Povera stella

Cuore
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“Povera stella” di Giovanna Sica, pubblicata sul n. 16 di Confidenze, è una delle storie vere più apprezzate dalle lettrici, questa settimana, sulla pagina Facebook. Ve la riproponiamo sul blog

 

Io e i miei fratelli abbiamo avuto la sfortuna di nascere da una madre che non era fatta per mettere al mondo figli. La nostra casa era il caos. Eppure, siamo riusciti a donarci, in qualche modo, amore e protezione

Storia vera di Lucia P. raccolta da Giovanna Sica

 

Ma ti rendi conto che non c’è un sabato sera che noi due possiamo andare a ballare coi nostri amici? Perché non dici a quella stronza di tua madre di starsene un po’ a casa con sua figlia?». Parole di Michele, mio marito. Parole che mi fanno male perché sono vere, fin troppo vere. E allora perché non sono stata mai capace di affrontare mia madre, di urlarle contro, di strattonarla? Perché non ho mai preteso che Raffaella, la donna che mi ha messo al mondo, se ne stesse a casa, la sera, come tutte le altre mamme e che si occupasse di Gaia che è figlia sua? È una storia lunga e se volete, se avete voglia e tempo di leggermi, ve la racconto.

Raffaella e Luigi, i miei genitori, mi concepirono che non erano neanche maggiorenni. Ognuno rimase a casa sua, anche dopo la mia nascita; io stavo con mia madre che andava ancora a scuola, di me si occupava nonna Teresa, l’unica figura materna che io abbia mai avuto. Quando ebbero vent’anni si sposarono con tutti i crismi e con grande sfarzo. Mia madre ci teneva a fare una bella festa. All’abito bianco, al lancio del bouquet, alle bomboniere. Al pranzo al ristorante con la musica dal vivo. E visto che gli sposi non avevano un soldo, la spesa per realizzare i desideri matrimoniali di mia madre fu tutta a carico dei nonni materni che non erano ricchi, ma disposti a fare i debiti pur di accontentare la figlia e vederla sistemata come Dio comanda. I nonni paterni parteciparono al matrimonio del loro primogenito come dei semplici invitati, precisarono che la festa in grande stile che voleva fare la nuora era solo una buffonata, quindi loro non avrebbero cacciato un soldo per assecondare i capricci di una ragazzina viziata. Nonna Teresa incassò e portò a casa col solito sorriso: per lei contava solo che i miei genitori cominciassero una vera vita coniugale. Mio padre aveva trovato lavoro in una piccola fabbrica, non guadagnava tantissimo, ma col suo stipendio lui e Raffaella riuscirono ad affittare un piccolo appartamento e a stare insieme alla loro bambina, Lucia, io. Poteva andare tutto bene a questo punto, no? Eh, no, non andò affatto tutto bene. Luigi non faceva altro che rinfacciare a Raffaella che era una buona a nulla. Che lui lavorava tutto il giorno e che la sera non trovava neanche un piatto pronto in tavola perché lei passava il suo tempo al telefono con le amiche e a smaltarsi le unghie. In effetti, mia mamma non cucinava, non puliva, non si prendeva cura di me. A casa di nonna Teresa veniva servita e riverita, non le pareva possibile che nella sua vita da sposata toccasse a lei, proprio a lei, rimboccarsi le maniche. Nei miei ricordi di bambina mia madre è stesa sul divano. Se bussavano alla porta andavo io ad aprire. In seguito a una violenta lite con mio padre, in cui mi è stato raccontato che volarono piatti e anche parolacce, Raffaella decise che io e lei saremmo tornate dai suoi genitori. Basta, non voleva saperne più niente di suo marito. Passò al divano di casa dei suoi genitori, ma, allo stesso tempo, riprese a uscire con le amiche e a frequentare ragazzi; a me ci pensava di nuovo nonna Teresa. Ma poi Luigi venne a riprendersela. Fecero la pace e nacque un altro figlio, Antonio. Presero in affitto un’altra abitazione, perché il primo appartamento dove avevamo vissuto mio padre l’aveva lasciato quando la moglie se ne era andata, per tornare anche lui dai suoi genitori. Io avevo sette anni quando nacque il mio fratellino, mi ricordo benissimo quando lo portarono  casa. Ero felicissima: finalmente saremmo stati una famiglia come tutte le altre. Cercai di aiutare mia madre con il piccolino, lo cullavo mentre lei dormiva di pomeriggio; mi mettevo la carrozzina vicino e lo controllavo mentre facevo i compiti. Raffaella era sempre nervosa. Diceva che era stata davvero una stupida a fare un altro figlio con quell’uomo, cioè mio padre, che non aveva imparato niente dal primo sbaglio, cioè io. La nostra casa era il caos. C’erano panni sporchi dappertutto. Pannolini. Biberon. Scatole di roba varia che qualcuno avrebbe dovuto mettere a posto. Mia nonna veniva spesso da noi. Puliva. Cucinava. Faceva di tutto e di più. Ma per mia madre non era mai abbastanza. La verità era che a lei il ruolo di mamma e moglie stava troppo stretto. Si sentiva soffocare come un animale in gabbia. Per lei la famiglia era un peso: non provava alcuna gioia a occuparsi di noi. Lei voleva uscire, andare a ballare.

Per Raffaela non valeva la regola  che per le mamme il bene dei figli viene prima di tutto. No, Raffaella voleva sentirsi libera di pensare solo a sé. Ai suoi desideri. Non ce l’aveva nel cuore uno spazio da dedicare agli altri, anche se questi “altri” erano i suoi figli, carne della sua carne.

 

Così, appena mio fratello cominciò a mantenersi sulle sue gambe, mia madre se ne andò di nuovo. Stavolta non tornò dai nonni e non mi portò con sé. Scappò via con uno di cui si era invaghita. Era un ragazzo più giovane di lei, faceva l’elettrauto in un garage che si trovava proprio nella via dove abitavamo. Mia madre passava tutti i giorni davanti alla sua saracinesca per andare a prendere il caffè a casa di Carmela, una sua amica. Evidentemente Angelo, l’elettrauto, l’aveva notata scendere dal suo palazzo e infilarsi in quello di Carmela. Oppure era stata proprio Raffaella a farsi notare, forse l’aveva guardato come era solita fare quando era interessata a qualcuno. Perché quando mia madre puntava qualcuno non gli dava tregua fino a che non aveva raggiunto il suo obiettivo. Magari gli aveva sorriso in maniera maliziosa e inequivocabile. Sicuramente andò così, perché è così che fa mia madre. Ancora oggi. Raffaella non è mai sazia di guardare i maschi e di farsi correre dietro. Solo che oggi non le riesce più tanto facile come quando era ragazza: anche se è una donna ancora giovane, il suo viso è avvizzito, già segnato da tutti i peccati che ha fatto. E così, come nella migliore (o peggiore, dipende dai punti di vista) telenovela sudamericana, Raffaella e Angelo, convinti di essere stati baciati in fronte da un grande e inarrestabile amore, scapparono via insieme. Non so nulla di quel periodo della vita di mia madre. Non so dove vivesse e di cosa si nutrisse, visto che Angelo aveva mollato il lavoro per stare con lei e visto che la mia genitrice non aveva mai lavorato un’ora in vita sua, non penso che iniziò a farlo proprio in quel frangente.

Il giorno dopo la fuitina di Raffaella, mio padre andò a bussare alla porta di nonna Teresa. Si presentò con me per la mano e Antonio in braccio. «Hai messo al mondo una puttana» le disse. E ci lasciò lì. Nonna ci abbracciò e si mise a piangere. Mia madre telefonava per sapere come stavamo, ma per alcuni mesi non ci venne mai a trovare. Diceva che non poteva e io non le chiedevo il motivo. Il mio fratellino piangeva tutti i giorni. Intanto anche mio padre si era trovato una fidanzata, una donna meravigliosa che volle conoscerci e frequentarci. Da quando c’era Alberta nella vita di mio papà, il fine settimana lo passavamo sempre con loro due. Alberta faceva delle cose con me che io non avevo mai fatto con mia madre. Mi portava a comprare vestiti nuovi. Al bar a prendere la cioccolata. Accompagnava mio padre ai colloqui scolastici, s’interessava a me e mio fratello. Ci voleva bene, ne ero sicura allora e lo sono ancora oggi: il bene quando c’è te lo senti addosso come un mantello. Quello fu un bel periodo, eravamo sereni. Anche Antonio aveva smesso di piangere per l’assenza della mamma che comunque ogni tanto si presentava a farci visita. Poi morì il nonno e fu una tragedia sotto tutti i punti di vista. Mia madre fece la pazza quando mio padre mise piede con la sua fidanzata in casa dei suoi genitori per fare le condoglianze a nonna Teresa. Disse che quella lì, l’amante di mio padre, non si doveva permettere di venire in casa sua, che non c’entrava niente con la sua famiglia. E a nulla valsero le proteste di mia nonna che dichiarava che Alberta era una donna perbene e che le era grata per come si occupava amorevolmente dei suoi nipoti. Raffaella tornò a vivere a casa dei suoi genitori. «Ora che mio padre non c’è più, devo prendere in mano io le redini di questa famiglia» asserì, e quella che doveva essere una rassicurazione a me suonò come una minaccia bella e buona. Tanto si mise con impegno e tanto fece che riuscì a riprendersi suo marito. Sì, perché intanto la sua telenovela col giovane elettrauto era giunta al termine. «È pur sempre la madre dei miei figli» si giustificò mio padre quando la sua fidanzata scoprì che si era riappacificato con la moglie.

 

Mentì, mio padre. Lui non lo fece per me e non lo fece per mio fratello. Lui tornò con Raffaella perché l’amava, di un amore disturbato, marcio; un sentimento malato che gli aveva messo radici nel petto e che vinceva sulla sua buona volontà. Così tornammo tutti a vivere fra le mura che ci avevano già visto piangere e arruffarci sulla nostra infelicità. Io non ero né triste né contenta. Mi sentivo vuota. Come una che non ha più niente dentro e chi se ne frega, facciano come vogliono, sono loro gli adulti.

Mi mancava la nonna e mi mancava Alberta. E comunque non ci credevo che i miei genitori non si sarebbero separati ancora. Anzi vivevo con l’ansia addosso di quando sarebbe successo. Stavolta mia madre sembrava ben intenzionata a tenersi stretto il marito; forse convincerlo a riprovarci non era stato tanto facile, io proprio non mi capacitavo di come ci fosse riuscita: Luigi stava bene con Alberta e anche io e mio fratello stavamo bene. Evidentemente Raffaella aveva su di lui un ascendente fortissimo.

Mia madre e mio padre nei primi tempi che tornarono insieme fecero sfoggio del loro grande amore in tutte le occasioni che si presentarono. Matrimoni di parenti. Natali in famiglia. Feste di compleanno. Passeggiate mano nella mano. Ma, come da copione, durò poco. Ben presto ripresero a parlarsi con disprezzo, a litigare ferocemente davanti a noi figli. I motivi? Sempre gli stessi. Raffaella non faceva niente da mattina a sera. Non puliva, non cucinava, non si occupava dei figli. Di giorno se ne usciva e la sera tirava tardi davanti alla tivù. Luigi accusava Raffaella di essere una poco di buono, non si fidava di lei, la seguiva, le faceva scenate di gelosia. E lei gli rinfacciava che lui era un fallito, che stava in fabbrica tutto il giorno per quattro ceci e che le faceva fare una vita da poveraccia. Però, nonostante tutto l’odio che si vomitavano addosso, almeno fra le lenzuola dovevano stare bene se no non si spiega come ebbero l’ardire di concepire un altro figlio. Il terzo. Quando mi accorsi che mia madre era incinta le dissi con cattiveria: «Non potevi starci attenta? Perché mettere al mondo un altro bambino che dovrà soffrire come me e Antonio? Perché non vai ad abortire?». E lei si fece una risata sarcastica e poi aggiunse: «Non sai quante volte ci sono già andata ad abortire, in questi anni». Dio mio, che razza di mostro era la donna che mi aveva messo al mondo?

Ed eccomi qua, stasera. Un sabato sera che giustamente mio marito vorrebbe passare con gli amici, ma io non posso. Mi sono sposata col primo ragazzo che mi ha detto di amarmi e di voler stare con me. E sono stata fortunata perché Michele mi vuole bene veramente e anch’io gliene voglio tantissimo. Lui è il centro della mia vita. Ma non posso scordarmi dei miei fratelli. Antonio e Gaia. Antonio vive con mio padre ed è in quella fase di contestazione tipica dell’adolescenza; litighiamo spesso perché lui dice che gli faccio solo prediche, d’altronde, qualcuno dovrà pur fargliele, le ramanzine, qualcuno dovrà pur preoccuparsi della sua educazione. Gaia, invece, la mia adorata sorellina, è come una figlia per me. Cerco di sottrarla alla sofferenza che ha sfregiato la mia infanzia, ma non è affatto facile perché Raffaella quella è e non ha alcuna intenzione di cambiare. Con Michele sono riuscita a trovare un po’ di felicità e avrei tutto il diritto di stare finalmente un po’ bene, di pensare a me. Di uscire il sabato sera per andare a ballare come tutti i miei coetanei, come non ho mai potuto fare.

 

Quando Gaia aveva poco più di due anni, i miei genitori si lasciarono di nuovo. Io tirai un sospiro di sollievo. Potete immaginare quanto sia doloroso per una figlia tirare un sospiro di sollievo nel momento in cui la sua famiglia si sfascia? Ma noi una vera famiglia non lo siamo mai stati. Io e miei fratelli siamo solo tre poveri disgraziati che hanno avuto la sfortuna di nascere da due persone che non erano fatte per stare insieme. Anzi, mia madre non era proprio fatta per sposarsi e ancor meno per fare figli. Eppure, con tutta la leggerezza che la contraddistingue ha messo al mondo tre figli e Dio solo sa quanti altri se ne è fatta strappare dal ventre. Mio padre, invece, non è così male, per  esempio quando stava con Alberta era affettuoso e dolce; avevamo trovato un bellissimo equilibrio, ma lui è un debole e non seppe dare il giusto valore a quello che aveva costruito con una donna perbene.

Non potrò mai perdonargli di aver dato più importanza al sentimento morboso che lo univa a sua moglie che a suoi figli. Ho contezza del fatto che i miei genitori si erano fidanzati da piccoli, che mi avevano concepita che non erano neanche maggiorenni, ma poi, caspita, sono cresciuti. Avrebbero dovuto assumersi delle responsabilità, come fanno tutti. E invece Raffaella e Luigi hanno continuato a vivere per loro e fra di loro, senza curarsi dei bambini che ogni tanto mettevano nel mondo per vivacizzare un po’ il loro rapporto. Con Antonio ci sentiamo tutti i giorni; voglio che mio fratello sappia di poter contare su di me. Gaia vive con Raffaella a casa di nonna Teresa che si è fatta vecchia e non ha più la forza di crescere i figli di sua figlia, per questo la mia sorellina è spessissimo con me. Mi preoccupo per lei, anche se secondo mia madre sono io che sono paranoica, la bambina con sua madre sta benissimo. Povera nonna, quanta collera si è presa a causa di Raffaella.«Povera stella, te lo giuro che io ho fatto di tutto per sostenere il matrimonio dei tuoi genitori. Nonno vendette la terra che aveva ereditato da suo padre e a cui teneva tanto pur di aiutarli. Devo passarmi la mano per la coscienza e dirti che la colpa di tutto questo sfacelo  non è stata di tuo padre, ma di mia figlia. Fosse stato per tuo padre, sarebbe andato tutto bene. È mia figlia che è una persona brutta, e non sai quanto male mi fa doverlo ammettere, proprio con te che sei figlia sua. Tu non sei come lei, non ti preoccupare. Tu sei una donna meravigliosa e buona. Spero che il buon Dio sappia ricompensarti di tutto l’amore e la cura che dedichi ai tuoi fratelli» così mi ha detto mia nonna, qualche giorno fa. «Grazie, nonnina mia! Non temere, io non sono affatto preoccupata di assomigliare a lei. Tu sei stata mia madre, io sono come te».

E mio marito che prima si era tanto  arrabbiato per la serata in discoteca saltata, ora è tornato a casa con tre pizze. Sarà un bel sabato sera anche così. Mangiando le pizze direttamente dal cartone. E poi ci vedremo un film per bambini abbracciati alla nostra piccola Gaia.

Sì, saremo felici anche così.

Anche se, certo, la mia felicità e quella dei miei fratelli non sarà mai paragonabile a quella di quanti  hanno avuto una madre e un padre che li hanno amati e protetti.

 

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