Nemmeno un secondo senza di te

Cuore
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Vi riproponiamo la storia vera più apprezzata del n. 46

 

Volevo il mio sogno, il principe azzurro che mi portasse nel suo regno felice e sentivo che Paolo non era in grado di darmelo. Per questo ho sposato Franco. Senza immaginare che il regno avrei dovuto sostenerlo io. Finché ho iniziato a sentirmi soffocare

STORIA VERA DI EMMA B. RACCOLTA DA BARBARA BENASSI

 

La sua voce risuona ancora nella mia mente mentre fisso gli alberi spogli del giardino liberarsi delle foglie rosse e gialle, che in un ultimo atto di resa, cadono a terra esauste.

«A novembre ne riparleremo».

Così mi ha detto, così mi ha salutata prima di partire per quel viaggio della speranza insieme ai figli, accorsi dalle loro vite unicamente per lui.
Lui. Lui che ha sempre avuto un coraggio da leone, lui che conosco da oltre 30 anni e che mi è sempre rimasto impigliato al cuore, lui che ha modellato con le sue mani calde i miei anni migliori.
E oggi pago pegno perché nel gioco della vita tutto torna, dentro di noi ogni situazione non risolta vuole uscire dal limbo vuoto di quelle lasciate in sospeso.

Paolo è arrivato nella mia giovinezza come un fuoco su un cumulo di desideri di paglia. Non posso non sorridere al ricordo dei miei 20 anni che mi vedono piena di aspettative, certa di conoscere i meccanismi del mondo di cui in realtà non sapevo nulla, sicura nelle mie pretese che altro non erano che frivole ambizioni, emulazione di stereotipi familiari sicuri, certi, stabili.

Allora non facevo altro che chiedere al destino una sistemazione nel mondo che fosse conforme a canoni a me noti, al mio ambiente, alle mie abitudini. E proprio mentre fantasticavo su evanescenti relazioni, una sera a una festa mi venne presentato proprio lui, Paolo.

Fin da subito mi fu chiaro che non sarebbe stato in grado di darmi niente di ciò che sognavo, bensì solo ciò di cui io avevo davvero bisogno. La nomea che lo precedeva non era incoraggiante. Rosalba, l’amica che me lo aveva presentato era stata eloquente.

«Paolo è uno sciupafemmine, un dongiovanni irriducibile, fai attenzione».

A me invece era sembrato un tipo interessante, affidabile e profondo come un mare placido nel quale perdersi e fin da subito la ragione mi abbandonò lasciando che la passione annullasse ogni buon proposito.

Facemmo l’amore la sera stessa e con il tempo scoprimmo di essere di fronte a un prodigio strano, inaspettato quanto sorprendente. Il mio corpo aveva riconosciuto il suo fin da subito, come un compagno del passato, un’ombra che tornava a salutare sotto le spoglie di quell’uomo alto, dagli occhi di stella cadente, che con le sue mani grandi poteva rendere la mia pelle più viva che mai. E come la pelle così la mente e lo spirito. Legati da un filo invisibile, sentivamo e pensavamo l’esistenza allo stesso modo, con lo stesso piglio, le stesse passioni e la stessa energia.

Mia madre se ne accorse subito. Mi mancava l’aria, vivevo trasognata e distratta, sterile a ogni entusiasmo che non fosse lui. La sentivo parlare con le sue amiche, la voce un sussurro, il tono allarmato.
«Ha trovato proprio uno che con le donne ci sa fare e lei così giovane e ingenua, cosa vuoi… C’è caduta con tutte le scarpe. Uno» insisteva, sempre bisbigliando, «che non ha né arte né parte, che non è nemmeno laureato e che è buono solo a chiacchierare. Che futuro potrebbe darle uno così?».
Mia madre. Malgrado si sbagliasse di grosso sul conto di Paolo, su una cosa ci aveva visto giusto: un treno in corsa mi aveva investita in pieno e non avevo possibilità di salvezza. Paolo era tutto per me come io per lui e chiusi nel nostro mondo ci sentivamo invincibili.

Le difficoltà cominciarono quando dovemmo misuraci con tutto ciò che ci aspettava fuori.
Dopo tre anni di una vita vissuta avvinti l’uno all’altra, stretti in una passione vivificante e radiosa, giocoforza dovemmo alzare lo sguardo sul mondo intorno a noi. Non so lui, ma io mi sentii persa. In un attimo la realtà diventò dolorosa. Mi accorsi che i desideri di paglia che lui aveva bruciato mantenevano braci ancora vive dentro di me.
Amiche sposate, figli, vacanze, case al mare, viaggi, mentre io ero “solo” innamorata di Paolo. Paolo che non aveva disponibilità economiche, non si era ancora laureato, non
aveva un lavoro e non veniva da una famiglia di cui i miei sarebbero stati contenti. Troppi “non” nel suo curriculum, troppe paure nel mio cuore.

Così a poco a poco la luce cambiò. Fui presa da un’angoscia tagliente. Se c’era una possibilità per realizzare i sogni che avevo nutrito, io la stavo perdendo. Se c’era un modo per trasformarmi da Cenerentola nella principessa della favola che mi era stata raccontata fin dall’infanzia, dovevo fare qualcosa. E quel qualcosa significava andare al ballo, e soprattutto andarci da sola.

Decisi in una notte. Risoluta, determinata, sicura. Andava fatto, avrei dato un taglio netto, la vita era altro, aveva ragione mia madre, c’erano delle priorità. Sistemazione, famiglia, figli: dovevo tornare a darmi degli obiettivi, delle priorità. Lo avrei buttato fuori dalla mia esistenza senza appello, sarei guarita e mi sarei potuta guardare intorno per trovare qualcuno con cui costruirmi un futuro.

Questo mi dicevo, in realtà non so perché lo feci, so solo che avevo una paura folle di perderlo, di non essere all’altezza di un amore del genere e di morire se mai lui un giorno mi avesse lasciata per un’altra. “L’estate non regge per sempre” mi ripetevo, “prima o poi l’autunno arriva”.

E io ero certa che presto la stagione calda della nostra relazione sarebbe finita e che il freddo del distacco ci avrebbe travolti senza speranza.

Di punto in bianco non volli più vederlo. Mandai avanti mio cognato, il marito di mia sorella, a placare il dolore cieco da vedovo di Paolo che si aggirava sconvolto e sofferente per strada sotto casa mia, aspettando di incontrarmi. Non gli permisi mai di contattarmi e recisi di netto ogni possibilità di ritorno.

Naturalmente fu un vero disastro. Ingrassai tantissimo e piansi tutte le lacrime che avevo. Paolo mi mancava nell’aria che respiravo ma cercai nuovi sbocchi dove attingere ossigeno. Mi sentivo infelice, brutta e senza speranza, ma per nulla al mondo avrei rinunciato al mio posto al sole. Volevo il mio sogno, la mia favola, il principe che mi spettava per diritto di nascita.

Conobbi Franco a un evento che mio padre aveva sponsorizzato. Era un ragazzo sensibile, introverso e delicato. La sua famiglia era una vecchia conoscenza della mia e il loro stile di vita, le loro attività, le loro case, li resero fin da subito perfetti.
Eccola lì dunque la mia scarpetta sulla scalinata del ballo, finalmente da Cenerentola a principessa sarebbe stato un attimo. Franco e io ci sposammo dopo un anno di fidanzamento, secondo le tradizioni. Mia madre si tranquillizzò, mi vedeva ritornata in me, pronta, decisa e razionale come un tempo.
I figli arrivarono quasi subito, uno dietro l’altro per la gioia di tutti. Ma la realtà non lesina sorprese e io dovetti farci i conti. Mio marito aveva trovato nei figli e nella famiglia un rifugio perenne. Era un uomo schivo, chiuso, insicuro, timido e propenso alla malinconia. Aveva fatto del mio amore lo scudo dietro il quale nascondersi, dal quale trarre forza e vivere ripiegato su se stesso. Ero sempre io a spronarlo, a dargli coraggio, a supportarlo. Con il passare degli anni il mio sostegno era diventato fondamentale per affrontare le numerose difficoltà che lui incontrava sia sul piano professionale che familiare, come la ritrosia di sua madre e i difficili rapporti con i suoi fratelli. Ogni minimo scossone lo irretiva, lo paralizzava e lo demotivava. Grazie al mio appoggio si rialzava sempre e trovava la forza per raggiungere i suoi obiettivi. Per me era normale lasciare che attingesse a piene mani dalla mia caparbietà e dalla mia forza. Per la famiglia, per i figli. Quella splendida calzatura di cristallo, seppur bellissima certo, si era rivelata terribilmente stretta e mi intrappolava in un ruolo che a poco a poco mi soffocava.

Fino al giorno in cui fu la mia salute a essere messa in discussione. Qualcosa all’utero che andava verificato, approfondito, qualcosa che mi scosse dentro, tanto, troppo. Immediatamente mi sentii prosciugata e avvolta da un alone di incertezza, lontana da dove volevo essere e da colui con cui volevo stare. Dovetti farmi forza da sola, perché Franco era troppo spaventato per sostenermi e quando la cosa fu risolta, grazie al cielo nel giro di poco, gli strascichi furono devastanti.

Non dico che fu solo la malattia, mettiamoci pure i figli ormai cresciuti e soprattutto la mia stanchezza. Ero stanca di vivere stretta in un ruolo e di sorreggere un uomo che non aveva mai saputo camminare da solo, sopraffatta dal desiderio di tornare a correre a piedi nudi nella vita a modo mio.

«Rosalba, mi dai il numero di telefono di Paolo? Vorrei fargli gli auguri di buon compleanno per i suoi 60 anni» chiesi alla mia cara amica che lo frequentava ancora. Avevo ripensato a lui. A lui che mi avevano detto non stava bene e che era divorziato con tre figli.

«Se fossi una vera amica non te lo dovrei dare, non voglio essere una rovina famiglie» mi rispose allungandomi un foglietto sul quale era scarabocchiato un numero.

Digitai e digitai tante parole tenere, tremando sotto lo sguardo preoccupato di Rosalba.
«Ti stai mettendo nei guai, e non dovresti».
«Sono solo auguri Rosalba» risposi mentre inviavo senza pensare la mia bottiglia da naufraga nell’oceano di WhatsApp. «I 60 sono un bel traguardo. Sono solo un’amica che gli augura, vista la situazione, 100 di questi giorni, tutto qui. Forse nemmeno mi risponderà».

Il messaggio invece arrivò la mattina seguente. “Emma sei tu? Tu, tu?”.
E senza che avessi il tempo di rispondere il telefono squillò. «Emma come stai?».
«Mi sei mancato. Inutile dirtelo, ho preso una strada sbagliata, mi sono persa, Paolo».
«Mi hai cacciato, lo sai vero? E lo sai che ho aspettato sotto casa tua per mesi, forse anni, e forse sto ancora aspettando lì. Anche se sono stato sposato e sono padre di tre figli, anche se sono malato, credo di non essere mai venuto via da quella strada».
«Che cos’hai, tesoro?».
«Sto morendo amore mio. Ai polmoni, qualcosa di brutto». «Paolo non andartene dalla mia strada.Voglio recuperare il tempo perduto».
«Te l’ho detto, non mi sono mai mosso. In tutte le cose belle che mi sono capitate nella vita ho sempre trovato qualcosa di te. Sono sopravvissuto così fino a oggi».
Da quella telefonata iniziammo a vederci, lui nascondendosi come poteva dalla malattia, io da mio marito. Malgrado il suo stato di salute trovai il suo corpo come lo avevo lasciato, il suo respiro uguale al mio, le sue mani pronte ad accogliermi.

«Guarirai vero?».

«Sono ottimista e felice, Emma. Il solo stare con te mi rimette al mondo. Sicuramente mi stai regalando il mio tempo migliore» diceva.
Paolo era davvero fiducioso. Era sempre stato un guerriero, un leone pronto ad assaltare l’esistenza. Si era laureato ed era diventato un bravo avvocato, aveva avuto da una moglie molto più giovane di lui tre figli splendidi e riusciva a mantenere una vitalità e una passione per la vita stupefacenti. Fino alla recidiva.

A settembre il male si ripresentò, aggressivo, senza pietà, inesorabile.
Paolo sembrò accusare bene il colpo. Io invece mi sentii morire. Mio marito per la prima volta si accorse di qualcosa e iniziò a diventare sospettoso. Sentiva che qualcuno si era intrufolato tra di noi e cercò conferme nel mio cellulare trovando tutti i nostri messaggi.
Con la scusa della malattia grave di Paolo potei a minimizzare.
«È un amico caro che sta male, le mie sono parole di consolazione» cercai di dire.

Riuscii a placare Franco solo apparentemente. La verità doveva essere così evidente che non mi mollava un attimo. Ero sempre sotto controllo, pedinata quando uscivo e con il cellulare clonato. Tanto mio marito era stato passivo nella nostra vita passata, tanto ora si rivelava controllante, dominatore e invadente. Mi sentivo prigioniera in una gabbia dorata, che poi tanto dorata non era più.

Non volevo essere la principessa del mio sogno, volevo solo vivere la mia vita che si riassumeva in parlare con Paolo, sentirlo, vederlo anche solo per poco.
Comprai un altro telefonino e ripresi i contatti. Niente mi avrebbe fermata. Le scarpe strette da principessa, inutili e dolorose, ormai le avevo buttate ai rovi. Franco poteva dire e fare ciò che voleva, io ormai non ascoltavo nessuno.

Paolo era un uomo forte, si sottoponeva alle cure con determinazione e coraggio anche se col tempo si rivelarono non molto efficaci e non diedero i risultati sperati. Ma lui non smise mai di sperare e di lottare.

«Mi hanno detto che esiste una nuova cura, qualcosa di definitivo, rischioso, ma definitivo» mi annunciò un giorno al telefono. «Ci voglio provare Emma, per te. Se non fossi malato verresti a vivere con me? Se fossi come una volta, se fossi un uomo con del tempo davanti…».

«Sì Paolo e non ti lascerei mai più, quindi guarisci, mi hai capito?» dicevo.
Dall’altra parte anche mio marito perorava la sua causa, non si dava per vinto.

«Sei inquieta, ti vedo. E anche raggiante. So che lo hai visto… Non è vero?».
Continuava a seguirmi, ad ascoltare le mie conversazioni, a spiarmi. Quell’uomo soffocante e debole voleva un conforto da me che non potevo più dare. Ero sfiancata dalla crisi del nostro matrimonio. Mio marito voleva un mio cambiamento senza sforzarsi, senza mai stare sulle proprie gambe.

Ma ogni discorso non valeva nulla, non mi importava di avere i suoi occhi e le sue orecchie addosso, ero stanca di una vita al servizio di un’idea della mia famiglia, di altri… L’autunno era arrivato anche per me, ero ormai una donna fatta e volevo raccogliere i frutti della mia vita. Non mi importava quanto sarebbero durati, l’importante era che fossero dolci.

E ancora oggi sono qui.
«La cura è pronta, inizierà a ottobre, amore… A novembre ne riparleremo. Vedrai che potrò darti certezze, ce la farò, te lo prometto» così mi ha detto, così mi ha salutata prima di partire per l’America insieme ai figli.

Appoggio la fronte al vetro freddo della finestra e attendo la chiamata che non tarderà. Novembre è arrivato, con le sue foglie rosse che cadono a terra, esauste dall’intensità di un’estate sfacciata esplosa con troppa forza.

E sono certa ci vedrà di nuovo insieme, ci darà speranza e un futuro. Non importa quanto lungo, ma sicuramente intenso e vero. Poi sarà quel che sarà, so solo che mi è stata concessa una seconda possibilità e, anche se dovesse essere breve, non ne sprecherò nemmeno un secondo.

Mai più. ●

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