Legge di attrazione

Cuore
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Legge di attrazione, pubblicata sul n. 16 di Confidenze, è la storia vera più apprezzata della settimana. Ve la riproponiamo sul blog

 

Ero partita disperata, dopo l’ennesima lite con il mio fidanzato. A Milano ci sarei andata da sola alla mostra di Palazzo Reale. Poi quell’incontro casuale con uno sconosciuto, inatteso, ma dentro di me a lungo cercato. Sono certa che lo rivedrò!

Storia vera di Sophie E. raccolta da Silvia Cavalleri

 

Avevo preso quella giornata libera dagli impegni lavorativi come un momento che sarebbe dovuto essere tutto mio. Dovevo liberarmi dal pensiero di quell’uomo, che mi riempiva la mente, più che il cuore. Avevo lasciato che l’ossessione mi impedisse di essere felice, di vivere serenamente tutto ciò che la vita aveva da offrirmi, iniziavo a credere che non ci potesse essere nessuno meglio di lui, di ciò che potevo scoprire e sperimentare accanto a Tommaso. Avevamo parlato tante volte del desiderio di visitare Milano, di scoprire angoli di quella città che mi aveva sempre affascinata, ma arrivata a quel punto, dopo il suo ennesimo rifiuto con un pretesto qualsiasi, avevo deciso di prendere un treno e godermela da sola. Litigammo per quella mia scelta, probabilmente sarei dovuta rimanere in casa a crogiolarmi nel mio dolore, avrei dovuto attendere che si decidesse a invitarmi, a fare qualcosa insieme. Ero stata delusa troppe volte, ero stanca di inseguire gli altri e ormai ero diventata totalmente anaffettiva: quando qualcuno mi feriva non provavo nulla, niente di niente.

Io e Tommaso discutevamo in continuazione  e rimanevo sconvolta dal suo modo di reagire alle difficoltà. Urlava, mi ritrovavo ad ascoltare discorsi interi senza che riprendesse fiato. Diventava paonazzo e sembrava non essere in grado di trattenere la furia che si era scatenata dentro di sé. Venivo investita dalla sua rabbia restando inerme, incapace di rispondergli a tono, alzarmi, andarmene e dirgli che non volevo avere a che fare con una persona di quel tipo; non era la mia idea di amore e non lo sarebbe mai stata. Avevo cercato in tutti i modi di far sì che quel rapporto funzionasse, era stato inutile. Ero delusa, amareggiata, triste, ma non avrei permesso a nessuno di governare il mio umore per troppe giornate consecutive, dovevo smettere di credere ciecamente alle sue parole e concentrarmi prevalentemente sui fatti. Mi voleva? Doveva venire a prendermi, il resto erano scuse. Ero stanca delle frasi ben costruite, della poesia, di tutto ciò che alimentava la mia speranza e che in un attimo svaniva lasciandomi delusa. Dopo aver saputo che avrei trascorso quella giornata senza di lui, Tommaso mi aveva chiamata, era stato duro e schietto, insensibile, maleducato. Era chiaro che tra noi non avrebbe mai funzionato, così avevo deciso definitivamente di ascoltare ciò che, in fondo, era lui a ripetermi da mesi: «Dobbiamo lasciarci stare».

Le sue parole, unite al tono di rimprovero che aveva utilizzato, mi avevano scatenato un desiderio irrefrenabile di tornare a casa, mollare tutto, mandare al diavolo lui, il mondo e l’universo intero.

La mia giornata era rovinata. Tornando verso la stazione camminavo pesantemente sulle piastrelle quasi volessi sprofondare nel terreno, ma quando ero arrivata di fronte ai tabelloni luminosi delle partenze, mi ero bloccata. Perché avrei dovuto rinunciare alla mia giornata per colpa di un uomo?

 

Mi ricordai di aver letto da qualche parte di una mostra che mi interessava alla quale ero convinta avrei rinunciato, quel giorno sarebbe stato diverso. Era assurdo lasciare che qualcun altro decidesse della mia vita e continuasse a essere responsabile dei miei stati d’animo. Così, arrabbiata con me stessa per aver perso del tempo prezioso, mi diressi verso la metro. Solo poche ore più tardi mi sarei trovata a essere felice per ogni secondo perso, per ogni attimo di tentennamento.

Palazzo Reale era a pochi passi dal Duomo, ma non aveva mai attirato la mia attenzione, incredibile quante cose interessanti mi ero persa in compagnia di qualcuno. Dovevo lasciarmi andare più spesso, seguire le mie passioni, far sì che fossero i miei desideri a guidarmi.

Mi resi conto da subito che il cambiamento non sarebbe stato tanto immediato: quel giorno riuscii ad andare a vedere la mostra sbagliata. Non leggevo, non osservavo, avevo ancora la mente occupata dalla discussione, da quello che era accaduto pochi minuti prima, ero totalmente estraniata dal mio corpo e da quello che stavo facendo. Ero interessata all’Impressionismo, e avevo pagato per vedere opere del Rinascimento! Conclusi il percorso espositivo e uscii, attraversai un cortile, superai l’entrata dei bagni, dello shop e finalmente, dalla parte opposta, vidi un poster raffigurante le ninfee di Monet riempire l’intera facciata dell’edificio. Mi inebriai in quei colori vividi, l’assenza del nero, i contrasti di luce e ombre, i profumi, sensazioni ed emozioni che grandi artisti avevano cercato di imprimere sulla tela. Mi affascinavano le opere che ripercorrevano non solo vari momenti della giornata, ma anche lo scorrere del tempo e delle stagioni, era incredibile come tutto potesse cambiare non solo in pochi giorni, ma in poche ore. Era quello che mi stava accadendo, o che sarebbe accaduto di lì a poco.

Dovevo andare in bagno, mi indirizzarono oltre il cortile, da dov’ero precedentemente arrivata  mentre vagavo senza meta.

Mi avviai verso la porta, era chiusa. Odiavo quella sensazione di aver sbagliato qualcosa: mi chiedevo se avessi tirato abbastanza, se dovessi spingere, se esistesse la fotocellula e persino se ci fosse qualche parola magica da pronunciare che spalancasse l’accesso. Nervosa aspettai che arrivasse qualcun altro. Una donna con un bambino in braccio, un uomo, un ragazzo, tutti se ne andarono sbuffando, quest’ultimo rimase. Mi lanciò un’occhiata alla quale risposi: «Ci ho provato anch’io» gli sorrisi, «ma a quanto pare è chiuso».

«Magari c’è qualcuno dentro» sorrise anche lui.

«Prima sono passata, ma ho notato che non è un bagno singolo, c’è anche la zona allattamento. Dubito che si sia chiuso dentro qualcuno».

«Attendiamo, non si sa mai». Mi avvicinai e ci mettemmo in un angolo scrutandoci appena.

«Chissà per quanto tempo dovremo rimanere qui». Quella situazione iniziava a divertirmi ora che avevo qualcuno che mi faceva compagnia.

Lui si avvicinò a un paio di ragazzi che, seduti sopra i portaombrelli, sembravano attendere come noi. Lo guardai più attentamente, era un bel ragazzo, i capelli scuri gli cadevano sugli occhi in tanti ciuffi ribelli, sembravano incredibilmente morbidi. Scacciai quel pensiero. Vestito in un completo blu, la camicia bianca, la giacca e una valigetta tra le mani, sembrava fuori luogo in quell’angolo della città dove i turisti si affollavano in shorts, infradito e canotte dai colori sgargianti.

«Scusa, ma c’è qualcuno dentro?».

«Sì sta pulendo. Ha detto cinque, dieci minuti».

«Ok grazie» disse e ritornò verso di me.

«Abbiamo un po’ da attendere probabilmente». Aveva un sorriso irresistibile. Uno di quelli sinceri e spontanei che illuminano il viso e danno la sensazione di poter afferrare la felicità con le mani.

«Meglio che mi metto comoda allora. Non riuscirei a muovermi da qui». Mi sedetti su dei gradini sporchi, non ero mai stata schizzinosa.

«Nemmeno io. Bevo un goccio d’acqua così peggioro la situazione».

Osservai il suo comportamento, era chiaro che sarebbe stato ineducato da parte sua evitare di sedersi vicino a me per paura di sporcarsi o di venire infettato da qualche virus. Si guardò intorno, fissò i gradini neri, sospirò e si sedette. Immaginai che avesse dovuto fare uno sforzo enorme per me.

Per me?

Restammo in silenzio per un po’ fin quando non fu evidente il fatto che avremmo trascorso insieme molto più tempo del previsto.

«Sei di Firenze?».

Cercai di trattenere una risata.

«Si sente?».

«No» rise anche lui. «Scherzo».

 

Mi raccontò della sua vita, era un professore universitario, aveva insegnato in diverse facoltà nel mondo, aveva avuto a che fare con studenti di ogni nazionalità, si descriveva come asociale, perché gli importava poco degli altri, odiava la maleducazione e l’ignoranza. Eravamo affini su molte cose eppure la differenza tra noi era abissale: accanto a lui continuavo ad annuire e sembravo una bambolina hawaiana sul cruscotto della macchina. Mi sentivo sopraffatta da lui, mi perdevo nel suono ipnotico della sua voce, nel movimento delle labbra, il sorriso all’improvviso, la erre moscia. Avrei voluto non smettesse mai.

«Comunque piacere, Sophie».

«Leone, piacere». Aveva una stretta decisa, non sarebbe potuto essere altrimenti. In quel momento avevo acuito tutti i sensi, avevo focalizzato l’attenzione al contatto con la sua pelle guardandolo intensamente, mi sforzavo di rimanere concentrata nonostante la sua voce mi distraesse terribilmente. A 30 anni ero ancora preda di deliri adolescenziali.

«Quindi sei venuta qui solamente per la mostra?».

«Sì mi sono presa un momento per me. Ci voleva. E tu?».

«Ho fatto un colloquio all’università, ma sembra interessante questa mostra di Albrecht Dürer».

Avrei voluto dirgli che era grazie a quella mostra se ci eravamo incontrati, ma in quel momento la porta si aprì e abbandonammo ogni discorso.

A quel punto l’ansia e la preoccupazione avevano raggiunto il livello massimo, non potevo perdere quel ragazzo all’interno di una toilette, in una città sconosciuta, conoscendone solamente il nome. Battei il record di velocità e lo  aspettai in un angolo fumando con indifferenza.

«Mi presteresti l’accendino?».

Gli accesi la sigaretta mentre i suoi occhi scuri si legavano ai miei aprendo qualcosa all’interno del mio ventre.

«Io ho ancora una mezz’oretta. Andiamo a bere un caffè?».

Lo squarcio dentro di me si allargò ulteriormente.

La giornata aveva preso una piega del tutto inaspettata, è semplice allontanarsi dal dolore quando ci si rende conto che non ne vale la pena. Quando si sta male per troppo tempo ci si abitua, si rimane adagiati e ci si culla nella propria sofferenza, ma è altrettanto facile uscirne.

Durante quella mattinata avevo capito non solo che la vita presenta le persone giuste nel momento giusto, ma che avrei dovuto lasciarmi andare, essere predisposta al cambiamento.

Era quello il vero motivo per cui ero andata a Milano: lasciarmi sconvolgere dagli eventi, da qualcosa che fosse in risonanza con me. Se non avessi preso quel treno, non avessi litigato con Tommaso convinta di voler tornare a casa, non avessi perso del tempo in stazione, non avessi sbagliato mostra e non avessi osservato le opere per quel determinato periodo di tempo, avrei mancato quell’incontro. Se non avessi bevuto quello specifico quantitativo d’acqua, se la mostra sull’impressionismo avesse avuto un bagno alla fine del percorso, o anche solo a metà, non avrei incontrato quell’uomo interessante.

Avevo smesso da tempo di lamentarmi, di giudicare gli altri e ciò che mi accadeva nella vita, non esisteva fortuna o sfortuna, ero io a creare il mio mondo.

Avevo imparato a sentirmi responsabile per la mia condizione, ero io a permettere a Tommaso di governare il mio umore, era colpa mia se piangevo ogni volta che lo incontravo, non era lui il responsabile delle mie lacrime. Se non avessi smesso di dare la colpa agli altri non avrei mai vissuto la vita che volevo. Attraevo da sempre persone e situazioni che mi erano affini, ero mentalmente predisposta a quell’incontro ed era avvenuto. Tutto aveva fatto sì che ci incontrassimo in quel luogo, in quel preciso istante, e noi ce ne eravamo resi conto.

Cercammo un bar con dei tavolini all’aperto, lui mi chiese cosa volessi e andò ad ordinare. Passai un paio d’ore estraniata dal mondo intero, lo avrei ascoltato per minuti e giorni interi, era qualcosa che non potevo controllare. Il suo tono di voce, la cadenza e l’accento, unito al modo forbito che aveva di trattare qualsiasi argomento, erano un connubio dannatamente erotico per me. Le mie sinapsi erano in fibrillazione. Nella mia mente avevo un solo pensiero fisso: “Ti prego continua a parlare. Parla di filosofia, di storia, di filologia, di arte, dell’università, parlami in inglese, ebraico, arabo, ma non smettere. Non smettere mai”.

Mi sentivo dolcemente solleticata dalla sua voce in punti diversi del cervello e mi piaceva, non ero più carne e ossa, ero ipotalamo, chimica, ormoni, dopamina. A intervalli regolari, lui spostava i capelli dal volto e mi sorrideva, mi stordiva e sembrava non accorgersene. Parlammo di noi, del mio desiderio di evasione, della sua voglia di fermarsi, di mettere radici.

Ci eravamo incontrati in un periodo di transizione per entrambi, ma eravamo lì, e in quel determinato momento, non c’era nulla di più perfetto di quell’incontro.

Il tempo, indipendentemente dalle nostre sensazioni, continuava a scorrere, ed entrambi dovevamo tornare alla nostra vita. Riemergere dall’angolo di mondo che ci eravamo ritagliati solo per noi. Proprio in quell’istante mi resi conto di non aver mai sentito la necessità di cercare il cellulare nella borsa, non solo per controllare l’ora, ma anche per sapere se Tommaso mi avesse cercata, se qualcuno avesse avuto bisogno di me. Perennemente connessa con il mondo, accanto a Leone tutto aveva smesso di esistere. Non mi era mai successo.

Scendemmo in metropolitana senza parlare, sentivo i secondi scorrere inesorabili, qualcuno di noi due avrebbe dovuto pur chiedere un riferimento qualsiasi, una mail, un numero di telefono.

«Grazie per aver aspettato il bagno con me. È stato bello». Quel sorriso.

«Molto bello».

«Allora ciao, buon ritorno».

Ci stavamo fermando, non avrebbe fatto nient’altro. Non sarebbe successo nulla.

«Buon ritorno!».

Mi lanciò un ultimo sguardo e si allontanò, sparendo dalla mia vista. Non ero triste o delusa, sapevo che l’avrei rintracciato da qualche parte, avrei piantonato l’università di Milano per i successivi cinque anni se fosse stato necessario. Il mio stalking era già attivo e mezz’ora dopo, digitando semplicemente il suo nome e una delle tante università nelle quali aveva insegnato, l’avevo trovato. Era così semplice rintracciare uno sconosciuto?

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