dissi nulla. Mi scusai con il responsabile del supermercato, ringraziai Franca, coprii mamma col mio blazer e la riportai a casa, dalle sue cose, da Seta, la gatta persiana dagli occhi blu che la guardò stranita, forse anche lei un po’ preoccupata.

Fu quello il primo, decisivo segnale che mi fece seriamente preoccupare. Prima, c’erano state solo piccole dimenticanze, una parola detta al posto di un’altra, un nome scambiato, un ricordo del passato raccontato come fosse recente. Mamma aveva 72 anni, credevo fossero minuzie normali dovute all’età.

L’esito degli esami e delle visite e dei controlli cui la sottoposi dopo l’episodio al supermercato, però, disse altro.

Una parola, una sola. Dura, piena di consonanti, dal suono irritante e dal significato spaventoso.

Alzheimer.

Piansi. Mi disperai. Chiesi a tutti i costi una cura, anche sperimentale. Non esiste, mi dissero. Si prepari al peggio, aggiunsero.

In macchina, al ritorno dalla clinica, lei seduta accanto a me, io con le mani strette al volante e gli occhi pieni di lacrime, le dissi che non doveva preoccuparsi, che magari si sbagliavano, che sicuramente avrei chiesto un altro parere medico, che ci saremmo buttate tutto alle spalle, ridendoci su.

Lei si voltò, mi guardò. «Ma no, tesoro mio» mi disse, le sopracciglia alzate in un’espressione affettata da diva del cinema, «mica abbiamo tempo da perdere, noi. Domani devo tornare al lavoro e te a scuola. Volevi scampartela, furbacchiona?».

Iniziò così, in una mattina di ottobre di quattro anni fa, la dimenticanza di mia madre. Iniziò così, per lei, una vita senza più un passato, un presente, un futuro.

E, per me, una vita senza più mia madre.

Dovevo avere 13 anni circa quando mamma mi regalò il mio primo libro di poesie, una raccolta dei versi di Emily Dickinson, co testo originale a fronte. Mamma adorava leggere le poesie. Avevamo casa piena dei suoi libri sparsi in modo disordinato, un po’ sui tavoli, alcuni sui comodini, altri tra gli scaffali messi un po’ alla rinfusa, altri ancora per terra, sui tappeti, sui divani o a formare piccole file che crescevano in verticale agli angoli delle stanze.

Aprii il libro su una pagina a caso: “Essere dimenticata da te, sorpassa la memoria… il cuore non può dimenticare, a meno che non contempli ciò che rifiuta…”. Lo richiusi con un tonfo, forse ancora troppo giovane e acerba per poter apprezzare le profondità di quei versi.

Mai avrei immaginato che quella prima mia lettura celasse dentro di sé il mio più grande dolore futuro.

Quel libro fu come un trampolino.

Spinta anche dall’entusiasmo di mamma, iniziai a scrivere anch’io poesie, a lasciarmi guidare dalle emozioni, a trasformare in versi quel che avevo dentro. Quel che scrivevo, lo leggevo poi la sera a mia madre, a gambe incrociate sul tappeto o a letto o sotto il cielo della sera, nel nostro piccolo giardino, circondate dalle gatte che si strusciavano, saltavano, miagolavano, si acciambellavano su di noi. Lei a volte correggeva con piccoli segni a matita, perfezionava le rime, altre volte le lasciava così com’erano e mi diceva sempre di continuare, che la scrittura era un’alleata fedele e saggia nelle cose della vita. Che ciò che è scritto, resta per sempre. E non verrà mai dimenticato.

Un’onda gigante, che prima si ritrae verso l’orizzonte, sembra innocua, poi però si avvicina sempre più, sempre più, e con l’imprevedibilità e la forza e la violenza di uno tsunami ti travolge e acchiappa e trascina e distrugge tutto quello che hai, tutto quello che sei stato fino a un attimo prima, facendolo scomparire come se nulla fosse mai esistito.

È così che immagino sia arrivata su di me e sulla mia vita la malattia di mia madre, la dimenticanza. Il suo peggioramento clinico rapidissimo, la sua perdita totale di memoria, il suo non essere più Rosa, il non essere più mia madre, la donna che amava i rossetti e le canzoni dei Beatles e i libri di poesie e guidare il camper senza meta e i vestiti colorati e fumare fino a non respirare più…

Sonia mi aiuta a gestirla quando sono a scuola. L’ho assunta dopo un crollo psicologico che mi ha stesa al tappeto: lavoro, casa, riunioni, consigli di classe, visite mediche, terapie farmacologiche da tenere a mente, la difficoltà di accettare quel che era capitato, la fatica nel solo pronunciare quel nome tedesco, il vedere mia madre scomparire giorno dopo giorno.

Tutto troppo per una persona sola.

Con Sonia a darmi il cambio, la gestione della vita di mia madre è meno gravosa. Ma il dolore di vederla così, no. Quello è sempre uguale, ingombrante, cupo, infimo, dispettoso e lacerante. È successo tutto troppo velocemente.

A un anno esatto dalla diagnosi mamma non ricordava già più nulla di sé.

Il suo nome.

I suoi ricordi.

Le sue amate gatte.

Le gite in camper.

Quando non mi riconobbe più, capii di averla persa per sempre.

«Allora, mamma? Che ne pensi?».

Era una gelida sera di fine novembre. Seta se ne stava acciambellata sulle mie gambe, i suoi peli bianchi svolazzavano qua e là mentre io e mamma, sedute attorno al tavolo, stavamo gustando una calda tazza di tè, in compagnia del tintinnio sui vetri della pioggia che picchiettava sottile.

Mamma aveva preso un sorso e poggiato la sua tazza sul tavolo. Davanti a noi, la bozza della mia prima raccolta ufficiale di versi, in attesa del suo giudizio.

«Hai fatto uno splendido lavoro, Viola. Le ho lette d’un fiato, tutte in una notte. Sono piene di te, della tua energia, dell’amore per la vita. Sono certa che sapranno apprezzarle».

«Certo, il tuo è un giudizio un po’ di parte».

Mamma mi aveva guardata scettica. «Sono sempre stata sincera con te, Viola. Ricordi quando ti dissi di filare dal parrucchiere che eri orribile con quel taglio di capelli? Non ho mai avuto paura di dirti la verità. Bene. Fossero state orribili, queste poesie, ti avrei detto di regalarmele per ravvivare il fuoco del camino. Ora, vai a casa tua, accendi il pc e invia tutto subito, senza guardarti più indietro».

Inviai la bozza, mentre la pioggerella pungente stava, piano piano, trasformandosi in temporale.

Nessuno rispose alla mia email.

Un anno scarso dopo, quella chiamata a scuola che cambiò tutto.

È l’ora del pranzo.

Da qualche mese mamma non sa più masticare i cibi, quindi le frullo tutto in modo che possa nutrirsi senza problemi. Spengo il fuoco, verso la minestra sul piatto, aggiungo un omogeneizzato di carne, un po’ d’olio, del formaggio grattugiato ed è pronto. Lei è seduta a tavola, lo sguardo perso nel nulla. Tra le braccia, stringe uno straccio da cucina. È la sua bambina, Viola.

Quello straccio, nella sua testa, sono io. Io, invece, non sono nessuno. Le avvolgo un bavaglino attorno al collo, poi mi sistemo di fronte a lei. Per fortuna, mangia sempre con appetito. La imbocco, le racconto storie. A volte, capita che mi arrivino i suoi sputi, dritti in faccia. Allora, li tolgo via con un fazzoletto e continuo ad imboccarla.

Io, la figlia che diventa madre.

Lei, la madre che diventa figlia.

«È buono, mamma?» le chiedo.

Lei sposta gli occhi, che sono ora frenetici, alterati, sfuggenti, per la stanza. «Lo vuoi un rubinetto?» mi dice.

Faccio di sì con la testa, poi poggio il piatto vuoto sul tavolo e le pulisco la bocca con un tovagliolo pulito. Seta balza sul tavolo e inizia a miagolare. Le si avvicina, sfrega la testolina contro la sua e mamma l’accarezza lentamente.

«Come si chiama la gatta, mamma?» chiedo a mia madre. Le faccio spesso queste domande un po’ a trabocchetto per verificare il suo stato di coscienza.

«Quale gatta?» mi risponde, continuando ad accarezzare il persiano. «Non c’è nessun gatto, qui».

L’aiuto a bere dell’acqua, poi le do una delle sue pillole. Mi volto verso la finestra. Il cielo è limpido, tira un leggerissimo venticello autunnale.

«Ti va di stare un po’ in giardino?».

Non risponde. L’accompagno in bagno, reggendola per un braccio. Da due settimane fatica nei movimenti, ad articolare bene le gambe, come se avesse dimenticato anche come si cammina. La sciacquo, la sistemo un po’, poi la metto a sedere sulla sua sedia a rotelle e qualche attimo dopo siamo in giardino.

L’aria profuma di terra, di foglie umide e fiori. Fermo la sedia a rotelle, bloccandola, e mi siedo accanto a lei sulla panchina di ferro battuto. Seta ci raggiunge con i suoi comodi, ci scruta, fa qualche movenza sinuosa tra le mie gambe, poi balza sulle gambe di mamma.

Che non sobbalza.

Che non si accorge di niente.

Inizia ad accarezzarla, forse mossa da un istinto che non riesce a controllare. Davanti a noi le montagne si ergono alte e maestose. Si vedono i boschetti a valle, si intravede il lago e i sentieri che portano fin su in cima. A un tratto, mamma allunga il suo braccio magro e vecchio verso di me, mi prende una mano e la porta sul suo grembo dove adesso Seta si è addormentata. Me la stringe forte, senza dire neanche una parola.

Mamma non sa più chi sono io. Eppure, con questo gesto tenerissimo che mi fa bruciare gli occhi e che mi impedisce di parlare, capisco che forse essere dimenticata da lei sorpassa davvero la memoria, come scrisse Emily Dickinson in quella poesia letta quando avevo solo 13 anni. Che io sono dentro di lei, in pensieri e ricordi che non può più riportare a galla né decifrare. Che, forse, mi ha dimenticata, ma mai scordata.

Sollevata da questa riflessione, ricambio la stretta e poggio la mia testa contro la sua, ormai bianca.

E poi, un giorno, una notifica fa squillare il mio telefono. Lo tiro fuori dalla tasca, è una mail in arrivo: “Siamo lieti di annunciarle che la nostra casa editrice ha preso in considerazione la sua raccolta di poesie per una prossima pubblicazione…”.

Non posso crederci.

In questi anni, ho scritto altre poesie. Le ho custodite in un cassetto, troppo intimorita da altre porte in faccia, da altre mail senza risposta. Poi, una sera di qualche mese fa, mentre mamma dormiva, ho preso il mio computer e, senza starci troppo a pensare, ho inviato tutto a una piccola casa editrice, convinta anche questa volta di fare solo un buco nell’acqua.

E, invece… Mi giro verso mamma. Lei sta guardando un uccellino che nel frattempo si è poggiato sul ramo di un albero.

«Mamma, pubblicheranno le mie poesie! Ce l’ho fatta!».

Lei resta immobile. Muove solo le mani su Seta, l’accarezza ancora e ancora e ancora.

In quelle poesie c’è tanto di mamma, di quella Rosa meravigliosa che era prima che la dimenticanza le portasse via tutto. C’è chi era.

Come sorrideva.

C’è la sua vita e come la viveva.

«Ciò che è scritto, resta per sempre e non va dimenticato». Me lo disse mamma, quando mi regalò il mio primo libro di poesie.

Ora anche lei è nascosta tra i versi, ferma sulla carta stampata.

La mia mamma, vittima di una spietata, assurda e inesorabile perdita di memoria, non verrà mai dimenticata.

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articolo pubblicato su Confidenze n. 38 2025

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