Mi chiamo Lucy Barton di Elizabeth Strout

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Una lettura dolorosa e salvifica, una vera catarsi

Quanto sia perfetto il titolo che Elizabeth Strout ha dato al suo ultimo romanzo, appena uscito in Italia per Einaudi dopo i quattro capolavori editi da Fazi (Olive Kitteridge, I ragazzi Burgess, Amy e Isabell, Resta con me, quest’ultimo già consigliato su questo blog qualche mese fa, ma tutti da leggere e rileggere) lo si capisce quando si arriva all’ultima riga e, ormai senza più lacrime e con la gola che non deglutisce più, mormori “Mi chiamo Lucy Barton”.

Il mestiere del romanziere, lo scrive la stessa autrice affidandone la definizione a una delle comparse del suo romanzo, Sarah Payne, è riferire della condizione umana. In queste pagine, in questo album di fotografie lasciato nel fondo di un cassetto nascosto, Lucy racconta la sua infanzia infelice e gigantesca, racconta la fuga verso la grande città, l’amore scelto in nome di un riscatto o di una salvezza, la nascita di due bambine. Lucy racconta l’irraccontabile usando metafore sottili, viscide. E racconta la tragedia, ombra di ogni redenzione. La separazione dal marito, il dolore furente delle figlie, la nuova relazione, la morte dei genitori. Sullo sfondo, l’America profonda e New York, città spaesata di giorno e perfetta di notte, città paradigma del nostro tempo e del nostro io solitario, imploso e in espansione.

Un romanzo perfetto, nelle cui attente parole vibrano silenzi”, ha scritto Claire Messud sul New York Times. Mai capitoli così spartani, frasi così essenziali, hanno scavato più a fondo nel senso di impotenza di un adulto che resta incatenato al bambino che è stato. Poche parole, dialoghi accennati, piccoli particolari, sguardi negati, fughe: siamo un racconto senza fioriture piene, siamo aria rarefatta, ossigeno in difetto. Siamo la paura che ci ha schiacciato, le spalle voltate di genitori senza ruolo e fuori fuoco, siamo l’incapacità di compiere non atti di coscienza dettati da sensi di colpa spietati ma di incoscienza tenera, amorosa, verso noi stessi. Certi amori sono una condanna sorda e senza occhi: può un figlio non cercare sempre nel cuore di una mamma un riparo, nella mano di un papà una certezza?

“Io lo capisco il dispiacere che hanno avuto le mie figlie? Sono convinta di sì, ma è possibile che loro la pensino diversamente. Eppure conosco anche troppo bene il dolore che noi figli ci stringiamo al petto, so che dura per sempre. E che ci procura nostalgie così immani da levarci perfino il pianto. Ce lo teniamo stretto, invece, e lo difendiamo da ogni assalto del cuore: Questo è mio, è mio, è mio”.

Ho pianto molto, leggendo queste pagine. Elizabeth Strout è una scrittrice vera: le sue parole sono bisturi che aprono i ricordi scomodi; il suo silenzio, le sue pause, sono bende, balsamo, cura.

“Questa è la mia storia. Ed è pure quella di tante altre. Io mi chiamo Lucy Barton”.

Anch’io. Anch’io mi chiamo così. Lucy. Lucy Barton.

Elizabeth Strout, Mi chiamo Lucy Barton, Einaudi

Confidenze