Quello che non ho

Cuore
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Vi riproponiamo sul blog la storia* più apprezzata della settimana 

 

Spesso sono stati gli altri a farmi pesare il fatto di avere problemi di deambulazione e di linguaggio. Ma la mia fortuna, fin da piccola, è stata la capacità di concentrarmi su quello che posso fare. E anche se la mia vita non è stata un valzer, a modo mio ho sempre cercato di danzare

STORIA VERA DI ORIETTA NADALINI RACCOLTA DA ROBERTA GIUDETTI

 

«Buongiorno, mi chiamo Orietta Nadalini. Sono qui per il colloquio con la dottoressa M.».

«Scusi… Può ripetere?». Panico. Non il mio, ma della persona che mi sta di fronte. L’ho visto accadere spesso. Vanno in ansia se non capiscono cosa sto dicendo. Credono che io ci rimanga male. Ma nei miei 54 anni di vita mi sono talmente abituata allo sguardo attonito e alla bocca spalancata di chi non sa come dirmi che non ha capito, che è davvero difficile che me la prenda. Soffro di disartria, un problema di articolazione del linguaggio. A causa di un’asfissia neonatale durante il parto podalico, mi sono ritrovata con una diagnosi di tetraparesi spastica. Dal lato pratico questa condizione ha comportato problematiche nella deambulazione, nell’utilizzo della manualità fine e per l’appunto del linguaggio. La mia vita, insomma, non è stata un valzer, eppure ho sempre cercato, a modo mio, di danzare.
Fin da piccola i miei genitori mi hanno spiegato la causa della mia disabilità e in casa ne abbiamo sempre parlato, affrontando insieme i successi e le frustrazioni. E fin da piccola mi è venuto spontaneo porre l’attenzione non tanto su ciò che mi mancava e che non ero in grado di fare, ma sulla necessità di valorizzare al  massimo ciò che potevo fare. Certo, non riuscivo a correre come i miei compagni ma riuscivo a stare al loro passo se camminavano. Non avrei avuto la parte di Giulietta se avessero messo in scena Shakespeare durante il laboratorio teatrale, ma avrei potuto esprimere le mie idee sull’interpretazione.

Concentrarmi sul far fruttare al meglio le mie risorse è diventata la mia filosofia di vita e mi ha aiutata anche a superare i momenti di sconforto che, credetemi, ci sono stati.

Quando poi ho cominciato a uscire dalla comfort zone del mio paese per andare a studiare prima alle superiori a Trento e poi soprattutto all’università a Padova, ho dovuto utilizzare tutte le mie risorse per trovare il modo di superare i limiti che mi imponevano le barriere architettoniche.

Durante quegli anni ho raggiunto grandi risultati: non mi riferisco solo a traguardi importanti come la laurea, ma anche a qualcosa di squisitamente quotidiano come salire su un treno senza dover essere aiutata. Quelli sono stati anni in cui mi sono anche divertita moltissimo. Ho conosciuto Gio, Dani, Luisa, Roby e tanti altri amici che fanno ancora parte della mia vita. Amici che consideravano la mia disabilità una caratteristica della mia persona, non qualcosa di invalidante. In sostanza avevo gli occhi azzurri, i capelli lunghi e problemi di deambulazione e di linguaggio. Certo, quando cantavamo le canzoni di Mina a squarciagola, brilli di fragolino, io ero decisamente la meno intonata, ma non mi sentivo a disagio per questo.

Gli anni a Padova sono stati indimenticabili: i primi innamoramenti, le sbronze, le discussioni fino all’alba. Non esagero quando dico che è stato il periodo più spensierato della mia vita, proprio come accade solitamente alle persone a quell’età.

Fino alla laurea, che ho conseguito a 23 anni, ho incontrato amici e docenti eccezionali. Grazie a loro non mi ero ancora resa conto che per alcune persone la disabilità altrui può essere fonte di profondo disagio perché da sempre si continua a emarginare quello che che non si comprende fino a fondo.

La prima volta che ho percepito la disabilità prevalere sulla persona è stata quando ho sostenuto un colloquio per accedere alla scuola di specializzazione post laurea. In quel momento mi sono resa conto che nel corso degli anni non avrei dovuto affrontare solo i problemi legati alla mia disabilità, ma anche quelli dovuti al pregiudizio sulle mie capacità e competenze.

La psicologa che mi ha fatto il colloquio ha dichiarato esplicitamente che non avrei potuto accedere alla scuola: vista la mia disabilità, mi consigliava di orientare le scelte professionali lontano dalla psicologia perché secondo lei non avrei mai potuto fare quel mestiere. Quel responso è stato un colpo al cuore, ma non mi sono arresa. Ho fatto un secondo colloquio in un’altra scuola di specializzazione a Milano. Durante l’incontro il collega ha voluto sapere le motivazioni della mia scelta, le aspettative che avevo e solo alla fine abbiamo parlato della mia disabilità.

Essere stata ammessa a questa scuola è stato per me un grande passo verso la realizzazione di un sogno. Questo percorso mi ha anche dato più consapevolezza delle mie risorse e della volontà di accettare come una sfida quotidiana il non lasciarmi condizionare dai miei limiti. Sentirmi autonoma, non dover dipendere necessariamente da qualcuno, è sempre stato importante per me.Anche per questo ho preso molto presto la patente e, grazie a un’auto con il cambio automatico, ho iniziato a guidare senza problemi; da allora ne ho fatti di chilometri! All’inizio degli anni Novanta ero pronta per entrare nel mondo del lavoro. Da ogni colloquio però uscivo con un dubbio: l’interlocutore aveva valutato la mia disabilità piuttosto che le mie competenze?

È stato il direttore di Consolida (Consorzio cooperative sociali trentine) il primo a riconoscere non solo le mie competenze trasversali, ma anche a intravvedere le mie potenzialità di crescita professionale. Mi ha proposto un incarico come psicologa presso la Cooperativa sociale “CS4”, realtà neonata a Pergine Valsugana, in provincia di Trento, nata per offrire servizi ai disabili cognitivi e io ho accettato con entusiasmo.

Una parte importante del mio lavoro consiste nel sostegno psicologico alle persone con disabilità intellettiva e alle loro famiglie. Il percorso non è semplice perché suscita una vasta gamma di emozioni sia nelle persone che nei loro familiari: sofferenza, frustrazione, a volte rabbia quando sembra che non ci siano progressi, ma anche grandi soddisfazioni per i traguardi ottenuti insieme. Nonostante l’impegno in cooperativa, non ho mai del tutto rinunciato alla libera professione portando avanti anche il mio studio privato.

La mia vita però non è stata segnata solo dal lavoro. Certo, è sempre stato importante per me dimostrare le mie capacità, ma non ho mai trascurato la mia vita sociale. Ci sono stati anni, da ragazza, in cui ho creduto che forse non avrei mai incontrato un uomo che mi avrebbe amata davvero. Ma tranne in alcuni momenti di sconforto, ho creduto in me stessa contando sulla mia energia e sulla voglia di vivere. Con il passare degli anni mi sono resa conto che proprio la mia vocazione al lavoro avrebbe comportato qualche problema in un’ipotetica futura vita di coppia. Avrei dovuto incontrare un uomo che, oltre ad accettarmi completamente, non avesse paura di dividermi con i miei pazienti. Poi ho conosciuto Claudio che ha saputo vedermi nella mia totalità. Ci siamo incontrati la prima volta nel 1999: era il cugino di un’amica e ci aveva dato un passaggio da Verona a Trento. Durante il viaggio avevamo riso e scherzato e si era subito creata una bella intesa. L’ho rivisto solo qualche anno dopo quando è venuto in vacanza in Trentino e abbiamo ritrovato l’intesa di anni prima. Nel 2001 ci siamo messi insieme e abbiamo iniziato una bella relazione che ha portato a una serena convivenza.

La nostra vita a due è simile a quella di tante altre coppie che lavorano. Abbiamo imparato ad adattarci ai rispettivi ritmi e a suddividerci i compiti di casa. Entrambi amiamo viaggiare, ma quando mio padre si è ammalato abbiamo dovuto rallentare.

Sono figlia unica e mia madre poteva contare solo su di me, così ho preferito non allontanarmi mai troppo da casa.

A lungo io e Claudio non abbiamo sentito la necessità di sposarci. Amici e parenti ci domandavano quando avremmo compiuto il grande passo: noi rispondevamo che stavamo aspettando che nostra nipote Francesca diventasse maggiorenne per poterci fare da testimone. Un giorno Francesca, ormai maggiorenne e stufa di aspettare, ci ha organizzato una simpatica festa di “non matrimonio”, così abbiamo capito che forse era arrivato il momento. In più, entrambi stavamo per compiere 50 anni. Così nel luglio del 2017 abbiamo fatto finalmente il grande passo. È stata una festa stupenda alla quale mancava solo mio padre che ci aveva lasciato qualche anno prima.

Dal 2009 cammino con fatica e ho deciso serenamente di avvalermi di un deambulatore.
La mia vita professionale mi ha impegnato molto, ma mi ha anche dato grandi soddisfazioni. Nel novembre del 2019, con l’aggravarsi della salute di mia madre ho usufruito di un congedo straordinario per starle accanto, rinunciando temporaneamente anche alla libera professione. In questo periodo di astensione dal lavoro mi è mancato il rapporto con i pazienti, ma ho anche messo a fuoco alcune priorità e ora sono pronta a rientrare.

Nell’attesa, tra alti e bassi, coltivo e proteggo come un fiore prezioso la mia filosofia di vita: vedere sempre quello che ho e non quello che non ho. Per esempio, quest’anno ho provato una grande soddisfazione a essere candidata per il premio “Quando la volontà vince ogni ostacolo”, importante riconoscimento dedicato alle persone con disabilità che hanno raggiunto mete prestigiose. Non ho vinto, ma già essere stata nominata non è meraviglioso?

*Pubblicata su Confidenze n. 27
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