Le mimose mai date

Cuore
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Riproponiamo nel blog la storia vera più apprezzata del n. 10

 

Ovunque sia, mi auguro che mamma ora conosca la pace del mare e, tra le onde, continui a cantare una ninna nanna a sua nipote. Da parte mia, l’unico modo che ho per reagire è tendere una mano a chi oggi vive incubi come quello che ha vissuto lei

STORIA VERA DI ROSARIA G. RACCOLTA DA MARCO ANGILLETTI

 

Stavo lavorando in salumeria quel martedì. Il telefono continuava a squillare e io non potevo allontanarmi dai clienti. In un attimo di tregua ho richiamato quel numero. La voce tutta allarmata di una zia paterna chiedeva se mia madre fosse ancora a Genova da me. Lei, però, era tornata al suo paese di origine già da giorni. «Allora è vero. È successo!». L’8 marzo del 2022 sono stata traghettata verso il peggiore dei gironi infernali e il fuoco mi ha bruciata viva. Non avevo ancora compiuto 29 anni, quando mia mamma è stata uccisa con un colpo di pistola. E se già la perdita di una madre è un dolore per cui non siamo mai abbastanza maturi, immaginate con quale supplizio interiore si possa andare avanti sapendo che a premere il grilletto è stato tuo padre. Ha assassinato lei nella carne, ha massacrato noi nello spirito. Aveva 60 anni e portava il nome di Vincenza. Nel suo paese a ridosso del mar Ionio la chiamavano con il vezzeggiativo Cecé, mentre per me e mio fratello Domenico era teneramente la piagnona, perché si emozionava per ogni piccola cosa. Tutte le mamme sanno essere mangiatoie di amore, ma la nostra era un colosso di sensibilità e bontà nei confronti di chiunque. Il suo altruismo era racchiuso in un’agendina che custodiva gelosamente, su cui aveva annotato tutti i numeri della gente del paese: appena succedeva qualcosa in una casa, una novità bella o brutta, lei alzava la cornetta pronta a donare un pensiero. Una donna perbene, tessitrice di favole altrui e schiava in catene nella sua. Era bella. I capelli mori e ricci della giovinezza avevano lasciato il posto a un taglio più corto, di un biondo miele. Si regalava una carezza di trucco anche solo per andare a fare la spesa. E malgrado una quotidianità di sacrifici, ci teneva a vestirsi bene. Continuo a vederla sorridente con addosso il vestito leopardato che aveva scelto per il primo compleanno di Viola, mia figlia, la sua adorata nipotina. Certi vestiti non ti restano impressi per il taglio o il tessuto, piuttosto per lo stato d’animo di chi li indossa: e lei, quel giorno, era felice davvero. Il numero otto è diventato per me un segno incancellabile. Viola è nata l’8 agosto, mia madre è morta l’8 marzo. Ormai questo numero è icona di dono e di abbandono.

Avrei voluto evitare un dolore tanto insanabile al mio amato fratello. È più piccolo di me e, purtroppo, è stato proprio lui a fare la drammatica scoperta: era arrivato a casa con un mazzo di mimose in mano da donare a nostra madre e, quando ha aperto la porta, le suole delle scarpe si sono macchiate di sangue. Che senso può avere per noi la festa della donna? È un rimpianto che ci presenta il conto di un calvario intimo e penoso, velato da maschere e sentimenti illusori. La nostra infanzia si è presa gioco di noi in un appartamento nella provincia di Mantova, dove i miei erano andati a vivere perché lui lavorava per un’impresa edile. A mia madre mancavano molto gli intrecci umani e i panorami del Sud, le si leggeva tutta la nostalgia in viso.

La nostra era la casa delle mezze verità, dei bocconi amari mandati giù per la smania di tenere unita la famiglia, era la casa dell’annullamento personale, della misantropia di lui, del troppo perdono di lei. I litigi riempivano le scodelle sulla nostra tavola. Quando accadeva, io e Domenico uscivamo fuori, sul poggiolo, e ci abbracciavamo stretti nella speranza che le nostre orecchie percepissero il meno possibile. Mamma faceva di tutto pur di garantirci un futuro felice. Per guadagnare qualcosa, stirava a domicilio e già quella minima finestra di indipendenza finiva per accecare la gelosia tossica di suo marito.

«Altro che stirare le camicie. Chissà cosa fai da quegli uomini!» diceva.
Era un continuo vomitare insulti e maldicenze, le sue paranoie rimarcavano la sudditanza psicologica a cui tutti dovevamo sottostare. E non si trattava di pura irruenza verbale, arrivava a essere violento anche fisicamente. Le ha lanciato addosso qualunque cosa capitasse sotto mano. Una statua del Cristo, che lui stesso aveva comprato, era finita in frantumi sulla sua schiena. Quanto avrei voluto che gli occhiali da sole fossero per mia madre un accessorio della bella stagione! Invece no, lei li portava perfino in inverno per nascondere i segni. Nonostante ciò, anche nei momenti peggiori, mamma ha sempre taciuto con un accanimento a salvare il salvabile, attaccata alla sua idea di famiglia. Non eravamo dei bambini come gli altri, la diversità ce la portavamo cucita nelle pupille: non partecipavamo alle feste dei compagni di classe, non ci riunivamo nel cortile, non conoscevamo la semplicità di un viaggio sereno o una serata in pizzeria. Vivevamo da 11 anni in quella zona e mai ci eravamo accorti della presenza di un parco giochi accanto al palazzo.

La prima volta che mia madre aveva deciso di portarci lì, si era seduta su una panchina lasciandoci liberi di scorrazzare. L’unica panchina del parco, dove si era accomodato anche uno sconosciuto, sul lato opposto. Mio padre è passato da lì e ha cominciato a inveire contro mamma, convinto che lei stesse amoreggiando con l’uomo della panchina.

Quella sera non ha aspettato neppure di arrivare a casa: si è scagliato contro di lei già nel garage. Poi si calmava, andava a giocare in qualche casinò spendendo quel poco che aveva, due o tre giorni di musi lunghi e alla fine, come sempre, loro facevano pace.
Più le tasche si svuotavano di serenità, più nostra madre colmava le mancanze con l’unico ingrediente che nel suo grembiule non scarseggiava mai: l’amore. Mi ricordo quando passava dal bar sotto casa per comprare la focaccia, sapendo che ci avrebbe resi felici con poco. E invece anche un gesto così materno e così semplice, per lui era un oltraggio alla sua integrità.

«Te la fai con il barista, vero? Per questo vai sempre lì, pu…a!». Era stato abile a crearci il deserto intorno. Parenti, amici, vicini di casa. Nessuno poteva varcare il limbo in cui le esigenze di lui dovevano essere sempre servite e riverite. L’unica amica che mia madre aveva nel paese abitava nella palazzina di fronte. Ma rappresentava una minaccia, il rischio che la complicità tra donne risultasse nociva, e allora mio padre ha inscenato liti furibonde fino a farle allontanare. Ogni trascuratezza era motivo di battibecco: un piatto di pasta con poco sapore, una mancata risposta, il pianto di un figlio, lo sguardo di un estraneo.

Quando cresci in un contesto del genere, ti sfiora la percezione che ciò che avviene intorno a te sia sbagliato. Tremi come un corpo nudo su una lastra di ghiaccio ogni volta che senti le urla, vedi oggetti volare da una stanza all’altra o accarezzi i lividi sulle spalle di chi ti ha messo al mondo. Poi, però, ti accorgi che tuo padre chiede scusa, che tua madre è disposta a perdonarlo, senti ripetere la frase che tutti sbagliamo e quasi ti convinci che certi screzi facciano parte della normalità. Il desiderio di allegria dei bambini è capace di tenere all’oscuro molti drammi, pronti a tornare a galla quando si è più grandi, sotto forma di processi irrisolti e mai accettati.

Che lui fosse aggressivo e infuriato con la vita era chiaro a tutti. Solo dopo averlo sposato, mia madre era venuta a conoscenza del suo passato burrascoso. La mia famiglia materna aveva tentato di salvarci. Una volta le sorelle di mamma erano riuscite a convincerla a lasciarlo e a tornare giù.

Me lo ricordo, erano venuti fino in Lombardia a prenderci, avevamo caricato tutto sul furgone.

Le posate erano l’ultima cosa messa nel cassone, mi sono rimaste impresse: un ultimo pezzo di noi e avremmo conosciuto la pace. Chiuso il furgone, invece, mia madre aveva iniziato a dirsi pentita, in lacrime. Abbiamo riportato tutto in casa e il viaggio di ritorno degli zii è stato senza di noi.

Era la sua mentalità. Non intendo né giustificarla né additarla, ma tutti noi siamo il frutto dei contesti in cui cresciamo e delle esperienze vissute. Lei non amava farsi del male, non era autolesionista, ma ahimè viveva aggrappata al retaggio culturale che aveva forgiato in lei un senso di asservimento a un patrimonio di valori sacri, secondo cui una famiglia resta famiglia pure nelle situazioni peggiori. Aveva vissuto a casa dei genitori fino a 30 anni, senza grandi moti di esplorazione. Aveva frequentato un solo uomo e lo aveva sposato, con il desiderio di conoscere contesti e sentimenti nuovi. Era riuscita a imbastire una famiglia tutta sua e non se la sentiva di scucire ogni cosa, piuttosto continuava a mettere toppe. Senza tralasciare la malsana percezione che separarsi dal marito fosse un’onta da dare in pasto a pettegolezzi e giudizi. Mia madre non è stata soltanto vittima di una mano ignobile, ma altresì di una cultura rigida, incapace di svecchiarsi da pregiudizi ancestrali. L’ossessione, la scarsa capacità di tenersi il lavoro, lo sperpero di denaro, l’indole asociale e scontrosa del marito: nulla è servito a smuoverla. L’oppressione era tale da arrivare ad assecondarlo, sempre e comunque.

Dopo l’ennesimo licenziamento, abbiamo lasciato il Nord per rientrare di nuovo in Calabria. Si era aggiunta la frustrazione di dipendere in toto da mia madre, anche economicamente. Aveva fallito, da uomo e da marito. E mamma, che non era solita chiedere aiuto, si era rimboccata le maniche come al solito: faceva le pulizie in un villaggio turistico mentre lui, impettito nella camicia stirata a dovere, calcava le piste da ballo con lo spirito dei ventenni.Vincenza era la moglie che non andava mai a ballare, neppure al cinema o al centro commerciale. Non conosceva la riva del mare, sebbene vivesse a poco più di due chilometri.

Lui non odiava mia madre e basta, detestava il genere femminile. Picchiava anche me, perché ero la più ribelle, quella che lo affrontava e gli sputava addosso tutto lo schifo covato dentro a causa sua. Mi sono sentita dare della zoccola, della drogata, della matta. A 17 anni decisi di andare via di casa, con tutto il rammarico per mamma e per Domenico, ma in qualche modo dovevamo iniziare a salvarci. Sopravvivo annebbiata dai sensi di colpa, perché è come se avessi mollato la presa, soprattutto quando mi sono trasferita a Genova, a tanti chilometri di distanza, e ho iniziato una nuova vita con il mio compagno. Credo che essere diventata nonna abbia contributo a innescare la scintilla di cambiamento nel cuore di mamma. Stravedeva per Viola, mia figlia, e gli ultimi mesi li aveva trascorsi a stretto contatto con lei. Forse è stato proprio l’arrivo della nipotina a indurla ad allontanarsi da lui, il pensiero che un’altra anima innocente potesse sperimentare violenza. Specie dopo quella sera di Natale in cui lui era arrivato ad alzare le mani sia su di me sia su mamma davanti a Viola che aveva solo due anni. Con gli occhioni terrorizzati, la bambina era scoppiata in lacrime. In più, mio fratello era cresciuto e anche lui si opponeva di continuo alle angherie familiari.

Nel mese di giugno del 2021 abbiamo deciso di rivolgerci a un legale e poi alla questura. Mamma sembrava finalmente convinta. Serviva, però, almeno un certificato medico che attestasse la violenza. Le torture di una vita non bastavano, né i lividi o i pianti lunghi 30 anni. Occorrevano le prove fresche, recenti, altrimenti sarebbe stata la nostra parola contro la sua.

«Il massimo che possiamo fare è un ammonimento» dissero in questura.
Ci consigliarono di sporgere denuncia per tentato omicidio, sebbene ci tennero a sottolineare che si correva il rischio di incattivirlo. E Vincenza, spaventata da quel rischio, ancora una volta rinunciò a denunciarlo. Lo aveva allontanato da casa e lui la pedinava, lanciando frasi di minaccia contro tutti i familiari. Temeva che la denuncia avrebbe inasprito ogni cosa.
La verità è che non pensi mai che una simile vicenda possa infangare proprio il tuo nome. Invece l’orco è esploso, sobillato dai soliti pensieri: se Cecè era arrivata a mettere piede in questura, di sicuro aveva trovato un altro uomo, visto che in 30 anni di matrimonio quel coraggio prima non lo aveva mai avuto.

L’8 marzo si è recato da lei. Poco dopo le tre del pomeriggio, la pioggia bagnava le strade spopolate. Hanno discusso, mamma si è rifiutata di farlo entrare. Quando si è avvicinata alla serratura per fare un giro di chiavi e mettersi al sicuro, lui ha puntato l’arma verso la porta a vetri e l’ha freddata a bruciapelo. Un solo proiettile, nel petto.Tra il temporale e le urla di una vicina sala giochi, nessuno ha sentito nulla. Ha avuto il tempo di disfarsi della pistola nelle campagne circostanti e darsi alla fuga. Domenico è arrivato sull’uscio con la contentezza di chi sta per fare una sorpresa. Le mimose in mano e un bigliettino pieno di verità:“Sei la donna più importante della mia vita”. Aperta la porta, il nostro angelo biondo era disteso sul pavimento, annegato in uno stagno di sangue. Le ali tagliate e macchiate, per sempre. A nulla è valso scuoterla o urlare. Se ne era andata, sola e in silenzio.

Ho lasciato Genova di corsa e mi sono precipitata lì. Non esistono parole per raccontare gli attimi di disperazione. Guardavo mio fratello sotto shock e morivo dentro ogni attimo di più. Il giorno successivo alla tragedia è stata organizzata una fiaccolata: passi silenziosi, respiri singhiozzanti tra gli striscioni, l’intera comunità addolorata. Anche al funerale, tutti hanno ricambiato la generosità di mamma, onorando il suo nome e chiedendo giustizia.

Il primo Natale senza di lei lo abbiamo trascorso con la famiglia materna. In quella casa si sente ancora la sua voce. Domenico ha ripitturato pure i muri esterni, ma non esiste vernice in grado di sbiancare certe tragedie. Come si spiega un abominio del genere a mia nonna, una donna di 86 anni che ha perso sua figlia così? Come posso spiegarlo alla piccola Viola, alla quale ho detto soltanto che la nonna è salita in cielo? Ogni sera le dà la buonanotte, ponendosi la stessa domanda: perché non mi ha salutato?

Lui è reo confesso e ora si trova in carcere.A distanza di un anno, però, resta uno smisurato senso di impotenza. Femminicidi ogni giorno, donne incapaci di fare una scelta di coraggio, troppi cavilli burocratici che allungano i tempi di protezione. La mia corona di spine continua a torturarmi senza tregua. Avrei voluto fare di più. E l’unico modo che oggi ho per chiedere scusa al mio angelo è tendere una mano a chi vive incubi come il nostro. Mobilitarmi per loro e invitarli a denunciare è fare sì che Vincenza non sia morta invano.

Io e Domenico abbiamo presentato istanza per cambiare cognome e prendere quello di mamma. Tutto ciò che siamo lo dobbiamo a lei, a una donna che è stata insieme leonessa e antilope, abile a ruggire per difendere i suoi cuccioli, ma non abbastanza veloce a salvare se stessa.

Gli unici spari che dovrebbero esplodere in amore sono i fuochi d’artificio su una spiaggia, a coronamento di un bacio. Ovunque sia, mi auguro che mamma ora conosca la pace del mare e, tra le onde, continui a cantare una ninna nanna a sua nipote. Lì, dove si tocca sempre e non si annega mai. ●

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